Una vecchia amicizia troncata/II

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I III
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Capitolo II

In cui si può vedere di che s’invogliò Ivan Ivanovic; per la qual cosa nacque un colloquio tra Ivan Ivanovic e Ivan Nikiforovic, e come esso andò a finire.
U
na mattina — s’era nel mese di luglio — Ivan Ivanovic era sdraiato sotto la tettoia. La giornata era calda, un’aria secca si spandeva in folate. Ivan Ivanovic s’era già sbrigato dalla sua visita in città, era stato dai mietitori, aveva girato per la fattoria, aveva rivolto domande ai contadini e alle donnicciuole incontrate per via, per sapere d’onde venissero, dove andassero e a che fare; s’era stancato a morte, e s’era sdraiato per riposare. Messosi giú, stette un pezzo a guardare i granai, il cortile, le rimesse, i polli che correvano per la corte, e pensava tra sé: «Signore, mio Dio! che padrone io sono! che mi manca? polli, fabbriche, granai, qualunque capriccio, vodka distillata, filtrata; nel giardino, [p. 322 modifica]pere, prugne; nell’orto, papaveri, cavoli, piselli... che cosa non si trova presso di me?... Vorrei sapere: che cosa mi manca?».

Dopo aver rivolto a se stesso questa profonda domanda, Ivan Ivanovic rimase pensieroso: e frattanto i suoi occhi cercavano nuovi oggetti: passarono al di là della siepe nel cortile di Ivan Nikiforovic, e furono attratti involontariamente da un curioso spettacolo. Una vecchietta rinsecchita portava fuori, uno dopo l’altro, degli abiti smessi e li esponeva all’aria sopra una corda tesa. Ecco, una vecchia uniforme, coi risvolti sdruciti, tendeva all’aria le maniche e abbracciava un corpetto di broccato; dietro ad esso si affacciava un abito da gentiluomo coi bottoni fregiati di stemmi e il bavero tarlato; bianchi pantaloni di cachemir macchiati, che in tempi lontani erano stati infilati alle gambe d’Ivan Nikiforovic, e ora forse avrebbero potuto stendersi sulle sue dita; dietro ad essi ne furono subito appesi degli altri in forma della lettera A, poi un besc’mèt1 azzurro, che Ivan Nikiforovic si fece fare dodici anni prima, quando si preparava al servizio militare e già s’era fatto crescere i baffi. Da ultimo, a poco a poco, apparve una spada, che pareva una guglia spor[p. 323 modifica]gente nell’aria. Poi cominciarono a svolgersi le pieghe di qualcosa di simile a un caffettano di color verde-prato con bottoni di rame grandi come monete da cinque copeke. Di sotto alle pieghe faceva capolino una sottoveste guarnita di passamano d’oro con un grande sparato sul davanti. La sottoveste fu tosto coperta da una gonna della nonna buon’anima, con certe tasche da poter contenere un cocomero ciascuna. Il tutto, confuso insieme, costituiva per Ivan Ivanovic uno spettacolo molto curioso, intanto che i raggi del sole colpivano a tratti una manica azzurra o una verde, i risvolti rossi o un pezzo di broccato d’oro, o scherzando sulla punta della spada, facevano di tutto ciò qualcosa di straordinario, simile a quella capannuccia del Presepio che i furfanti girovaghi portano per le fattorie — specialmente quando una turba di gente, accalcandosi fitta fitta, contempla il re Erode con la corona d’oro, o Sant’Antonio che mena la capra; dietro la capanna stride il violino, lo zingaro fa il tamburo picchiandosi con le mani sulle labbra, e il sole va sotto, e il fresco pungente della notte meridionale inavvertitamente stringe piú forte le fresche spalle e i colmi seni delle villanelle.

Presto la vecchietta sbucò fuori dal guardaroba, ansando e tirandosi dietro un’antica sella; [p. 324 modifica]con le staffe strappate, con sdrucite le tasche di cuoio per le pistole, e con una copertura che già un tempo era di colore scarlatto, con orlature d’oro e placche di rame.

