Virginia (Alfieri, 1946)/Atto quarto

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Atto quarto

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Atto terzo Atto quinto

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ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Appio, Marco.

Appio Virginio in Roma?

Marco   Ei v’è pur troppo.
Appio   Visto
l’hai tu?
Marco   Cogli occhi miei. Tu stesso in breve
anco il vedrai, ch’ei di te cerca.
Appio   Or come
del campo uscí, se un mio comando espresso
ritener vel dovea?
Marco   Non giunse in tempo
forse il divieto tuo; forse anco i duci
a obbedirti eran lenti...
Appio   E chi mai tardo
ad obbedir d’Appio i comandi fora?
Icilio, or veggo, prevenir mi seppe...
Mercé ne avrá, qual merta. Anzi che tratta
fosse Virginia al tribunal, giá corso
n’era l’avviso al genitore. Assai
cangia l’affar d’aspetto, al venir suo:
ma pur, non io...
Marco   Giá in pianto ambo i parenti
con la figlia, pe’ trivj, e in ogni strada,
supplici, in veste squallida ravvolti,

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scorrono; e dietro lor lasciano immensa

traccia di pianto e di dolor: quí forse
tu passar li vedrai. — Ma, in ben altr’atto,
cinto da stuol, che vie piú ingrossa, scorre
per ogni via feroce Icilio in armi:
prega, minaccia, attesta, esorta, grida.
Pianto di madre, beltá di donzella,
valor canuto di guerriero padre,
e di tribun sedíziose voci,
terribil esca a piú terribil fiamma
stanno per esser; bada.
Appio   Or via, se il vuoi,
trema per te; per me, se il vuoi: purch’io
per me non tremi. — Va: Virginio veggo
venire a me: lasciami sol con esso.


SCENA SECONDA

Appio, Virginio.

Appio E che? le insegne abbandonare e il campo

osi cosí? Di Roma oggi i soldati
dunque a lor posta van, tornano, stanno?
Virg.o Tal v’ha ragion, che licito può farlo.
Pure il severo militar costume,
cui da troppi anni io servo, or non infransi.
Chiesto commiato ottenni. In Roma torno
per la mia figlia;... e il sai.
Appio   Che puoi per essa
dir tu, che in suon piú forte a me nol dica
la legge?
Virg.o   Odimi. — Padre io son, pur troppo!
E come padre io tremo. Invan mi ascolto
suonar dintorno minacciose voci
di plebe a favor mio: so, che possanza
è molta in te; che a viva forza urtarla

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fia dubbia impresa; e che in piú rie sventure

precipitar Roma poss’io, né trarti
forse di man la figlia. Appio, minacce
dunque non far; che il nuocer so fin dove
concesso t’è: ma pensa anco, deh! pensa,
che in un te stesso a immenso rischio esponi...
Appio Preghi, o minacci tu? Son io quí forse
dei giudizj assoluto arbitro solo?
Poss’io la figlia a un vero padre torre?
Serbargliela anzi del mio sangue a costo
deggio, e il farò: ma, s’ella tua non nasce,
che vaglion preghi? — Il fiel, che mal nascondi,
ben io, ben so, donde lo attingi: ingombro
t’ha Icilio il cor di rei sospetti infami;
ei, che a sue mire ambizíose s’apre
colle calunnie strada. Or, puoi tu fede
a un tal fellon prestar? tu che il migliore
de’ cittadini sei, genero scegli
dei tribuni il peggiore? in un con esso
perder tua figlia vuoi? — D’Icilio certa
è la rovina, ed onorata morte
ei non s’avrá, qual crede. Ei contra Roma
congiura; ei cova orribili disegni.
Chiama tiranni noi; ma in seno ei nutre
di ben altra tirannide il pensiero.
Spenti vuol tutti i padri: al popol poscia
servaggio appresta; e libertá pur grida.
Tanto piú rio mortifero veleno,
quanto è ravvolto entro piú dolce scorza.
Giá il segnal di ribelle innalza a mezzo,
e a mezzo quel di traditore. Io l’armi
all’armi oppongo; alla fraude empia, l’arte.
Tutto è previsto giá. Da lui non sai
sue trame tu; ch’egli e ministro e velo
a sue mire ti vuol, ma non compagno
a sue rapine. Ei sa, che Roma hai cara

