Vera storia di due amanti infelici ovvero Ultime lettere di Iacopo Ortis (1912)/Lettera XXXVII

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Lettera XXXVII

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LETTERA XXXVII

14 maggio.

S’io fossi pittore, qual ampia materia al mio pennello! L’artista, immerso nell’idea deliziosa del bello, addormenta, o mitiga almeno, tutte le altre passioni. Ma... se anche fossi pittore? Ho veduto ne’ pittori e ne’ poeti la bella, e talvolta anche la schietta natura; ma la natura somma, immensa, inimitabile non l’ho veduta dipinta mai. Omero, Ossian e Dante, i tre maestri di tutti gli ingegni sovrumani, hanno investito la mia fantasia ed infiammato il mio cuore: ho bagnato di caldissime lagrime i loro versi, e ho adorato le loro ombre divine, come se le vedessi, assise su le vòlte eccelse che sovrastano l’universo, a dominare l’eternitá. Pure... gli originali, che mi vedo dinanzi, mi riempiono tutte le potenze dell’anima; e non oserei, Lorenzo..., non oserei, se anche si trasfondesse in me il genio di Michelangelo, tirarne [p. 130 modifica] le prime linee. — Eterno Iddio! quando tu miri una sera di primavera, ti compiaci forse della tua creazione? Tu mi hai versato, per consolarmi, una fonte inesausta di piacere; ed io? L’ho guardata sovente con indifferenza. — Sulla cima del monte, indorato dai pacifici raggi del sole che va mancando, io mi vedo accerchiato da una catena di colli, sui quali ondeggiano le messi e si scuotono le viti, sostenute in ricchi festoni dagli olivi e dagli olmi: le balze e i gioghi lontani van sempre crescendo, come se gli uni fossero imposti sugli altri. Di sotto a me le coste del monte sono spaccate in burroni infecondi fra i quali si vedono offuscarsi le ombre della sera, che poco a poco s’innalzano: il fondo oscuro e orribile sembra la bocca di una voragine. Nella falda del mezzogiorno l’aria è signoreggiata dal bosco che sovrasta e offusca la valle, dove pascono al fresco le pecore e pendono dall’erta le capre svagate. Cantano flebilmente gli uccelli, come se piangessero il giorno che more; muggono le giovenche; e il vento pare che si compiaccia del sussurrar delle fronde. Ma da settentrione si dividono i colli, e s’apre all’occhio un’interminabile pianura: si distinguono ne’ campi vicini i buoi che tornano a casa; lo stanco agricoltore li siegue appoggiato al suo bastone; e, mentre le madri e le mogli apparecchiano la cena all’affaticata famiglia, fumano le lontane ville ancor biancicanti e le capanne disperse per la campagna. I pastori mungono il gregge, e la vecchiarella, che stava filando su la porta dell’ovile, abbandona il lavoro e va accarezzando e fregando il torello o gli agnelletti, che belano intorno alle loro madri. La vista intanto si va dilungando, e, dopo ampia fila di alberi e di campi, termina nell’orizzonte, dove tutto si minora e si confonde: lancia il sole, partendo, pochi raggi, come se quelli fossero gli estremi addio che dá alla natura; le nuvole rosseggiano, poi vanno languendo, e pallide finalmente si oscurano: allora la pianura si perde, l’ombre si diffondono sulla faccia della terra, ed io, quasi in mezzo all’oceano, da quella parte non vedo che il cielo.

Ier sera appunto io scendeva a passo a passo dal monte per andarmene da Teresa, che m’aspettava. Il mondo era in [p. 131 modifica] preda alla notte, ed io non sentiva che il canto della villanella e non vedeva che i fuochi de’ pastori. Scintillavano tutte le stelle, e, mentr’io salutava ad una ad una le costellazioni, la mia mente contraeva un non so che di celeste, ed il mio cuore s’innalzava come se aspirasse ad una regione piú sublime assai della terra. Mi sono trovato al piano presso la chiesa: suonava la campana de’ morti, e un senso di umanitá trasse i miei sguardi sul cimiterio, dove ne’ loro cumuli coperti di erba dormono gli antichi padri della villa. — Abbiate pace, o nude reliquie: la materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiú; tutto si trasforma e si riproduce!... Umana sorte! men infelice degli altri chi non la teme... — In questo mentre mi sento pigliar per un braccio... O anima mia, come gli affetti patetici, che t’inondavano, si sono subito convertiti in piacere!... Era Teresa, uscita per incontrarmi.

