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Al fronte/La lotta dei colossi

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La lotta dei colossi

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Nella valle di Sexten Dove il combattimento non ha soste. Il passo di Montecroce

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LA LOTTA DEI COLOSSI.

12 settembre.

Quando si entrava in Austria per la ferrovia di Pontebba, passato Pontafel, se non si era troppo distratti dalle varie e pittoresche bellezze della valle del Fella lungo la quale il treno scendeva, fra la stazione di Saint-Lusnitz e quella di Uggowitz — piccole stazioni che i diretti disdegnavano, adorne di piante rampicanti, e avanti alle quali non si vedeva che un impiegato fermo e dritto come un piuolo, sormontato da un chepì rosso alto un palmo — si osservava a sinistra uno strano sperone di montagna.

Era un contrafforte ardito, coperto di abeti, che avanzava con tanta insolenza da costringere la valle a scansarsi e fare un giro per passargli intorno. Pareva messo là per sbarrare il passaggio. Subito dopo il biancheggiare di Malborghetto, in fondo ad una piccola conca nella quale il paesello, adagiato a ridosso delle alture per ripararsi dalle tramontane, si rifugia, la vallata pareva chiusa da quel costone boscoso.

Fra gli alberi del declivio si vedevano [p. 223 modifica] emergere larghe sagome di possenti costruzioni; erano muraglioni bassi, enormi, massicci, coronati da spalti, alcuni quasi sulla valle, altri eretti più in su verso la spalla del monte, con un collegamento capriccioso di altre muraglie, di altre costruzioni minori. Era il famoso forte Hensel.

Quello che si vedeva costituiva i rafforzamenti del forte. Le spianate della fortezza si appoggiavano a quelle mura ciclopiche, solide come la roccia: due spianate, una in basso, una in alto, sotto le quali il forte affossava le sue parti più vitali. Le muraglie servivano anche da trinceramenti. Erano bucate da feritoie a ranghi molteplici, dalle quali, occorrendo, si potevano affacciare piccole artiglierie. Quattro ranghi di feritoie sovrapposti si allineavano sul muraglione più vicino alla strada.

Il forte Hensel era doppio, aveva appunto la parte alta e la parte bassa, unite da cortine e da strade coperte. Si immaginino dei giganteschi edifici sepolti, dei quali non si scorga che la sommità, verdeggiante di terrapieni erbosi come se essa fosse sorta dalla terra sollevando interi lembi di prato. Il bosco aveva mascherato in parte il resto. Non si vedevano dalla ferrovia gli oscuri emisferi delle cupole di acciaio dei grossi pezzi, due sulla parte bassa e due sulla parte alta, e non si vedevano yutti quei bizzarri comignoli dei quali [p. 224 modifica] i forti sono irti, simili a soldatini in ordine sparso ritti sui terrapieni, e che non sono altro che gli sfogatoi dei depositi di munizioni intesi a mantenere la ventilazione dei magazzini sotterranei. Ma i nostri osservatori, annidatisi fin dai primi giorni della guerra sui monti, dall’altra parte della valle, a qualche chilometro appena dal forte, ne scorgevano e ne studiavano tutti i particolari. Distinguevano nell’imponenza geometrica dei suoi profili tutta la segreta disposizione delle sue parti, dei suoi collegamenti, vedevano nereggiare sulle piazzole superiori le batterie in barbetta, e seguivano il lavorìo della guarnigione che apprestava la fortezza alla battaglia come un equipaggio appresta la nave per il combattimento.

Ora non c’è più niente.

Niente, assolutamente niente. Non più muraglioni, non più spalti, non più cupole, non più batterie scoperte, non più strade. È scomparso anche il bosco. Tutto quel folto di abeti che avvolgeva il forte è svanito. Lo stesso sperone di montagna sul quale la fortificazione sorgeva si è trasfigurato, non è più quello, è irriconoscibile, tutto sconvolto, squarciato, imbrunito. Al posto del forte Hensel c’è come una immensa frana, una convulsione di terra e di pietre, una distesa di detriti e di macerie che scende dall’alto del costone fino al torrente. I nostri cannoni hanno fatto questo. [p. 225 modifica]

La devastazione dei nostri tiri è indescrivibile. Sarebbe incredibile anche, se non fosse registrata dalla fotografia. Le fasi della distruzione sono documentate dalla fedeltà impassibile del teleobbiettivo. Il cannone operava una lenta e profonda trasformazione del paesaggio. Cominciò a battere le opere basse, poi troncò le comunicazioni protette, poi battè le opere alte, infine disgregò, demolì, sgretolò, seppellì tutto quello che c’era rimasto. Questa volta gli austriaci non hanno fatto in tempo a ritirare le loro artiglierie. Il forte è diventato una immane tomba di cannoni.

