Visioni sacre e morali/Visione II
Questo testo è completo. |
◄ | Visione I | Visione III | ► |
VISIONE II.
PER LA MORTE
DI
ANNA ENRICHETTA
DI BORBONE
FIGLIA
DEL CRISTIANISSIMO RE
LUIGI XV.
Dal nembifero mosse alto Apennino
D’atri vapor nitrosi un turbin carco
3Su l’albeggiar del rorido mattino,
E l’opposto fendendo aere più scarco,
D’oscure lo coprì nubi spezzate,
6Che a lungo stese, e poi ricurve in arco
Scendean, salìan or sciolte, or aggruppate;
E dopo l’urto divideansi rotte
9Da lampi lucidissimi, e segnate,
E dal vortice ovunque eran condotte
Ratto più che non è colpo di fionda.
12Seco traean grandine, vento, e notte.
Dei Re de’ fiumi alla populea sponda
M’avvidi il pien d’orror nembo appressarse
15Per lo increspar retrogrado dell’onda,
Pel lume fier, che sovra l’argin arse,
E per la polve attorcigliata in suso,
18Che sì folta negli occhi a me si sparse,
Ch’io colle man difesi il ciglio chiuso.
E allor fra le addoppiate ire del vento,
21Fra la tempesta e i fulmini confuso
S’io cadessi non so ne’ sensi spento,
E lo Spirto di Dio nuove infondesse
24Idee nell’Alma assorta in quel momento,
O se più lieve il corpo mio rendesse
L’agitato sul Po turbin che apparve
27Sì, che l’eterea via varcar potesse;
So che su ’n erto colle esser mi parve
Sì certo spettator di quel ch’io vidi,
30Che fora colpa il dubitar di larve.
Eran alberghi di silenzio fidi
Del colle i poggi, ove nè armento rara
33Orma imprimea, nè augel formava i nidi:
Lo vestìa terra ingrata e d’erbe avara,
E l’adombravan le ramose piante
36Del sacro incenso e della mirra amara.
Muta era l’aria; ma in que’ sassi infrante
Tratto tratto s’udian d’un pianger fioco
39Note come di suon da lungi errante:
Lume tranquillo ivi splendea, ma poco;
E pur un non so che d’interna pace
42Mi rendea dolce, ancor che triste, il loco.
Mentre in profondo meditar sen giace
L’Alma gl’ignoti obbietti: E perchè vai
45Pensando a quel che tua ragion ti tace?
Gridò una voce; e d’improvvisi rai
Un angelico volto il mio coperse,
48Tal che attonito caddi, e l’adorai.
Sorgi, ei soggiunse, e serba a chi converse
Nel tuo spirto e nel mio l’antico nulla
51Quel culto umíl, che il tuo stupor m’offerse;
Serbalo a chi da una mortal Fanciulla,
Ancor che in sè beatamente eterno,
54Nacque per te raccolto in rozza culla.
Chè un servo io son del suo voler superno,
Delle Galliche insiem piagge e de’ fiumi
57Invitto difensor scelto al governo;
Ed or l’immenso Donator dei lumi
Per quest’aere benigno a te m’invía,
60Perch’io il tuo fosco immaginar allumi.
Tu giunto sei per sì mirabil via
Al colle sacro alla Pietà celeste;
63L’aria, che tu respiri, è sacra e pia;
Sacro è il terren, che premi: e ben fra queste
Balze il soave lagrimar, che puomme
66Intenerir non chiuso in fragil veste,
E il suolo dalle rupi ime alle somme
Steril di fiori, e gli alberi stillanti
69D’incenso e mirra le odorate gomme
Mostran a te, che i puri voti, e i pianti,
E le voglie del reo piacer nemiche
72Salgon quai fumi eletti a Dio davanti.
Ma perchè tu comprenda all’Alme amiche
Di virtù quanto sia dolce il perdono,
75Quanto il premio maggior delle fatiche,
Vieni, e della Pietà divina al trono
Volar uno vedrai Spirto innocente,
78Chè di Pietade anche innocenza è dono.
Delizia un tempo fu di Re possente,
Or lagrimevol cura, e lungo affanno
81Nella memoria della Franca gente:
Fu già Enrichetta in terra; or più non hanno
Altro di lei le Galliche contrade
84Che la sua morta spoglia, e il vivo danno.
Placida nel suo volto era onestade,
Rigida sol nel core, e le splendea
87In ogni atto gentil grazia e umiltade;
Al virginale onor pregio accrescea
L’età fiorita, ed all’etade il senno,
90E nata al regno anzi che al Re parea.
Ben a tante virtù premj si denno
Pari al divino amor, che in lei le accese.