«Che vecchia grulla!» pensava Ivan Ivanovic «sta’ a vedere che tirerà fuori anche Ivan Nikiforovic per esporlo all’aria.»

E per l’appunto: Ivan Ivanovic non si sbagliò interamente nella sua congettura. In capo a cinque minuti si videro dondolare i calzoni di tela di Ivan Nikiforovic che occuparono col loro volume quasi la metà del cortile. Dopo di che, la donna tirò fuori anche un cappello e un fucile.

«Oh questo che significa?» pensava Ivan Ivanovic. «Io non avevo mai veduto un fucile in casa di Ivan Nikiforovic. O che se ne fa? Sparare, egli non spara, e pure ha un fucile! Perché lo tiene? E che cosina magnifica! È tanto tempo che io avrei voluto averne uno cosí. Io ho una gran voglia di possedere quel fuciletto; mi piace di trastullarmi col fuciletto.»

— Ehi, quella donna, quella donna! — gridò Ivan Ivanovic accennando con un dito.

La vecchia si accostò alla siepe.

— Che affare è cotesto che avete, nonnina?

— Lo vedete da voi: un fucile!

— Che sorta di fucile? [p. 325 modifica]

— Chi lo sa di che sorta? Se fosse mio, allora forse saprei anche dire di che è fatto; ma è del padrone.

Ivan Ivanovic si levò su e cominciò a osservare il fucile da tutti i lati, e dimenticò di fare una ramanzina alla vecchia perché lo metteva a prendere aria insieme con la spada.

— A quanto pare, esso è di ferro — continuò la vecchia.

«Hm! di ferro. Perché di ferro?» diceva tra sé Ivan Ivanovic. «È molto tempo che il padrone lo possiede?»

— Può darsi magari da molto tempo.

— Una bella cosina! seguitò a dire Ivan Ivanovic. — Glielo voglio chiedere. Che se ne fa lui? O pure farò un cambio con una cosa qualsiasi. Di’ un po’, nonnetta: è in casa il padrone?

— Sí, è in casa.

— Che fa? Si riposa?

— Sí, si riposa.

— Bene, ora verrò da lui.

Ivan Ivanovic si vestí, prese in mano un bastone nodoso per difendersi dai cani, giacché in Mirgorod i cani s’incontrano per le vie molto piú numerosi degli uomini, e uscí.

La fattoria di Ivan Ivanovic era, sí, confinante con quella di Ivan Nikiforovic, e sarebbe [p. 326 modifica]stato facile passare dall’una all’altra attraverso la siepe; ma Ivan Ivanovic passò per la strada. Da quella strada fu necessario voltare in un vicolo, tanto stretto che, se capitava che vi si incontrassero due carretti a un cavallo, non era possibile che passassero tutti e due, e restavano cosí uno di fronte all’altro fino a che, presili per le ruote posteriori non si trascinavano ciascuno al lato opposto sulla strada; il pedone poi s’infiorava tutto con le lappe che crescevano ai due lati del vicolo presso i recinti. In quel vicolo riuscivano da un lato il fienile d’Ivan Ivanovic, dall’altro il granaio, il portone e la colombaia di Ivan Nikiforovic. Ivan Ivanovic si accostò al portone, e suonò il campanello; di dentro si levò un latrato di cani; ma la muta dal pelo variato, presto tornò indietro di corsa, dimenando le code, avendo visto che si trattava di una persona conosciuta. Ivan Ivanovic traversò il cortile, in cui offrivano un variato spettacolo i tacchini allevati da Ivan Nikiforovic con le proprie mani, le bucce dei cocomeri e dei poponi, in un posto erbaggi, in un altro una ruota rotta o un pezzo di cerchione, o ragazzini rotolantisi per terra con le camicie imbrattate: un quadro di quelli cari ai pittori! L’ombra dei panni appesi alla corda copriva quasi tutto il cortile e gli comunicava un non [p. 327 modifica]so che di fresco. La vecchia gli andò incontro con un inchino, sbadigliò e rimase lí intontita. Innanzi alla casa era stata adattata una scaletta con una tenda sorretta da due colonne di quercia, sicuro riparo dal sole, che in quella stagione nella Piccola Russia non ama scherzare e inonda di sudore ardente da capo a piedi il viandante. Da questo si può vedere quanto forte era il desiderio che Ivan Ivanovic aveva di procurarsi quell’oggetto indispensabile, se egli si decise a uscire di casa a quell’ora, mancando perfino alla sua costante abitudine di uscire a passeggio soltanto di sera!