Alcuni colpi troppo lunghi, andati al di là dello sperone e caduti nella valle, hanno aperto dei crateri che le piogge hanno riempito, e ai piedi dell’altura la fotografia vi mostra una fantastica costellazione di chiari laghetti rotondi. Le granate facevano un arco al di sopra di vette, un arco alto quasi due chilometri. Varcavano cinque o sei montagne, viaggiavano per un minuto e dieci secondi su creste e burroni, attraversavano la vallata del Fella e piombavano con una precisione meravigliosa sulla parte del forte che si voleva colpire.

Hensel, eretto per chiuderci ogni passaggio da ovest e da sud, messo a guardia di uno sbocco di valli, è stato cancellato dalla faccia del mondo. Abbiamo visto ieri i cannoni che lo hanno annientato.

Lontano dal fronte, lontano dai [p. 226 modifica] combattimenti, nelle retrovie della guerra, dove la vita del paese continua normale ed eguale, le mostruose artiglierie si annidano. Sono cannoni che il nemico non avrebbe mai immaginato di veder comparire dalla nostra parte sul campo di battaglia. Credeva di dominarci con i suoi 210 di Hensel, d’inchiodarci nelle nostre valli, alle quali intendeva aprirsi l’accesso.

Accovacciati sui loro larghi affusti massicci, che pesano loro soli decine di tonnellate, piantati solidamente su piattaforme che sembrano fondamenta di torri, i neri e giganteschi cannoni sporgono soltanto il profilo impetuoso e possente del loro lucido collo dall’ampio barricamento circolare di sacchi pieni di terra che li protegge. Quell’alta barriera grigia fa pensare al recinto creato intorno ad una belva.


Gli artiglieri lavorano in quel chiuso, isolati, intorno alla formidabile macchina di morte. Ruote silenziose muovono il pezzo, lo girano, lo sollevano, fanno aprire e richiudere l’enorme culatta, il cui otturatore a cerniera, dalle dentature lucenti, sembra lo sportello d’un forziere favoloso. Docile, il cannone dolcemente obbedisce a lievi giri di manovelle. Quella grande massa di tredicimila chili di acciaio si muove senza rumore con una maestà dominatrice, con una lentezza che sembra pensosa e ponderata. Si dispone al tiro, assume l’attitudine del [p. 227 modifica] combattimento, spostandosi adagio adagio, e nel suo moto solenne pare di scorgere una non so quale truce e subdola cautela.

Un carrello sospinto su rotaie porta il proiettile dal deposito blindato delle munizioni. La granata, alta come un fanciullo, è sollevata dall’argano, scivola nella culla di ottone del caricatolo, la culatta si chiude sul sacco della polvere che ha seguito il proiettile nella camera di scoppio, dalla quale per un istante si è intravvista la vorticosa e scintillante raggera delle rigature. Uno scatto di molla. Il colpo è pronto. Tutto questo avviene come un meccanico lavoro da opificio. I soldati rimangono in piedi sulle piattaforme di acciaio che l’affusto sporge. I serventi sono come inerpicati sul colosso.

Al colpo la gran mole del cannone passa veemente fra loro, spinta indietro dalla forza impetuosa del rinculo, e torna al posto ricondotta dalla elasticità dei freni. Una buffata violenta e ardente fa sventolare i lembi dei cappotti. La terra ha un sobbalzo. Nei greti è un rotolare di sassi e uno scorrere di sabbie. Le travature delle case hanno scricchiolato nel villaggio vicino come ad una scossa di terremoto; le porte squassate hanno risuonato cupamente e le finestre mal chiuse si sono spalancate alla sorda percossa della raffica breve.

Gli artiglieri, immobili, afferrati ai montanti, gli occhi riparati dall’ombra della mano [p. 228 modifica] aperta, ammiccano verso il cielo, attenti, interessati. Guardano il proiettile. Perchè la granata si vede, si può seguirla per qualche tempo nella sua corsa da meteora. È una lineetta nera, sfumata, che naviga nello spazio, impiccolisce, impallidisce, svanisce.

