A proposito di Leonardo e della sfera del fuoco/A proposito di Leonardo e della sfera del fuoco

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A proposito di Leonardo e della sfera del fuoco

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A proposito di Leonardo e della sfera del fuoco.


Nota del Socio nazionale residente Adolfo Faggi
presentata nell’adunanza del 27 Dicembre 1934 - xiii




Riassunto. — Si parla della polemica di Leonardo da Vinci contro alcuni Peripatetici del suo tempo, che sostenevano essere il Sole per natura freddo; e i suoi raggi riscaldarsi, prima d’arrivare sulla Terra, attraversando la sfera e la regione del fuoco.


Nel mio scritto, pubblicato dall’Erma (Ann. Ist. Sup. di Mag. del Piemonte, vol. VII, 1934) col titolo «Il I° canto del Paradiso di Dante e la sfera del fuoco», e da me già presentato in omaggio all’Accademia (seduta del 27 Dic. 1934), io mi sono intrattenuto sulla dottrina aristotelica, comunemente accolta dai dotti del Medio Evo e quindi da Dante, che il fuoco nè riluca nè risplenda nella sua sfera, non avendo lucore o splendore per sè stesso, ma solo in quanto si appigli o comunichi alle cose e agli oggetti fuori della sua sede elementare. Mi è anche in questi giorni capitato di rileggere il Don Chisciotte del Cervantes, laddove si racconta il viaggio immaginario dell’eroe per il cielo sul cavallo fatato in compagnia di Sancio; e, dal poema dell’Ariosto, il viaggio di Astolfo nel regno della Luna per ritrovare il senno d’Orlando impazzito. In tutt’e due i poemi si fa naturalmente parola intorno alla sfera del fuoco, che i due eroi debbono attraversare prima d’arrivare alla loro mèta, ma nè l’uno nè l’altro di essi accenna a splendori veduti, bensì soltanto all’ardore e al pericolo di rimaner bruciati1. [p. 2 modifica]

Non voglio con ciò per nulla escludere che nelle illustrazioni o figurazioni grafiche del M. E. (e anche posteriori) si rappresentasse la sfera del fuoco con fiamme visibili. Ciò era richiesto dalle esigenze stesse della rappresentazione o figurazione pittorica: ma è certo che, nella coscienza scientifica del tempo, in conformità della dottrina aristotelica e dei commenti medievali a questa, il fuoco era un elemento più fine, più sottile, più rarefatto dell’aria, che, invisibile nella sua sfera, diventava visibile soltanto fuori di essa, nelle cose cui si appigliava. Aristotele in più luoghi delle sue opere distingue nettamente il fuoco, che, come elemento, è materia in sè calda o materia pura del calore, Wärmestoff, direbbero i Tedeschi, ossia calda esalazione asciutta; e la fiamma, che non è materia permanente, come gli elementi, ma semplice fenomeno prodotto dalla trasformazione dell’umido (acqua) e dell’asciutto (terra).

Ma mi preme ora di aggiungere, poiché il mio studio presentato all’Accademia terminava con un accenno alle dottrine di Leonardo da Vinci, che tra le sue preziose note si trova la [p. 3 modifica]confutazione di una dottrina del tempo, la quale potrebbe, al primo sguardo, apparire molto strana e curiosa. Alcuni filosofi peripatetici sostenevano insomma che il Sole per natura fosse freddo, e i suoi raggi diventassero per virtù caldi, attraversando appunto, prima d’arrivare sulla terra, la sfera del fuoco. Dice infatti Leonardo: «Passan li razzi solari per la fredda regione dell’aria, e non mutan natura, passan per vetri pieni d’acqua fredda e non mancan di lor natura, e per qualunque luogo trasparente essi passassino, elli è come s’elli penetrassino altrettanta aria. E se tu vuoi che li freddi razzi del sole s’incorporino il calore del fuoco, nel penetrare il suo elemento, siccome v’incorporano il colore de’ vetri che attraversano, e’ seguirebbe che nel penetrare la fredda regione, essi s’incorporerebbero tale freddo, dopo la incorporazione di detto caldo, e così il freddo annullerebbe il caldo, onde i razzi solari verrebbono a noi privati di caldo».

