A Genova varcando di notte i gioghi alla volta della città

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Perdonate La mia prima vita
Questo testo fa parte della raccolta II. Dai 'Canti lirici'
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III

A GENOVA

Varcando di notte i gioghi alla volta della città

     Il cocchio a stento la via guadagna,
fonda è la notte nella montagna;
     di tratto in tratto sparsa sull’erta
qualche casetta mezzo deserta
     5s’annuncia agli occhi del pellegrino
pel solo indizio d’un lumicino,
     che brilla e trema di mezzo al verde,
pallida stella, che poi si perde.
     Suonar non s’ode per l’ombre nere
10che il fischio acuto del carrettiere,
     o romor d’acque serrate e cupe
sotto la falda di qualche rupe,
     lá dove appena nei dí riarsi
cala il pastore per dissetarsi,
     15o in mezzo all’alghe bruna e soletta
stride alla luna la folaghetta.
     Che fu? Sull’orlo del mio cappello
passata è l’ala d’un vipistrello.
     Aimè, quest’ombra come è gelata!
20come è deserta questa vallata!
     Quanto silenzio pei muti calli
rotto dall’ugna dei due cavalli,
     che, a fiutar l’aria del bruno sito,
levan le nari con un nitrito.

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     25Ma presto l’alba sará vicina,
perché giá fuma sulla collina,
     e allegramente dal giovin core
la capinera canta d’amore.
     Tu svegli e baci tutte le cose,
30o dolce Aurora sparsa di rose;
     ma, tanto bella come tu sei,
bella non splendi per gli occhi miei.
     Fuggir da un fato, che mi dá guerra,
sperai, movendo verso altra terra,
     35calda di luce, piena di feste;
ma le mie rime son sempre meste.
     Su quelle strade cupe e dirotte,
sotto il cadente ciel della notte,
     nel mio pensiero come una stella
40tu ognor spuntavi, Genova bella,
     co’ tuoi palagi, dove tra gli ori
brillano eterni marmi e colori,
     colle tue cento colline care,
co’ tuoi navigli, col tuo gran mare!
     45E allor ti vidi la iniqua lancia
baciar sommessa dei re di Francia;
     e irato piansi di quelle offese,
perché eri parte del mio paese.
     Poi, seguitando le aeree danze,
50che fan nel capo le ricordanze,
     sola sull’erta di Vialata
mirai del Fiesco l’anima irata,
     qual chi nei fati lontan discerne,
sognar l’impero dell’onde eterne.
     55Ma, quando aprirsi vidi il mortale
gorgo, e lo sperso manto ducale
     nuotar sull’acque, tra due diviso,
mi spuntò il pianto sotto al sorriso.
     E allor, né mesto né lieto assai,
60d’un altro tempo mi ricordai,

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     che del tuo Doria l’opre ammirande
ti fêr gentile, libera e grande.
     E vidi altèro sui flutti illesi
battere il remo dei genovesi;
     65del lor vessillo sotto all’impero
curvarsi i cento dello straniero;
     e aprir le braccia l’ampia cittate
alle arrivanti galee dorate,
     che a lei versavano dalla marina,
70qual sulle vesti d’una regina,
     di gemme e perle ricchezze immani,
compre col sangue sugli oceani.
     Poi, quando, vaga d’altro cammino,
l’ala possente del tuo destino,
     75da te fuggendo, sulle tue mura
lasciò lo spettro della sventura,
     Genova bella, quel mesto giorno,
una grand’ombra ti venne intorno.
     E, non pensando l’offesa antica
80della irridente patria nimica:
     — Fa’ cor — ti disse: — sia caso o merto,
di tante glorie ti fugge il serto;
     ma, a rattenerlo sulle tue chiome,
basta il mio nome! basta il mio nome! —
     85Oh quante volte lo spirto errante
del tuo Colombo, Genova, oh quante
     volte, fermato tra il mare e il porto,
t’avrá gridato questo conforto.
     Tal, dalle punte di quell’altura
90movendo gli occhi sulla pianura,
     co’ suoi fantasmi, lieta o dolente,
Genova apparve nella mia mente;
     e cosí venni sopra i tuoi lidi;
Genova bella, cosí ti vidi.
     95Del flutto azzurro nell’ampio velo
dalla sua curva cadeva il cielo

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     sereno e grande. Col cielo e il flutto
in te mi parve sorrider tutto.
     Le mobili isole nel mar create
100erano incanto d’occulte fate;
     sotto alla luce gli aperti valli
splendean sonanti d’armi e cavalli;
     e un giovin duca, Genova altèra,
correa giocondo la tua riviera.
     105Pur, riguardando, nel cor mi scese
un desio mesto del mio paese!
     Piú che le antenne delle tue navi,
nella memoria mi fûr soavi
     le conosciute mie verdi piante,
110dov’io sorrisi poeta e amante.
     Piú che al tuo mare, pensar mi piacque
alle romite fuggevoli acque,
     che, in mezzo ai fiori d’un picciol prato,
bagnan la casa dov’io son nato,
     115dove la mesta madre diletta
da molto tempo so che m’aspetta.