I viaggi delle palle da cannone più grandi sono diventati così lunghi, che danno il tempo a delle strane segnalazioni. I nostri posti di osservazione annunciano il passaggio dei grossi proiettili nemici come i semafori avvertono i porti del passaggio delle navi. La granata di certe artiglierie pesanti manda un rumore che ricorda quello di un treno ferroviario lontano; pare un diretto che percorre la vôlta celeste. «Arriva un 305» — telefonano talvolta gli osservatori avanzati, quando percepiscono il caratteristico rombo. «305 in arrivo!» — grida il telefonista della batteria avvisata. «Al coperto!» — ordina il comandante. Gli artiglieri si sparpagliano nelle loro tane. Otto, dieci secondi dopo il proiettile arriva, scoppia, solleva eruzioni di pietre e di terra, annebbia tutto di fumo. Ma la parola umana, più rapida, lo ha preceduto. È meraviglioso.

Per questo le grosse artiglierie, se devastano e distruggono le difese meglio costrutte, non fanno molte vittime. Per ammazzare bisogna che sfondino una casamatta di rifugio o sorprendano truppe allo scoperto. Allora, l’uomo che si trova presso allo scoppio sparisce. [p. 229 modifica] Inutile ricercarne i resti. Non v’è più traccia di lui.

Così è scomparso un alpino in val Dogna, dove abbiamo visto le enormi buche scavate di fianco alla strada da alcune grosse granate austriache. Due alpini passavano di lì al momento di una esplosione. Di uno non si trovò più nulla. L’altro fu lanciato in aria incolume e sbalestrato fra i rami di un abete, trenta metri lontano. Annerito dal fumo, imbrattato di terriccio, stordito dal colpo, si attaccò istintivamente ad un ramo con quella forza attanagliante che hanno nelle mani gli alpini, scalatori di vette, e rimase così finchè lo salvarono.

In questo momento i bombardatori di Hensel hanno altri obbiettivi. Dopo un lungo silenzio riprendono la parola. I giganti si celano nell’ombra d’una valle. Quando le loro bocche sono in posizione di tiro, si tendono verso il cielo. Ricordano per la loro mole i telescopi degli osservatori astronomici. E tutti quei loro meccanismi perfetti che permettono di orientare il pezzo enorme fino all’esattezza del decimo di millimetro, i grossi cilindri dei freni che si allungano sul manicotto, i cannocchiali di traguardo, contribuiscono a dar loro un’aria da immani strumenti di precisione. Aumentando la distanza di tiro si è dovuta aumentarne la correttezza. L’errore di un millimetro alla bocca del cannone diventa l’errore di centocinquanta o duecento metri al bersaglio, quando [p. 230 modifica] la palla percorre otto miglia. Perciò il cannone ingigantendo ha acquistato delicatezze minuziose, movimenti da apparecchio geodetico.

Un’operazione di puntamento fa pensare ai calcoli nautici. Vi entra dell’astronomia. Bisogna ricercare il nord magnetico, tener conto delle deviazioni locali della bussola, per orientare il quadrante di puntamento al nord terrestre: questo preliminare è necessario per arrivare e stabilire il punto matematico nel quale il cannone è piazzato. Fissata la posizione del cannone si determina sulla carta la rotta dei proiettili. Le altitudini come le distanze entrano nel calcolo. E durante il tiro si tiene una specie di giornale di viaggio delle granate. Si registrano di ognuna le segnalazioni di arrivo, colpo per colpo, e gli errori di rotta indicati dagli osservatori a millesimi — millesimi d’angolo.


La zona che abbiamo visitato, quella parte delle Alpi Carniche che dalla ferrovia Pontebbana si avanza sulla vallata di Plezzo, è stata finora un gran campo d’azione di grosse artiglierie. Ora attivo e violento, ora lento e come stanco, il maestoso duello delle batterie pesanti e di medio calibro ha continuato per mesi. Il silenzio non è mai lungo. Ogni tanto le vallate rombano e echeggiano.

Imponemmo noi la lotta dei colossi. Il 12 giugno i nostri massimi pezzi erano già piazzati e [p. 231 modifica] aprivano il fuoco sul forte Hensel. Nello stesso giorno un deposito di munizioni dell’opera alta scoppiò.

L’incendio durò lungamente; il fumo giallo e denso delle polveri brucianti copriva a tratti la intera collina, lacerato dal bagliore delle esplosioni, le quali lanciavano in aria getti alti di macerie e di luce. Pareva che il forte si bombardasse da sè. Era uno spettacolo di una imponenza indicibile che gli osservatori descrivevano per telefono a frasi concitate, piene di ammirazione e di stupore. Il giorno dopo un altro deposito esplodeva nell’opera bassa.

