Viaggio di un povero letterato/III

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III - Il mattino a Vicenza

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Capìtolo iii.


IL MATTINO A VICENZA.


Vicenza: circa ore cinque del mattino.

Esco dalla stazione: oh, che bel piazzale verde, solenne, boscoso dietro la stazione! Esso è compiutamente deserto. Mi siedo sopra una banchina. Di contro, da un’enorme parete verde di altissime piante, ecco perfora la incandescenza del sole nascente. Apro la valìgia: sturo la bottiglietta, contenente vero caffè, caffè con la caffeina; sturo e libo lentamente di contro al sole.

Delizioso! il caffè, la caffeina, il sole, il mattino di lùglio; la solitùdine del luogo, deliziosa. Fa male il caffè con la caffeina? bisogna disarmare il caffè, come scrive il dottor Ry? bisogna disarmare il vino? Altre cose più feroci, piuttosto, bisognerebbe disarmare! Ah, ma noi [p. 16 modifica]siamo gente pacìfica, e disarmiamo il caffè e il vino innocenti.

Lodo la mia saggezza e la mia previdenza di avere condotto meco così opportunamente quella bottiglietta di caffè: lodo anche la mia personale abilità nel preparare il caffè; sopratutto lodo il tappo, il quale nel percorso Milano-Vicenza ha tenuto fermo: il caffè non l’hanno bevuto le camìcie e i fazzoletti; ma lo bevo io, ed è assai buono. Questa volta sono molto fortunato. Di sòlito i tappi che io metto non tèngono mai; ovvero calco troppo, e si rompe il vetro: così che in un modo o nell’altro tutti bèvono all’infuori di me. Ma questa volta bevo io.

È un frescolino gentile ed il cielo è di una purità incantèvole, quasi ingènua. È l’ora che il buon Dio fa la toilette al mondo quando gli uòmini dòrmono? Nessuno mi proibisce di pensare al buon Dio; e nemmeno mi è proibito di crèdere che questo bellissimo sole apra la sua enorme palpèbra, e sorrida, fra il fogliame, tutto per me. Accendo un mezzo toscano ed elevo il suo incenso contro il sole. Anche il toscano è buono, e il mio pensiero va con riconoscenza [p. 17 modifica]verso la anònima sigaràia che lavorò onestamente, e non lasciò cadere capelli dalla cuffietta.

Facciamo un breve esame di coscienza; ciò terrà le veci di una preghiera mattutina: io ora guardo con giòia il sole.

Io posso ancora gustare il piacere di un òttimo caffè.

Io posso ancora fumare un mezzo toscano; e fra poche ore sarò in grado di fare un’òttima colazione. Dunque accontentiàmoci.

Sì, è vero: molte volte ho desiderato di «non èssere»; ma questa mattina sono di opinione contrària, e desìdero di rinnovare il contratto di locazione su la superfìcie del mondo.

Io godevo appena di questo pensiero, quando un’ombra mi passò davanti, e mi sovvenni di quelli che vivèvano un tempo nel sole, su la superfìcie del mondo, e sono adesso nell’ombra; e mi sèmbrano darsi la mano, e gli ùltimi scomparsi sono più vicini, vicini a me, ed io sento ancora il contatto delle gèlide e care loro mani. I più lontani scomparsi mi affèrrano e dìcono: «non ti scordare di noi!». E più tormentoso è un senso [p. 18 modifica]penosamente oscillante, che mi fa dubitare se la morte sia interamente la morte o se la vita sia la morte. Certo lui non è più. Ma perchè così cupa è l’imàgine tua, caro fanciullo? Fosti così ridente nei dieci anni della tua breve vita! Ed anche la madre mia non è più. Ella, invece, non è cupa imàgine: talvolta mi sorride, non so perchè; mi sorregge ancora, mi par di sentire queste parole: «Su, coràggio!».

