Agide (Alfieri, 1946)/Atto quinto

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Atto quinto

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Atto quarto

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ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

Interno del carcere di Sparta.

Agide.

Fere urla io sento, e un immenso frastuono

intorno al carcer mio. — Numi di Sparta,
deh! salvatela voi. — Duolmi, che un ferro
io non serbava, onde troncare a un tempo
con la mia vita ogni tumulto. A lungo
pur tardar non dovrian quei che a svenarmi
mandati avrá Leonida. — Consorte,...
diletti figli,... amata madre,... addio...
Piú non vedrovvi!... A voi, memoria cara
lascio di me... Ma, per la madre io tremo:
sta in poter di Leonida... Che ascolto?
Chi vien? Si schiude il carcere!... Che miro?...
O mia sposa...


SCENA SECONDA

Agide, Agiziade.

Agiz.   Son teco, Agide amato...

Dalla reggia del padre or mi sottraggo,
ove a custodia ei mi tenea. La plebe,
del tuo carcer la strada hammi disgombra;

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e di vietarmen l’adito i soldati

non ebber core. — Al fin son teco. — Io vengo,
sposo, a salvarti, ove salvarti io possa;
o a morir teco io vengo.
Agide   Oh dolce sposa!...
Il cor mi squarci... Oh quanto il rivederti
mi è gioja,... e pena!... A conservar mia vita,
(ch’io ’l potrei, se il volessi, con la morte
di cittadini assai) l’amor tuo vero
trarmi or solo potria. Ma, il sai, che amarti
piú che la patria mia, donna, nol deggio,
e tu stessa nol vuoi. Me dunque lascia
morire; e tu, serbati in vita; i cari
pegni tu salva, i figli nostri...
Agiz.   Invano
di Leonida al fero odio sottrargli
io tenterei: barbaro padre; appieno
nella prospera sorte ora il conosco;
nell’avversa ingannommi. A me null’arme
riman, che il pianto; egli nol cura: i nostri
figli salvar dalla sua rabbia, o il puote
Sparta con l’armi, o nulla il può. — Ma padre
dovresti almen mostrarti; e, pe’ tuoi figli,
serbar tua vita...
Agide   Oh ciel! qual mai mi porti
terribil guerra in questo punto estremo?
Amo i figli, e tu il sai: ma, non ben certo
è il morir loro; e certo fia, che a rivi
dei cittadini scorrerebbe il sangue,
s’io di forza mi armassi. E questi, e quelli,
son figli miei; ma i cittadini sono
di un giusto re figli primieri. — O donna,
meglio di me, se sopravviver m’osi,
tu puoi salvarli. Quel sublime, a un tempo
tenero ardir, con cui seguivi il padre;
quello, con cui del mio destin ti eleggi

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farti or compagna; quell’ardir sia scorta

a te, per porre i figli nostri in salvo.
Per quanto reo Leonida e crudele
esser possa, ei t’è padre: ove i tuoi figli
fra tue braccia tu stringa; ove il tuo petto
agli innocenti miseri sia scudo;
cuor non avrá di trucidarli. Ah! corri,
vola al lor fianco, in lor difesa veglia;
per essi vivi, o sol con essi muori;
che al viver piú, nulla ti sforza allora.
Agiz. Lassa me!... che farò?... S’io te lasciassi,...
serbarmi a forza il duro padre in vita
vorria;... qual vita! orba di te... Ma, s’anco
vivi ei pur lascia i figli nostri,... il trono
a lor fia tolto... Ah! morir teco io voglio...
Agide Donna, deh! m’odi, e acquetati... Saresti
madre or men forte, che giá figlia t’eri?
L’ira mia non temevi, il dí che il padre
seguivi; e i figli, e il tuo consorte amato
per lui lasciavi; or, di quel padre istesso
tremerai tu, quando pe’ figli il lasci?
Fuggir tu puoi con essi: assai grand’arme
hai contra lui; la tua virtude: hai mille
mezzi a tentar, pria di morire. Ah sposa!
te ne scongiuro, tentali; ripiglia
l’alto tuo core, e non mi torre il mio,
coi non maschi lamenti. Or, deh! vorresti
ch’io morissi piangendo? ah! no. — Se degna
d’Agide sei, non mi sforzare a cosa
che sia d’Agide indegna.
Agiz.   E di qual padre
fu indegno mai l’amar suoi figli, il porgli
a se medesmo innanzi?
Agide   Ai figli innanzi
la patria va. Sacro il mio sangue ad essa
ho da gran tempo; ai nostri figli amati
tu dei, s’è d’uopo, il tuo donar: ma prova