La camera in cui entrò Ivan Ivanovic era interamente buia, perché le imposte erano chiuse, e un raggio di sole, passando per una fessura praticata in una imposta, prendeva un colore iridato e, battendo sulla parete di contro, vi disegnava un variato paesaggio dai tetti di canne, dagli alberi e dai panni stesi nel cortile: soltanto, in immagine capovolta. Da ciò si comunicava a tutta la stanza una incantevole penombra.

— Dio vi assista! — disse Ivan Ivanovic.

— Oh, salute a voi, Ivan Ivanovic — rispose una voce da un angolo della stanza. Allora soltanto Ivan Ivanovic scorse Ivan Nikiforovic sdraiato su un tappeto disteso sul [p. 328 modifica]. — Scusate se mi trovo dinnanzi a voi al naturale. — Ivan Nikiforovic non aveva niente addosso, neppure la camicia.

— Non importa. Avete riposato oggi, Ivan Nikiforovic?

— Ho riposato. E voi, avete riposato, Ivan Ivanovic?

— Ho riposato.

— E cosí, ora vi siete alzato?

— Ora mi sono alzato? Cristo vi assista, Ivan Nikiforovic! Come è possibile dormire fino a quest’ora? Io sono tornato adesso adesso dalla fattoria. Magnifico frumento, strada facendo, incantevole! E il fieno, cosí alto, molle, erboso!

— Gorpina! — chiamò gridando Ivan Nikiforovic — porta ad Ivan Ivanovic un po’ di vodka, e dei pasticcini con crema acida.

— Che bel tempo oggi!

— Non ne dite bene, Ivan Ivanovic. Che il diavolo se lo porti! Non si sa dove cacciarsi dal gran caldo.

— Via, che bisogno c’è di mentovare il diavolo? Badate, Ivan Nikiforovic! vi ricorderete delle mie parole, quando sarà troppo tardi: sconterete all’altro mondo i vostri discorsi senza timor di Dio.

— In che vi ho offeso, Ivan Ivanovic? Non [p. 329 modifica]ho toccato né vostro padre né vostra madre. Non so in che cosa vi ho offeso.

— Basta, basta, Ivan Nikiforovic!

— In nome di Dio, io non vi ho offeso, Ivan Ivanovic!

— È strano che finora le quaglie non vengano al fischio.

— Pensate come vi pare, come piú vi piace, ma io non vi ho offeso in niente.

— Non capisco perché non vengono — continuò Ivan Ivanovic, fingendo di non udire Ivan Nikiforovic: — forse la stagione non è ancora matura... e pure la stagione pare che sia quella che deve essere.

— Dite che il grano è bello?

— Grano magnifico, meraviglioso!

Seguí un momento di silenzio.

— Come va, Ivan Nikiforovic, che mettete all’aria i vestiti? — disse finalmente Ivan Ivanovic.

— Già, un bel vestito, quasi nuovo, me lo ha fatto sciupare quella vecchia maledetta; ora gli faccio prendere aria; è panno fine, di ottima qualità; basta rivoltarlo, e si può portarlo ancora come nuovo.

— Mi è piaciuta molto una cosina, Ivan Nikiforovic.