S’appoggiò al mio braccio, e noi passeggiammo taciturni per la riva del fiumicello sino al lago de’ cinque fonti. E lá ci siamo, quasi di consenso, fermati a mirar l’astro di Venere che ci lampeggiava sugli occhi. — Oh! — diss’ella con un dolce entusiasmo — credi tu che il Petrarca non abbia anch’egli visitato sovente queste solitudini, sospirando, per le ombre pacifiche della notte, la sua perduta amica? Quando leggo i suoi versi, la mia fantasia me lo dipinge qui..., malinconico..., errante..., seduto sul tronco di un albero, pascersi de’ suoi mesti pensieri e volgersi al cielo, cercando con gli occhi lagrimosi lo spirito di Laura. Io non so come quell’anima tutta celeste abbia potuto sopravivere in tanto dolore e fermarsi fra le miserie de’ mortali! Oh, dolce amico! quando s’ama da vero!... — Ella mi stringeva la mano, ed io sentiva liquefarmisi il cuore.

— Provvidenza divina! — esclamai — era pur fino dalla mia fanciullezza ch’io veniva tutti gli anni fra questi colli: eppur non aveva scoperto mai questo lago, dove il caso mi trasse la prima volta, quando le sue acque mi guidavano a conoscerti.

— Né io voleva passare l’inverno fuor di cittá: vi ho passato l’autunno... felicemente — un sorriso ritardò quest’ultima parola, che fu, o Lorenzo, un coltello al mio cuore. — Ma — proseguí — [p. 132 modifica] chi può conoscere gl’insensibili accidenti da cui sempre è di retta la nostra sorte? Sono passati anche i giorni del verno; questa stagione temuta da tutta la natura io la bramerei sempre... sempre simile al verno di quest’anno. — Tacque con un’occhiata di affettuosa compiacenza, e risanò dentro di me la ferita che si andava rimarginando. — Sì, angelo..., tu sei nato per me! Ed io... — Ma l’anima tornò in se stessa e fu in tempo di soffocare queste parole, che giá mi scoppiavano dalle labbra.

Ella saliva la collina, ed io la seguitava. Le mie facoltá erano tutte di Teresa; ma la tempesta, che le aveva agitate, era alquanto cessata. — Tutto è amore — diss’io, ripigliando il discorso di prima: — l’universo non è che amore! E chi lo ha mai piú sentito o meglio dipinto del Petrarca? Adoro come divinitá que’ pochi geni che si sono innalzati sopra gli altri mortali; ma il Petrarca io... l’amo; e mentre il mio intelletto gli sacrifica come a nume, il mio cuore lo invoca padre e amico consolatore. — Teresa mi rispose con un sospiro.

La salita l’aveva stancata. — Riposiamo — diss’ella. L’erba era umida; io le proposi un gelso poco lontano; o amico! il piú bel gelso che mai. È sublime e frondoso come il ciriegio del giardino di Teresa, dov’ella, suonando l’arpa, siede con me e con la ragazza nelle sere che non ha voglia di passeggiare: sui rami piú alti v’ha un nido di cardellini; e noi lo chiamiamo il nostro albero favorito.

Frattanto ella giaceva sotto il gelso, ed io le recitava le odi di Saffo. Sorgeva la luna... oh!...

Perché, mentre scrivo, il mio polso batte con piú frequenza? Beata sera! tu hai spiegate d’innanzi a me tutte le tue ricchezze, ed hai destato il mio cuore perché le potesse conoscere. O uomo, l’universo cangia d’aspetto a norma della tua prosperitá!

Si foss’ella avveduta... ch’io... l’amo? No, Lorenzo, io spero che no.

Oh, come, tornando, la strada fu breve! Noi salutammo Venere, che stava per immergersi in seno alle nuvolette che sorgevano dall’estremo occidente. [p. 133 modifica]

Teresa, lasciandomi su la porta del giardino: — Addio — diss’ella; e, rivolgendosi dopo pochi passi...: — Addio. —

Io rimasi estatico. Avrei baciate l’orme de’ suoi piedi... Fendeva un suo braccio, e i suoi neri capelli svolazzavano mollemente; ma poi... appena appena il viale e la fosca ombra degli alberi mi concedevano di veder ventilare da lungi le sue bianche vesti; e, poiché l’ebbi perduta, tendeva l’orecchio, sperando di udir la sua voce...

Partendo, mi volsi con le braccia aperte, quasi per consolarmi, all’astro di Venere. Era anch’egli sparito.