Certo però quei capelli grigi sono voluti andar dietro a quei mòrbidi rìccioli biondi. Ah, sole, sole, tu non le essiccherai facilmente queste lagrime!

La vòglia di salire ad Asiago era tutta scomparsa.

Non c’era nessun treno allora in partenza; perchè quando insorge questo spàsimo convulso del dolore, sento una necessità di fuggire, fuggire.

Ma ecco per ventura giunge un carrozzone giallo, vuoto, del tram elèttrico.

Salgo. — Dove va questo tram?

— Il tram attraversa Vicenza — mi si risponde — e poi ritorna ancora alla stazione. [p. 19 modifica]


Oh, dolce Vicenza! me ne sta tuttavia la visione nel cuore. La città dormiva ancora, e il tram mi faceva passare davanti agli occhi un’armonia di case, casette antiche, istoriate, scure, adorne di bìfore ed archi; e infra mezzo festoni di verdura, e tronchi schietti sorgenti, con la pompa delle chiome verdi su nel gran sereno; e poi acque verdi correnti; e gerani, gerani, fiammanti gerani, come una giovinezza della natura che sorride sui neri balconi. Tutti balconi fioriti. Una giovinezza e una decrepitezza in caro abbracciamento. E stando il tram fermo per qualche minuto, mi affissai nella chioma tonda di un pino che campeggiava nel cielo: e insensibilmente mi parve che si movesse per ritmo di danza, come una fèmina. Eppure l’ària era senza vento.

Sorrisi di letìzia naturale. Oh, Itàlia! Vicenza, cara città itàlica! Ma per capire la ragione di questa mia letìzia, bisogna considerare come io avessi lasciato poche ore prima Milano: Milano [p. 20 modifica]enorme, pesante di cemento, con le vie nuove alla tedesca.

Ma già la città si destava, qualche negozio era aperto: svelto, barcollando sotto il peso del «bigòl», passàvano le contadine col loro cappellùccio: odor di maggiorana; vasi di rame lucenti, colmi di latte; e un cinguettar di richiami, di saluti cadenzati: «Buon dì, ciciricì!».

Ad un tratto stupii: davanti ai miei occhi dilatò una piazza con palagi regali, eccelsi: cùpole, domi, logge si incendiàvano ai raggi del sole. Ricordai: lì era stata Venèzia, la Serenìssima. Gente togata e guerriera sporgeva fantasticamente da quei palagi.

— Com’è quel brulichio scuro lì nella piazza? — domandai.

— Oggi è mercato.

Il tram mi riportò onestamente alla stazione. Sono le sei e mezzo. I colli Bèrici rilucono ora di una verdura profonda; le chiome, o tonde, o cuspidate degli alberi (pini, cipressi), dentèllano il cielo, che adesso è di una purità di cobalto intenso. C’è una villa lassù? Una villa settecentesca, con logge e colonne, affrescata dal Tièpolo? Socchiudo gli occhi: vedo tutti i personaggi del [p. 21 modifica]Fogazzaro: le dame in tupè bianco: i signori xe tuti lustrìssimi, con bei panciotti a fiorami: sièdono presso una bella fontana, fra quella verdura. Si dòlgono si pèntono di lor dolci peccati, e se li accarèzzano: si scambiano motti leggiadri in francese e in italiano venezièvole.

Ma Franco e Luisa del Pìccolo Mondo Antico non sono lì. Essi stanno in disparte ed immoti: i loro occhi tranquilli e tetri si vòlgono verso la terra, dove siede di per sè, immèmore, la pìccola Ombretta:

Ombretta sdegnosa del Missisipì.

Ella porta le pòvere scarpette, cucite da sua madre; ella giuoca immèmore con una sua pòvera bàmbola. Perchè lagrimai allora in quel mattino? Perchè vidi anche la barba nera, il volto tèrreo di Giovanni Segantini che dipingeva con sacri segni quel quadro, dove sopra un cimitero due àngioli sostèngono verso il cielo una pìccola creatura?