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quanto la figlia tua; quindi si mostra

sol di tua figlia il difensor, ma ride
poscia ei di te co’ traditor suoi pari.
Sol si cela da te; ma a lor non teme,
qual è, mostrarsi l’oppressor di Roma.
Virg.o Tolte le figlie alle tremanti madri,
e ai genitor, che in campo han di lor vita
speso il migliore; i magistrati fatti
tremendi a noi, piú che i nemici: or come
temere omai d’altro oppressor può Roma?
Appio Icilio, il so, di un folle amor mi taccia;
ma quai prove ne adduce? Il suo sfrenato
ardire, il grido popolar, la troppa
dolcezza mia, fur prove. È mio cliente
Marco; ei ripete la tua figlia; io dunque
ne son l’amante, io ’l rapitore. Or odi
ragion novella!
Virg.o   È Icilio sol, che il dica?
Altri ha, che il dice.
Appio   La donzella forse,
vinta da lui.
Virg.o   Che piú? prove son troppe,
cui vergogna non men ch’ira mi vieta
poter narrare. Una ne fia, non lieve,
il tuo scolparten meco.
Appio   Hai fermo dunque
d’unirti pure co’ ribelli.
Virg.o   Ho fermo
d’aver mia figlia, o perder me.
Appio   Te salvo
vorrei, ch’io t’amo.
Virg.o   E perché m’ami?
Appio   Roma
può abbisognar del braccio tuo: deh! lascia,
che solo Icilio pera; il merta ei solo.
Degno di viver tu...

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Virg.o   Degno, t’intendo,

me di servir tu credi...
Appio   Ugual te stimo,
se non maggior, d’ogni Romano: e in prova,
riporterai tu in campo il piede appena,
ch’io d’innalzarti a militar comando
avrò...
Virg.o   Tentar me di viltade anch’osi?
Premio a virtú dovuto, a me il darebbe
d’Appio il favore? Or qual fec’io delitto,
per meritarmi il favor tuo? Pur troppo
spento anche in campo è d’ogni onore il seme;
e il sa ben Roma, e i suoi nemici il sanno;
essi, che vanto, non avuto in pria,
darsi or ponno, d’aver piú d’un Romano
trafitto a tergo. — È ver, che l’onorate
piaghe, qual’io ti mostro a mezzo il petto,
quai benedir soleansi ne’ figli
dalle romane madri, ora in mal punto,
mal ricevute, e peggio foran mostre,
or che per te si pugna. — A Roma fede
giurai: s’io deggio ritornare al campo,
Roma rinasca. — A me tu parli scaltro;
rispondo io forte. Io son soldato, io padre,
io cittadin: d’ogni altro male io taccio;
e finché Roma il soffre, il soffro anch’io:
ma la mia figlia...
Appio   Non son io, che spinga
Marco a muover la lite, ancor che fama
bugiarda il suoni: bensí tanto io posso
da distornelo, forse. Assai mi prende
di te pietá: senza periglio alcuno,
senza tumulto, a te la figlia forse
render potrei, se tu di lei sentissi
vera pietá: ma tu, di sangue hai sete;
la vuoi d’Icilio sposa, e involger teco

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nella rovina di un fellon tua figlia.

Virg.o Me la puoi... render... tu?
Appio   Se a Icilio torla
tu vuoi.
Virg.o   Glie la giurai.
Appio   Sciorratti ei stesso,
oggi, estinto cadendo. Or va; ti avanza
a risolver brev’ora. È tua la figlia,
se d’Icilio non è: d’Icilio sposa,
far io non posso che con lui non pera.
Virg.o ... Misero padre!... A che son io ridotto?...


SCENA TERZA

Appio.

— Roman, pur troppo, egli è. — Tremar potrebbe

Appio stesso, se Roma in se chiudesse
molti cosí. Ma due, non piú, son l’alme
degne dell’ira mia: canuto, e padre,
è l’un; possenti ceppi: inciampo all’altro
sará lo stesso suo bollore immenso.
Far che in lui primo il furor suo ricada,
fia l’arte... Ma, che veggio? Ecco le donne
venir fra il pianto della plebe. — Or d’uopo
m’è sedurle, o atterrirle.


SCENA QUARTA

Appio, Numitoria, Virginia.

Appio   Infin che tempo

vi avanza, e breve egli è, deh! donne, alquanto
spiccatevi dal torbido corteggio,
da cui, piú ch’util, può tornarven danno. —
Giudice quí per or non sono: ascolta,