— Quale? [p. 330 modifica]

— Ditemi, per favore, a che vi serve quel fucile ch’è stato esposto all’aria insieme col vestito? — Allora Ivan Ivanovic offrí il tabacco: — Posso osare di chiedervi il favore?

— No, grazie; fiuto il mio. — Cosí dicendo Ivan Nikiforovic tastò intorno a sé, e afferrò il suo cornetto. — Guarda un po’ che citrulla, quella vecchia! Anche il fucile è andata ad appendere lí? Buon tabacco, è questo che prepara l’ebreo di Sorocinjez! Non so quello che ci ficca dentro, ma è cosí profumato! somiglia un poco a un’erbetta odorosa. Ecco, prendete, masticatene un po’ nella bocca; non è vero che sa di erbetta? Prendetene, per favore!

— Dite, di grazia, Ivan Nikiforovic; io torno sempre sull’argomento del fucile: che ve ne farete? È chiaro che non vi serve.

— Come non mi serve? E se capita di dovere sparare?

— Dio vi assista, Ivan Nikiforovic! quando è che voi dovrete sparare? Forse in una vostra seconda esistenza? Voi, per quanto so io e anche gli altri ricordano, non avete finora ucciso neppure un’anatra, e proprio la vostra natura non è stata creata da Domineddio per sparare. Avete il portamento e la figura pesante: come potete cacciarvi nei paduli, mentre il vostro abito, che non in qualsiasi discorso [p. 331 modifica]conviene indicare col proprio nome, si mette ad asciugare anche adesso? Che sarebbe allora? No; a voi è necessario godere la pace, il riposo. (Ivan Ivanovic, come si è ricordato innanzi, usava un linguaggio straordinariamente pittoresco, quando era necessario persuadere qualcuno. Come parlava! Dio buono, come parlava!) Sí, a voi occorrono atti decorosi. Ascoltatemi, datelo a me!

— Com’è possibile? È un fucile di prezzo; di quei fucili adesso non ne trovate in nessun luogo. Già anche allora quando mi apparecchiavo per il servizio militare, lo comprai da un turco; e adesso da un momento all’altro lo dovrei dar via! Com’è possibile? È un oggetto indispensabile.

— A che scopo vi è indispensabile?

— Come a che scopo? e quando capiteranno in casa dei malviventi?... Non sarebbe dunque indispensabile? Grazie a Te, Signore Iddio, adesso io sono tranquillo e non ho paura di nessuno. Ma perché? perché so di avere nel magazzino un fucile.

— Bel fucile! ma il cane è guasto, Ivan Nikiforovic.

— Che gli fa se è guasto? Si può riparare; occorre soltanto ungerlo con olio di lino, perché non prenda la ruggine. [p. 332 modifica]

— Dalle vostre parole, Ivan Nikiforovic, non vedo affatto una disposizione amichevole a mio riguardo. Voi non volete far niente per me in segno di amicizia.

— Come, ora, potete dire questo, Ivan Ivanovic, che io non vi dimostro alcun sentimento di amicizia? Come, non avete coscienza? I vostri bovi vanno a pascolare nella mia steppa, e io non li ho catturati neppure una volta. Quando andate a Poltava, mi chiedete sempre il baroccio, e che? forse che ve l’ho ricusato qualche volta? I vostri ragazzini si ficcano attraverso la siepe nel mio cortile e giuocano coi miei cani, e io non dico niente: lascio che giuochino, basta che non mi tocchino niente! lascio che giuochino!

— Giacché non volete donarlo, allora, di grazia, facciamo un cambio.

— Che mi date, allora, in cambio? — A questa domanda Ivan Nikiforovic si piegò su un braccio e guardò fiso Ivan Ivanovic.

— Vi darò in cambio la mia scrofa scura, quella che ho allevata nel mio stabbio. Una magnifica scrofa! Vedrete se l’anno appresso non vi darà dei porcellini.

— Io non capisco, Ivan Ivanovic, come voi potete dire una cosa simile. A che serve a me [p. 333 modifica]la vostra scrofa? Forse per fare i funerali al diavolo?