93Ma vieni omai, vieni, ch’io l’ale impenno;
Poggia tu meco oltra le vie scoscese,
Poichè il tuo piede al loco, ove pria giunse,
96La costa solo, e non la cima ascese.
Alzossi, e l’aer forte così disgiunse,
Che questo spinse me fino alla vetta,
99Mentre al mio tergo in sè si ricongiunse.
Era la cima una pianura eletta
L’erbe e i fiori a nutrir, non da confine,
102Non da monte maggior ombrata e stretta:
Immense turbe ivi giaceansi chine
In atto umil, dell’adorabil segno
105Fregiate il volto infra le ciglia e il crine.
Nel centro delle turbe il sacro Legno
Da terra alto s’ergea, su cui fu vinto
108Dall’eterna Pietà l’eterno Sdegno;
Il cui tronco di sangue ancor dipinto
L’orme serbava in sè tenere e crude
111Del divin Figlio fra le piaghe estinto.
A lato della Croce una che chiude
Candida nube nel secreto seno
114La terribil di Dio gloria e virtude
Stendeasi a lungo fino al ciel sereno,
E il suo bianco fendea vortice spesso
117Or coll’iride pinta, or col baleno:
Stavansi al cerchio della nube appresso
Gli Angeli della pace, a cui ne’ lenti
120Sguardi il suo raggio avea Pietate impresso;
Ed essi a rammentar quell’opre intenti,
Per cui s’arrese un dì grazia al delitto,
123Alternavan fra loro i casti accenti.
Questi dicea: L’empio Manasse afflitto
Fu ne’ ceppi Caldei, dov’egli giacque
126Pel giusto ai falli suoi fine prescritto;
E pur, gran Dio, tanto il suo duol ti piacque,
Che il regno a racquistar tu lo serbasti;
129E mostrò i ceppi, e sospirando tacque.
Soggiunse un altro: Tu Sanson mirasti
Sotto il fier Filisteo, che il cor gli franse,
132Gemer coi lumi insanguinati e guasti;
E il suo pentir l’arco tuo teso infranse
Sì che rendesti a lui le chiome ultrici;
135E in rammentarne il pianto ei dolce pianse.
Quegli narrò le lagrime felici
Di Ninive, e l’eterna ira che langue,
138E le pendenti affrena ore infelici
Contro al Re Assiro pe’ flagelli esangue
Fra la cenere, il lutto, e lo squallore;
141E i flagelli scoprì sparsi di sangue.
Un fra l’opre cantò l’opra maggiore
Di Pietade e d’Amor, che il Paradiso
144Empiè di bella invidia, e di stupore:
L’Agnel di Dio spietatamente ucciso,
Ostia per l’Uom sul tronco offerta al Padre;
147E abbracciò il tronco, e impallidissi in viso.
Ma ripigliando poi le sue leggiadre
Forme, e la gloria, a cui fu scelto erede,
150Forte gridò fra le beate squadre:
L’Onnipotente abita in questa sede.
Ei tutto può, resister sol non puote
153Dei cor umani al pianto ed alla fede.
Dall’increspar del ciglio, e dall’immote
Mie luci in terra il Duce mio s’avvide,
156Che me dubbio rendean l’ultime note;
E con quella, che al labbro ognor gli arride
Grazia, cui diede il Ver sue voci in cura,
159Sciogliea già il freno alle parole fide,
Quando in pien coro udissi: Ah! vieni, o pura
Alma aspettata; il Ciel per te sospira,
162Che te rapì fuor della valle impura.
Ei cangiò sensi, e mi soggiunse: Or gira
Lo sguardo delle Turbe al lato manco.
165Ecco Enrichetta; a lei ti volgi, e mira.
Ella venía della Pietade al fianco,
E l’aria avea leggiadramente umíle,
168Come d’un volto per dolcezza stanco:
Cingeano i gigli dell’eterno Aprile
Le nere chiome, ed ombreggiavan lieve
171Degli occhi neri lo splendor gentile;
Nè il serto, che in candor vincea la neve,
Era al bruno color misto al vermiglio
174Delle sembianze sue discorde e greve.
Presso alla nube, che asconde il consiglio
Della Divinità, che in un Dio solo
177Il Padre abbraccia, e il divo Amore, e il Figlio,
Ella piegò le sue ginocchia al suolo,
E ubbidienza in lei vinse il desío
180D’erger al centro suo l’ultimo volo.
Allor Pietade incominciò: Tu, Dio,
Tu, Padre, invita nel tuo sen beato
183Quest’Alma tolta al carcer suo natío.
Questa delle mie cure è un pegno amato,
Ch’io fin d’allor, che Fede a te la strinse,
186Le tenni Speme e Caritade a lato:
Questa il terreno Amor schiva rispinse
Dal casto core, e l’amor tuo v’accolse,
189E dove l’un ardéo, l’altro s’estinse:
Questa il real virgineo piè rivolse
Su l’orme tue pei sentier aspri e duri,
192Nè dell’asprezza lor giammai si dolse.