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d’amor ben altro ad essi e a me tu dai,

se a lor ti serbi in vita. Ancor può molto,
piú che nol pensi, il pianger tuo: la plebe,
se Leonida no, pietade avranne;
e senza spander sangue, a lei fia lieve
porre in salvo i miei figli. In somma, pensa,
che, te viva, non muore Agide intero.
In volgar donna ammirerei, qual prova
d’amore immenso e di valor sublime,
il non voler sorvivere al consorte;
ma da te spero, e da te chieggio, e il dei
d’Agide moglie, ad infelice vita
tu dei serbarti, intrepida, pe’ figli...
Piangendo io ’l chieggo; e ti rimanga in core
questo mio pianto... Ah! per te sola al fine,
e pe’ fanciulli nostri, Agide hai visto
lagrimar oggi.
Agiz.   Irrevocabil dunque
fia il tuo morir?...
Agide   La mia innocenza è certa. —
Prendi l’ultimo amplesso; e ai cari pegni
recalo, in nome mio. Di’ lor, ch’io moro
per la patria; di’ lor, ch’ove al mio seggio
pervenissero adulti, altra vendetta
non faccian mai della morte del padre,
che rinnovar su l’orme sue le leggi
del gran Licurgo: e se in ciò pur, com’io,
hanno avverso il destin, com’io da forti,
nell’alta impresa perdano la vita.
Agiz. Parlar non posso... Io... di lasciarti...
Agide   Un fido
consiglio avrai, nella mia degna madre;...
s’ella pur resta! — Or via; lasciami; vanne.
Moglie, regina, madre, cittadina,
Spartana sei; tuoi dover tutti adempi.
Agiz. Per sempre?... oh ciel!...
Agide   Deh! cessa.

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Agiz.   Il piè tremante

mal mi regge...
Agide   Deh! vieni: uscita appena,
troverai scorta, e appoggio.
Agiz.   Oimè!... Si schiude
la ferrea porta...
Agide   Guardie, a voi la figlia
del vostro re consegno.
Agiz.   Agide... Ah crudi!...
Lasciar nol voglio... Agide!... addio...


SCENA TERZA

Agide.

  — Me lasso!...

Misero me!... quante mai morti in una
aver degg’io?... Dolor qual mai si agguaglia
al duol di padre, e di marito? — O Sparta,
quanto mi costi!... Eppur, Leonid’anco
è padre: in cor grato un presagio accolgo,
che alla sua figlia ei donerá i miei figli. —
Or basta il pianto. — Al mio morir mi appresso:
da re innocente, e da Spartano, io deggio
morire... Oh come vien lenta la morte! —
Ma un’altra volta, ecco, ch’io strider sento
del mio career la porta?... e raddoppiarsi
odo anco gli urli a queste mura intorno?...
Che mai sará?... Chi veggio?


SCENA QUARTA

Agesistrata, Agide.

Agide   O madre... Oh cielo!...