— E dàlli! senza il diavolo non ve la cavate! Fate peccato, per Dio, fate peccato, Ivan Nikiforovic.

— E come voi — diciamo la verità — Ivan Ivanovic, per un fucile mi darete sa il diavolo che cosa: una scrofa!

— E perché la scrofa «sa il diavolo che cosa », Ivan Nikiforovic?

— Come dunque? voi stesso potete giudicare molto bene. Un fucile a quel modo, una cosa fine; e quella sa il diavolo che è: una scrofa! Se non lo diceste voi, potrei considerarla come un'offesa verso di me.

— Che ci trovate di male in una scrofa?

— Ma, diciamo la verità, per chi mi prendete? Io una scrofa...

— State buono, state buono! Ormai non... Tenetevi il vostro fucile, che stia pure a muffire e arrugginirsi in un angolo del granaio! non voglio piú parlarvene.

A questa dichiarazione seguí un intervallo di silenzio.

— Si dice — ricominciò poi Ivan Ivanovic — che tre re hanno dichiarato la guerra al nostro imperatore. [p. 334 modifica]

— Sí, me l’ha detto Pietro Fedorovic. Che guerra è codesta? E perché si fa?

— Sicuramente, non si può dire che guerra sia, Ivan Nikiforovic. Io suppongo che quei re vogliono che noi abbracciamo la religione turca.

— Guarda un po’ che pazzi! che voglia è venuta a costoro! — esclamò Ivan Nikiforovic, sollevando la testa.

— E allora, vedete, il nostro imperatore ha dichiarato ad essi la guerra per questo. «No!» dice lui «prendete voi, invece, la religione cristiana!»

— Che ne dite? Certo i nostri li batteranno, Ivan Ivanovic!

— Li batteranno. Dunque non volete, Ivan Nikiforovic, fare un cambio dandomi quel fuciletto?

— Per me è una cosa strana codesta, Ivan Ivanovic; voi siete, a quanto pare, una persona stimata per la vostra istruzione, ma parlate come un ragazzo viziato. Sarei dunque io un tale scemo...

— State buono, state buono. Vada in malora il fucile! crepi! non vi dirò piú niente.

Frattanto portarono la merenda.

Ivan Ivanovic bevve un bicchierino e mangiò un pasticcetto con la crema.

— Sentite, Ivan Nikiforovic, oltre la scrofa [p. 335 modifica]vi darò anche due sacchi d’avena; appunto voi non avete seminato avena. Quest’anno, a ogni modo, sarete costretto a comperare l’avena.

— Per Dio, Ivan Ivanovic, per parlare con voi bisogna prima essersi rimpinzato di piselli. (Questo è ancora niente; Ivan Nikiforovic si lascia scappare ben altro che tali frasi!) Dove mai s’è visto che uno abbia cambiato un fucile con due sacchi d’avena? Di sicuro, non ci rimetterete la vostra pelliccia!

— Ma voi avete dimenticato, Ivan Nikiforovic, che io vi darò anche una scrofa.

— Come! due sacchi d’avena e una scrofa per un fucile?

— Sí; che, forse, è poco?

— Per un fucile?

— Certo, per un fucile.

— Due sacchi per un fucile?

— Due sacchi, non vuoti, ma pieni d’avena; e la scrofa l’avete dimenticata?

— Date un abbraccio alla vostra scrofa, o se non volete, allora al diavolo!

— Oh, guai a stuzzicarvi! Vedrete: all’altro mondo vi trafiggeranno la lingua con aghi arroventati per cotali parole sacrileghe. Dopo aver parlato con voi è necessario lavarsi la faccia e le mani, e perfino farsi dei suffumigi.

— Scusate, Ivan Ivanovic: il fucile è un [p. 336 modifica]oggetto nobile, è il piú curioso passatempo, e poi anche come ornamento in una stanza è simpatico...