Poichè tu sei puro amator dei puri,
Cangiale in manto di perpetue stelle
195L’orror sofferto de’ suoi giorni oscuri:
Tergi dagli occhi suoi, tergi tu quelle,
Che già sparse per te ne’ tristi tempi
198Del suo peregrinar, lagrime belle;
E l’inebbria di gaudio, e la ríempi
Della tua stessa Deitade, e in lei
201Tu la tua grazia, e la sua gloria adempi.
Chiamala dunque dagli amplessi miei
Per la tua tríonfal diletta Croce
204Ai beni immensi, ove bear la dei,
Chè non fia più, che l’invido veloce
Tempo, o la Morte isterilisca, o rube.
207Tacque Pietade; e sorse un’altra voce
Con suono emulator di mille tube:
A terra, Angeli e Turbe, amore e acquisto
210Del divin Sangue; e allor s’aprío la nube,
E in un abisso incomprensibil misto
Di retti rai, d’ infranti, e ripercossi
213La santa apparve Umanità di Cristo.
Io caddi al suol per lo stupor, nè mossi
Le pupille a mirar l’immagin diva;
216Quando il prosteso anch’ei mio Duce alzossi,
E disse: Vedi; e vidi (o allor più viva
Diè il Cielo agli occhi miei forza secreta,
219O un’altra in lor creò virtù visiva)
Vidi del Verbo in sen quell’Alma lieta,
Che le impresse d’amore il bacio in fronte,
222E la fronte brillò come un pianeta.
Or chi al rozzo mio stil darà le pronte
Note all’obbietto eguali, ond’io lei pinga
225Immersa del piacer vero nel fonte?
Ah! che il solo pensier cieca è lusinga
D’ingegno uman, cui tanto ardir non lice,
228Se pría del fonte stesso ei non attinga.
Quella divinizzata Alma felice
Su le piume d’Amor, che la governa,
231La florida scorrea sacra pendice,
E rammentando altrui la breve interna
Guerra, che fe’ al suo cor, quand’egli visse,
234Parea stupir della mercede eterna.
Mentr’ella al suo parlar tenea sì fisse
L’altr’Alme pie da maraviglia ingombre,
237Strinse il mio Duce a me la destra, e disse:
Tu dubitasti già. Tempo è che l’ombre
In te sorte all’udir, che Dio non possa
240Resister fermo ai preghi, io sciolga, e sgombre.
Benchè quanto da immenso Amor commossa
Sia per lo spirto uman la Mente immensa,
243Vinto abbi tu cinto di nervi e d’ossa,
Pur intender non puoi la forza intensa
Di tanto Amor, che ignoto è a te l’intero
246Valor d’un’Alma, che in sè vuole, e pensa;
Che l’apprezzarla appien serbasi al vero
Conoscitor di lei, che la compose
249Nella fecondità del gran pensiero,
E la sua immagin santa in lei nascose,
E dell’immago per diritto effetto
252Indiviso compagno Amor vi pose.
Or poich’ei fra gli Amanti è il più perfetto,
Conveníente fu ne’ moti sui,
255Che alle leggi d’Amor fosse soggetto;
E perchè Amore era infinito in lui,
Dovean pur infiniti esser i segni,
258Ch’ei ne mostrasse apertamente altrui;
Tal che se chiede Amor, ch’ei non disdegni
Morir per l’Uom già reo, cui vano fora
261Altro mezzo a placar del Ciel gli sdegni,
D’uop’è che ceda, e l’immortal ancora
Natura sua vesta di corpo, e Morte
264In sembianza di servo affronti, e mora;
E scenda nel sepolcro, e colla forte
Sua virtù la sua spoglia avvivi e sleghi,
267Sè stesso in ravvivar, le altrui ritorte.
Or s’ei tal amator è che non neghi
Per l’Uom ribelle abbandonar la vita,
270Com’esser può, che ne resista ai prieghi?
E dell’Alma contrasti al voto, e aíta
Ricusi a lei, che fra i sospir si duole,
273Mentr’egli stesso a sospirar la invita?
Del Duce mio le angeliche parole
Sciolser dai miei pensier la nebbia grave,
276Che la ragion fra i sensi adombrar suole,
E m’infuser conforto al cor soave;
Quando si volse a me l’Anima bella,
279Che più nel suo gioir non spera o pave,
E disse: Il corpo tuo, che rinnovella
Col moto l’ombre sue, mostra che vivi
282Mortale ancor sotto la bassa stella;
Però se avvien, che a ricondur tu arrivi
Nell’aere fosco la tua frale spoglia,
285Col mio tríonfo la mia gloria scrivi:
Scrivi al Real mio Genitor, che toglia
Dal cor l’affanno, e dileguando il lutto
288Scemi alla Madre pia l’acerba doglia;
Sì che la stirpe sua col ciglio asciutto
Renda altrui noto, e col sereno volto,
291Quanto ebbi grato di mia morte il frutto.