Agesis. Figlio, mancarti all’ultim’uopo mai
non ti potea la madre. Io quí ti arreco
libertá, di noi degna. — In altra guisa

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dartela volli; ma quand’era il tempo,

ogni mezzo tu stesso a me n’hai tolto.
Agide E che? vuoi tu con le spartane grida?...
Agesis. Sparta invan grida. Il traditor tiranno
sí ben munito ha di soldati il loco,
che nulla or ponno i fidi nostri: indarno
tentan sforzarli; perditor respinti
sono, ed inerti, ed avviliti. Innanzi
io mi spingeva a’ rei soldati in mezzo;
fere voci suonavanmi da tergo,
per me gridando: «Empj, alla madre ardite
tor l’accesso?». Mi vide Anfare allora;
loco fe darmi, e quí son tratta.
Agide   Iniquo!
Te pur fra lacci ei volle. Ahi madre! a quale
rischio inutil per me?...
Agesis.   Rischio? che parli?
Appo il mio figlio, a certa morte io vengo.
Vedine, in prova, il don ch’io reco.
Agide   Un ferro? —
Oh madre vera! — Altro desio, che un ferro,
per salvar Sparta, e me sottrarre al colpo
d’infame man, non accogliea nel petto:
e tu mel rechi? oh gioja! — Or dammi...
Agesis.   Scegli:
due ferri son; quel che tu lasci, è il mio.
Agide Oh cielo!... E vuoi?...
Agesis.   Donna mi estimi, o madre
d’Agide, tu? Pochi mi avanzan gli anni
di vita: Sparta, che invan salva speri,
serva è giá: la tua madre, ov’ella resti,
di Leonida è serva. Or parla; io t’odo:
osi tu dirmi, che a tai patti io viva?
Agide Che posso io dir? son figlio. — O madre, almeno
soffri che primo io pera: ancor che serva,
Sparta estinta non è; quindi ancor salva,

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altri può farla. In libertá il mio sangue

potrá ridurla forse: ma s’io, vile,
per non versare il mio, lasciato avessi
sparger per me dei cittadini il sangue,
giá piú Sparta or non fora.
Agesis.   In te (pur troppo!)
Sparta or si estingue. — Ed alla patria, al figlio
sopravviver vorrá spartana madre? —
Figlio, abbracciami.
Agide   Oh madre!... Anco m’avanzi
nell’altezza dei sensi. — Or dammi, e prendi
l’ultimo amplesso. Io lagrimar non oso
nell’abbracciarti; che il tuo pianto io veggo
da viril forza raffrenato starsi
sopra il tuo ciglio.
Agesis.   Agide mio,... sei degno
di Sparta in vero;... ed io di te son degna. —
Ch’io ancor ti abbracci... Oh! qual fragore?...


SCENA QUINTA

Leonida, Anfare, Soldati col brando ignudo,

Agide, Agesistrata.

Leon.   Al fine

vinto abbiam noi.
Agesis.   Che fia?
Agide   Deh! non scostarti
da me.
Anfar.   Soldati, ucciso Agide sia,
pria della madre.1
Agide   Il tuo pugnal nascondi,
com’io, per poco; ed aspettiamgli; e taci.2

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Anfar. Or, chi v’arresta? a che indugiate? A forza

disgiungeteli tosto.
Agide   In noi por mano
qual di voi, qual, si attenterebbe? — Il vedi,
re Leonida, il vedi? anco i tuoi stessi
compri soldati, instupiditi stanno
d’Agide a fronte immobili. — Ma, voglio
trarti tosto d’angoscia. A te sol’una
cosa richieggo.
Leon.   E fia?
Agide   Che intento vegli
su la tua figlia, affin che me non segua.
Leon. T’ama ella tanto?
Agide   Piú che non mi abborri. —
Ma te pur ama, e ten dié prova; e in somma,
tu sei pur padre: i detti ultimi miei
fur questi.3 — Io moro. — Pur... che... a Sparta giovi.
Anfar. Un ferro egli ha?
Agesis.   Due ne recai.4 — Ti seguo,...
o figlio;... e morta... sul tuo... corpo... io cado.
Leon. Di maraviglia, e di terror son pieno...
Che dirá Sparta?...
Anfar.   I corpi lor si denno
alla plebe sottrarre...
Leon.   Ah! mai sottrarli,
mai non potrem, dagli occhi nostri, noi.


  1. I soldati si muovono contr’Agide.
  2. I soldati vedendo Agide immobile che gli aspetta, a un tratto tutti si arrestano.
  3. Brandisce in alto il ferro, e si uccide.
  4. Palesa anch’ella il suo ferro, e si uccide.