— Voi, Ivan Nikiforovic, dovreste farvi portare attorno col vostro fucile come il pazzo col tascapane dipinto — disse Ivan Ivanovic con rabbia, perché realmente cominciava già ad irritarsi.

— E voi, Ivan Ivanovic, siete un paperone bell’e buono.

Se Ivan Nikiforovic non avesse detta quella parola, i due si sarebbero bisticciati tra loro e si sarebbero lasciati come sempre da buoni amici; ma ora successe tutto il contrario. Ivan Ivanovic andò in bestia.

— Che cosa avete detto, Ivan Nikiforovic? — domandò egli alzando la voce.

— Ho detto che rassomigliate a un paperone, Ivan Ivanovic!

— Come avete osato, signore, dimenticando la convenienza e il rispetto dovuto al grado e al casato di un uomo, ingiuriarlo con una parola cosí offensiva?

— Che c’è di offensivo? E poi — diciamo la verità — che avete da gesticolare cosí con le braccia, Ivan Ivanovic?

— Ripeto: come avete osato, a dispetto di ogni convenienza, chiamarmi un paperone? [p. 337 modifica]

— Per burlarmi di voi, Ivan Ivanovic! Che avete tanto da schiamazzare?

Ivan Ivanovic non fu piú padrone di sé; le sue labbra tremavano; la bocca cambiò la sua solita posizione in forma di V e si fece simile a un O; mandava lampi dagli occhi, da far paura. Ciò capitava a Ivan Ivanovic molto di rado; bisognava che fosse fortemente irritato.

— Ebbene, vi dichiaro — disse Ivan Ivanovic — che farò conto di non conoscervi.

— Gran disgrazia! affé di Dio, non piangerò per questo! — rispose Ivan Nikiforovic. E mentiva, mentiva com’è vero Dio, mentiva! La cosa gli dispiaceva assai.

— Non metterò piú piede in casa vostra.

— Eh eh eh! — disse Ivan Nikiforovic, che dalla rabbia non sapeva che fare, e contro il suo costume, s’era alzato in piedi. — Ehi, donna, ragazzo! — A questa chiamata si mostrò sulla porta la solita vecchia allampanata e un ragazzo di bassa statura infagottato in un lungo e largo soprabito.

— Prendete Ivan Ivanovic per un braccio, e mettetelo alla porta.

— Come! A un gentiluomo? — prese a gridare con un senso di orgoglio e indignazione Ivan Ivanovic. — Non vi ci provate neppure! Io vi anniento insieme col vostro padrone [p. 338 modifica]insensato! Il corvo non saprà dove trovarvi! — (Ivan Ivanovic parlava con forza straordinaria quando aveva l’anima in subbuglio).

Tutto il gruppo formava un quadro imponente: Ivan Nikiforovic ritto in mezzo alla sala in tutta la sua bellezza, senz’alcun velo; la vecchia a bocca aperta e con la faccia atteggiata al piú grande stordimento e piena di paura; Ivan Ivanovic col braccio teso in alto come si solevano rappresentare i tribuni romani! Fu un momento straordinario, uno spettacolo grandioso! E intanto, non c’era che un solo spettatore; ed era il garzone dal soprabito smisurato, che stava lí abbastanza tranquillo e si puliva il naso con un dito.

Infine Ivan Ivanovic prese il cappello.

— Molto bene vi comportate voi, Ivan Nikiforovic! egregiamente! Me ne ricorderò!

— Andate, Ivan Ivanovic, andate! E badate di non capitarmi tra i piedi: altrimenti, Ivan Ivanovic, vi pesterò ben bene il muso!

— Eccovi per tutta risposta, Ivan Nikiforovic — rispose Ivan Ivanovic facendogli le corna, e si sbatté dietro la porta, che risuonò cigolando e si riaprí di nuovo.

Ivan Nikiforovic si affacciò sulla porta e voleva aggiungere qualcosa, ma Ivan Ivanovic non si vedeva già piú, e volava via dal cortile.

Note

  1. Veste corta usata dai Tartari.