E più oltre combatte anche l’opinione che i raggi solari spingano a noi l’elemento del fuoco, donde essi passano, per moto locale; dimostrando le conseguenze assurde che scenderebbero da tal principio; e aggiungendo anzi che, se mai, il Sole tirerebbe a sè l’elemento del foco, piuttosto che scacciarlo da sè e spingerlo a noi. Per dimostrare la rigidezza o freddezza sostanziale dei raggi solari, i Peripatetici ricorrevano all’esperienza dello specchio concavo, che nel ricevere li razzi del foco, li riflette più caldi ch’esso foco. La palla di vetro piena d’acqua fredda manda fuori da sè li razzi presi ancora dal foco, più caldi ancora d’esso foco. — Come si facevano e s’interpretavano allora gli esperimenti! Leonardo ha buona e facile ragione di obiettare: «Se tu dirai che lo specchio ancora lui è freddo e getta razzi caldi, io ti rispondo che il razzo vien dal sole, ed è il razzo dello specchio concavo, passato attraverso della finestra»2. Per Leonardo dunque il Sole è caldo per natura e non per virtù (virtù acquisita); ed egli effonde il suo entusiasmo in una Laude del Sole, celebrando la [p. 4 modifica]potenza maravigliosa di questo astro e la divina maestà del suo ufficio, che è quello di portare luce e calore a tutti i mondi sparsi per esso spazio tenebroso.

Ora si può domandare: Come fondavano i Peripatetici del tempo di Leonardo sulla fisica del loro maestro, cioè di Aristotele, una dottrina per noi così strana e curiosa come quella della frigidezza sostanziale del Sole? La risposta non è difficile.

Per Aristotele il cielo è formato d’un quinto elemento, l’etere, affatto diverso per natura e per essenza dai quattro che costituiscono il mondo sublunare e terrestre, aria, acqua, terra, foco: elemento adamantino, incorruttibile, eterno, divino. Come esso non è nè terra, nè aria, nè acqua, non è neanche fuoco; elementi questi tutti mutabili e trasformabili, mentre l’etere, la quinta essenza, è sempre identica a sè stessa. Si capisce da ciò facilmente come alcuni Peripatetici, contro i quali appunto Leonardo rivolge gli strali della sua critica, potessero sostenere che, non essendo il Sole fuoco, i suoi raggi non dovevano essere caldi per sè stessi, cioè per natura, ma acquistare questa virtù, cioè la virtù del calore, attraversando, prima di arrivare sulla terra, la sfera del foco.

Per altro, la vera e genuina dottrina di Aristotele è che il Sole (come tutti i corpi celesti) non sia effettivamente caldo, ma diventi tale, anzi diventi la sorgente del calore per tutto l’universo, in conseguenza del suo rapidissimo movimento circolare attraverso gli spazi del cielo. Basterà citare questo passo della Meteorologia 1, III, 341: «Del calore del sole si dirà più accuratamente nei libri intorno ai sensi, poiché il calore è un’affezione sensibile; ma si deve ora esporre da qual causa provenga, essendo gli astri per natura non caldi. A produrre dunque il calore basta il movimento (rivoluzione) del sole, che è celere ma non troppo lontano, mentre quello degli astri, pur essendo celere, è lontano, e quello della luna, pur essendo vicino è troppo lento»3. [p. 5 modifica]

Alcuni critici moderni come il Brentano hanno anzi voluto inferire che per Aristotele le sfere celesti non abbiano materia sostanziale, o che, come dice l’Hertling, la loro materia sia una materia che non è materia, una materia immateriale. La verità è che, per Aristotele, l’etere cioè la materia del cielo e dei corpi celesti, non è, a parlar propriamente, un quinto elemento, ma una quinta essenza, poichè ha natura affatto diversa dagli elementi, e non ha nulla di questi, neanche del fuoco, che parrebbe a lei più vicino. In quanto non è soggetta nè al divenire nè alla corruzione, si potrebbe ben dire dunque ch’ella non è materia. La materia degli astri e del sole non consiste insomma per Aristotele che nella loro possibilità del cangiamento locale, cioè dei loro movimenti circolari o rivoluzioni attraverso gli spazi celesti. L’etere è dunque materia solo in quanto è capacità di movimento locale: ma anche per questo lato essa ha natura diversa dagli elementi, perchè questi hanno movimenti rettilinei ed essa ha invece il movimento più nobile, più perfetto, il movimento circolare

4.