Ch’io fior non fui da cruda falce colto
Per onta, o sdegno, ma su l’alta sfera
294Tra i più bei fior dalla Pietade accolto;
E a me non si fe’ notte innanzi sera;
Ma i miei giorni d’assai lunghi mi fúro,
297Per cui rinacqui entro la luce vera.
Scrivi, ch’io mi rammento ognor quel duro
Ultimo addio, ch’ei diemmi, e l’affannata
300Mia voce rese a lui fra il labbro oscuro;
Ch’ei mi è padre anche in ciel; che a me beata
Di gaudio il pianto suo nulla sottragge;
303Ma ch’io non deggio esser col pianto amata.
Poi, se la facil via colà ti tragge,
Ove la mia Germana alberga, e affrena
306Gli abitator delle Parmensi piagge,
Dille, che arresti al lagrimar la piena,
Che amara fe’ su gli occhi suoi ritorno
309Mille fíate con sì larga vena;
Ch’io vidi lei dal lieto mio soggiorno
Chiudersi fra i silenzj e i tristi orrori,
312E odiar la luce dell’ingrato giorno:
Dille, ch’io non obblìo fra i nuovi onori
Del comun sangue, e del gemello nodo,
315Che nel nascer ci avvinse, i primi amori;
Che questi io serbo, e con mirabil modo
De’ miei pensier su le felici penne,
318Mentr’ella invan mi piange, a lei m’annodo.
Tacque, e a paro del sol chiara divenne,
E su l’altr’Alme il foco suo diffuse,
321E parte in sè dell’altrui foco ottenne;
E mentre in essa, e in lor dolce s’infuse
L’alterno fiammeggiar del lume vago,
324Ella nel centro de’ suoi rai si chiuse,
E del colle, e di lei sparve l’immago.
ANNOTAZIONI
ALLA SECONDA VISIONE.
P. 22. | So che su d’erto colle esser mi parve |
Legge l’edizione procurata da Venanzio Varano di Camerino in Venezia 1805 t. 3, pag. 30.
Ivi. | Del sacro incenso, e della mirra amara. |
L’Autore intende in questo luogo di essere stato portato da un turbine sul colle dell’incenso e della mirra; e perciò sembra potersi ad esso applicare questo testo: Vadam ad montem myrræ, et ad collem thuris.
Ivi. | Mi rendea dolce, ancor che triste, il loco. |
Appena è ricordato un esempio del Bembo, che avvalori il latinismo triste in vere di tristo; onde potrebb’essere errore di stampa nelle due edizioni di Parma e di Venezia.
P. 25. | Sorgi, ei soggiunse, e serba a chi converse ec. |
Così nell’Apocalisse, cap. XIX, l’Angelo corregge san Giovanni, che si era prostrato in terra per adorarlo. Et dicit mihi: Vide ne feceris: conservus tuus sum.... Deum adora.
Ivi. | Mostran a te , che i puri voti e i pianti ec. |
Dicesi nell’Apoc. cap. V: Habentes phialas aureas plenas odoramentorum, quæ sunt orationes Sanctorum.
P. 26. | Ei tutto può, resister sol non puote |
Dei cor umani al pianto ed alla fede ec. |
A confermazione di quello, che dice qui l’Autore, abbiamo le parole stesse di Gesù Cristo nell’Evangelio di San Marco cap. XI: Omnia quæcumque orantes petitis, credite, quia accipietis, et evenient vobis. L’amore di Dio verso l’uomo, come asserisce il nostro poeta, egli è senza dubbio la radice fondamentale del piegarsi ch’egli fa alle nostre preghiere sostenute da una viva fede; ma vi si vogliono necessariamente sottintendere alcune condizioni. La prima, che l’orazione e la fede sieno perseveranti, non potendo veruno, come che giusto, presumere di essere esaudito sul momento. L’altra, che non si domandino a Dio cose contrarie alla sua gloria o alla nostra salute. Con queste condizioni l’orazione e la fede ottengono infallibilmente il loro effetto; e in questo senso è vero, che l’Onnipotente non resiste al pianto e alla fede dell’uomo.
P. 30. | Ove la mia Germana alberga e affrena ec. |
Madama Luigia di Borbone, moglie di Don Filippo Infante di Spagna, Duca di Parma e Piacenza ec., sorella germana della descritta Principessa.