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Virginia; vieni; in altro aspetto forse

me quí vedrai.
Virg.a   Col padre favellasti?
Numit. Pentito sei? preso hai miglior consiglio
al fin dal timor tuo?
Appio   Dal timor?... Io?
Dalla pietade il presi. Odimi; e prova
ch’io non pavento, il mio parlar vi sia.
Virginia, io t’amo, e tel confermo: or forza,
che a me ti tolga, esser non può; ragioni,
che a me ti pieghin, ve n’ha molte...
Virg.a   È questo
il cangiar tuo? Deh! madre, andiam...
Appio   Rimani;
ascolta. — E tanto del tuo Icilio cieca
sei dunque? In lui se il temerario ardire
ti piace; ardisco io men di lui? se il grado
n’ami; tribuno anco ei tornasse, pari
fora egli a me? se il cor libero, e gli alti
sensi; non io piú grande in petto il core,
e piú libero serro? io, sí, che farmi
suddito lui, co’ pari suoi, disegno;
mentr’essi a me obbediscono...
Numit.   Ed ardisci
svelar cosí?...
Appio   Tant’oltre io sono, e avanza
sí poco a far, che apertamente io l’oso.
Quant’io giá son, né in pensier pur vi cape:
sta in mio poter, come di mille il brando,
la lingua anco di Marco. Ove tu cessi
d’esser d’Icilio sposa, io la richiesta
fo cessar tosto.
Virg.a   Abbandonarlo?... Ah, pria...
Numit. Oh rea baldanza! Oh scellerato!...
Appio   E credi
che Icilio t’ami, a lato a me? Sue vane

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fole di libertá, suo tribunato,

suoi tumulti sol ama. Ei lungamente
taceasi; or mezzo a se riporre in seggio
te crede, stolto: il fa parlar sua folle
ambizíon, non l’amor tuo. — Ma poni,
ch’io pur anco incontrassi alto periglio
in questa impresa; argomentar puoi quindi,
quanto immenso è il mio amor: possanza, vita
fama arrischio per te. Tutto son presto
dare ad amor; tutto ricever spera
da amore Icilio.
Virg.a   Cessa. — Icilio vile
giá non puoi far, col pareggiarti ad esso,
né grande te. Breve è il confronto: ei tutto
ha in se ciò che non hai: nulla di lui
esser può in te: quant’io ti abborro, l’amo. —
D’amor che parli? A tua libidin rea
tal nome osi dar tu? Non ch’io ’l volessi;
ma, né in pensiero pure a te mai cadde
di richiedermi sposa?...
Appio   Un dí fors’io...
Virg.a Non creder giá, ch’io mai...
Numit.   Di noi stimavi
far gioco: oh rabbia!...
Virg.a   Infame; a nessun patto
piegarmi tu...
Appio   Sta ben: verrai tu dunque
in poter mio, del sangue del tuo amante
cospersa tutta.
Virg.a   Oh ciel!...
Appio   Sí, del tuo amante;...
E del tuo padre.
Numit.   Oh crudo!...
Virg.a   Il padre!
Appio   Tutti.
Cade chi voglio, a un cenno mio: nel campo

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Siccio per me vel dica. Un’ora manca

a dar segno al macello.
Virg.a   Icilio!... Un’ora!...
Appio, pietá... L’amante... il padre...
Numit.   Spenti
due tali prodi ad un tuo cenno? E credi
te nel tuo seggio indi securo?...
Appio   E s’anco
meco tutto sossopra irne dovesse,
Virginio, Icilio, ricondotti a vita
foran perciò?
Virg.a   Tremar mi fai...
Numit.   ... Deh!... m’odi.
Né fia, che priego?...
Appio   Con un sol suo detto,
ella entrambi li salva.
Virg.a   ... Appio,... sospendi
per oggi il colpo;... io ti scongiuro. — Intanto
io deporrò di nozze ogni pensiero...
Icilio viva, e mio non sia; dal core
io tenterò la imagin sua strapparmi...
Mia speme, in lui posta tanti anni, or tutta
da lui torrò: forse... frattanto... il tempo...
Che posso io piú? Deh! viva Icilio: io cado
a’ piedi tuoi. — Ma, oimè! che fo?... che dico?
Te sempre odiar vieppiú farammi il tempo,
e vieppiú Icilio amare. — Io nulla temo;
romani siamo: ed il mio amante, e il padre,
vita serbar mai non vorrian, che prezzo
di lor viltade fora: a perder nulla,
lor trafitti, mi resta. In tempo un ferro
non mi darai tu, madre?
Numit.   O figlia,... vieni...
Numi v’ha in ciel dell’innocenza oppressa
vindici; in lor speriam: vieni...
Virg.a   Al mio fianco
deh! sii sostegno;... il mio piede vacilla....

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SCENA QUINTA

Appio.

Mi si resiste ancora? — Ostacol nuovo

m’è nuovo spron: plebea beltá, che il petto
mi avria per se di passeggera fiamma
acceso appena, or che di sdegno freme
Roma per lei, profondamente or stammi
fitta, immota, nel core; or quanto il regno
m’è necessaria, e piú. — Ma, l’ora sesta
lungi non è. Vediam, se in punto è il tutto,
per insegnare alla malnata plebe,
che in lei non piú, ma tutta in me sta Roma.