Note

  1. Il viaggio di Don Chisciotte e di Sancio sul cavallo di legno, che ha nome Clavilegno l’Aligero, non è che una burla del Duca e della Duchessa. Tuttavia Don Chisciotte, pur non movendosi da terra, crede nella sua immaginazione, avendo gli occhi bendati come il suo scudiero, di volare realmente per gli spazi celesti e di attraversare la regione del fuoco, non senza gran timore di restar bruciato. Infatti gli spettatori della burlesca scena, con certi pennacchi di stoppa da potersi agevolmente accendere e spegnere, penzolanti da una canna, vanno scaldando e bruciacchiando loro il viso. Nel canto XXXIV dell’Orlando Furioso è narrato conte Astolfo arrivi in cima alla montagna del Paradiso terrestre, e sotto la guida di San Giovanni attraversi, per arrivare al regno della Luna, la regione del foco:
    Quattro destrier, vie più che fiamma rossi

    Al giogo il santo Evangelista aggiunse;
    E poi che con Astolfo rassettossi,
    E prese il freno e verso il ciel li punse.
    Rotando il carro per l’aria levossi
    E tosto in mezzo il fuoco eterno giunse:
    Che il Vecchio fe’ miracolosamente,
    Che mentre lo passàr non era ardente.
         Tutta la sfera varcano del fuoco

    Et indi vanno al regnò della Luna ecc.
  2. Cfr. E. Solmi, Nuovi studi sulla Filosofia naturale di Leonardo da Vinci, Modena, 1905, pp. 125 e sgg.: e anche St. sulla Fil. nat. di L., Modena, 1898, pp. 93: dove si riportano i passi dai Manoscritti vinciani.
  3. Sarà bene citare per intiero il testo aristotelico: περὶ δὲ τῆς γιγνομένης θερμότητος, ἣν παρέχεται ὁ ἥλιος, μᾶλλον μὲν καθ' αυτὸ καὶ ἀκριβῶς ἐν τοῖς περὶ αἰσθήσεως προσήκει λέγειν (πάθος γάρ τι τὸ θερμὸν αἰσθήσεώς ἐστιν), διὰ τὸ μὲν οὖν γίγνεσθαι τὴν ἀλέαν καὶ τὴν θερμότητα ἱκανή ἐστι παρασκευάζειν καὶ ἡ τοῦ ἡλίου φορὰ μόνον· ταχεῖάν τε γὰρ δεῖ καὶ μὴ πόρρω εἶναι. Ἠ μὲν οὖν τῶν ἄστρων ταχεῖα μὲν, πόρρω δέ, ἡ δὲ τῆς σελήνης κάτω μὲν, βραδεῖα δέ· ἡ δὲ τοῦ ἡλίου ἄμφω ταῦτα ἔχει ἱκανῶς.
  4. Si possono citare, fra gli altri, questi passi di Aristotele: ἴσως γὰρ ἔνια οὐκ ἔχει ὕλην, ἢ οὐ τοιαύτην ἀλλὰ μόνον κατὰ τόπον κινητήν (Met. VIII, 4, 1044, b, 7). — πάντα δ᾽ ὕλην ἔχει ὅσα μεταβάλλει...καὶ τῶν ἀϊδίων ὅσα μὴ γεννητὰ, κινητὰ δὲ φορᾷ (XII, 2, 1069, b, 24). — οὐ γὰρ ἀνάγκη, εἴ τι ὕλην ἔχει τοπικήν, τοῦτο καὶ γεννητὴν καὶ φθαρτὴν ἔχειν (VIII, I, 1042, b, 5). — φορά è il termine usato in senso astronomico da Platone e da Aristotele per indicare i movimenti ossia le rivoluzioni dei corpi celesti.