Il 16 giugno la cortina che univa l’opera alta all’opera bassa era già franata; le piazzole della batteria in barbetta erano scomparse in uno sconvolgimento di massi. Allora avvenne una cosa che fa onore al nemico: il forte rispose. Rispose a caso, senza scopo, per non morire senza un simulacro di difesa. Ma dopo pochi colpi tacque per sempre.

Implacabili i nostri tiri si avvicinavano ai pezzi blindati. Il 23 giugno una cupola dell’opera bassa era sfondata. Essa appare ora spezzata come un guscio spesso e nero, aperta, inclinata. Il 2 luglio si rinnovarono scoppi di munizioni in altri depositi del forte. La demolizione progrediva a zone, regolare, sistematica, inesorabile. Il 28 luglio un’altra cupola era spezzata e, rovesciandosi, il suo cannone levava la gola verso il cielo come quelli di [p. 232 modifica] una nave che va a picco. Il forte sprofondava.

Gli austriaci adunarono in fretta batterie in quel settore. Le pendici settentrionali della valle di Malborghetto nascondono numerose posizioni di artiglieria pesante e di medio calibro. Vi sono dei 105, dei 110, dei 115, dei 210, e vi è anche un 305. Il nemico ha temuto forse uno sfondamento delle sue linee verso il nodo stradale di Tarvis.


Le nostre batterie sono così nascoste che avviene spesso di passarvi vicino senza vederle. La loro presenza è annunziata da bivacchi, fumiganti di cucine come immensi campi di tribù zingaresche, da affollamenti di artiglieri fra tende e baracche disseminate in selvaggi angoli di valli, da un movimento più attivo di carreggi e di salmerie nelle retrovie, da parchi di furgoni e di pesanti carrelli da trasporto, da file di muli e di cavalli alla corda nereggianti sotto a lunghe tettoie nel greto di qualche torrente. Sui veicoli, sui tetti, sulle tende tutto un intreccio mascheratore di fronde ha un’apparenza di addobbo rustico che rallegra come il preparativo di una strana e primitiva festività montanara. Quando si arriva a questi centri di attività, adornati spesso da bizzarri giardini, con viali e aiuole nelle quali delle pietre colorate, disposte ad arte, sostituiscono i fiori per formare disegni, e [p. 233 modifica] sigle, e emblemi, si cercano con lo sguardo, tutto intorno, i cannoni. Bisogna, per scovarli, che qualcuno li additi.

Allora vi accorgete che dal folto di un roveto sporge appena una gran gola di acciaio. Quello che avevate scambiato per un rigoglioso e inestricabile ciuffo di giovani abeti, è un obice. Un boschetto di arboscelli e di sterpi verdeggianti è un cannone grosso come una locomotiva. Pezzi, affusti, piazzole, casamatte, riservette, tutto è affondato nel terreno e nelle vegetazioni. Nella guerra moderna chi si nasconde meglio è il più forte.

Per battere bisogna scorgere. Artiglieria vista, artiglieria silenziata. La situazione di una zona può dipendere da un uomo e da un filo telefonico. Uno sguardo che si affacci e che scruti, un telefono che trasmetta, e la solidità di un fronte può essere compromessa.

La vera guerra, in certi settori, è fatta dagli esploratori, dalle vedette, dagli osservatori. Sono loro, quei pochi uomini annidati su vette, che in fondo veramente combattono. Combattono con armi formidabili, lontane chilometri e chilometri da loro, ma che essi dirigono. Per loro, per quello che vedono e dicono, delle forze cieche si muovono, dietro, nelle valli e sulle alture, e agiscono. L’osservatore che sorprende una preparazione nemica e la fa disperdere con una raffica di granate da batterie che nulla scorgono, e che conduce i tiri di [p. 234 modifica] un bombardamento niente altro che pronunziando delle cifre in un ricevitore telefonico, è il fantastico guerriero della nostra epoca.

È lui che assesta i colpi, che sbaraglia e distrugge, ed egli deve talvolta, sentire l’orgoglio di poter scagliare, lui inerme, la precisa violenza della guerra sul punto che il suo giudizio e la sua volontà hanno definito.

Da qui il valore di certe cime, quasi irraggiungibili, dalle quali non potrebbe arrivare neppure un colpo di fucile. Insediare un cannocchiale vale alle volte assai più che insediare una batteria. Si sono avute delle azioni importanti per sloggiare un minuscolo posto di vedetta. Battaglioni e cannoni erano paralizzati momentaneamente dallo sguardo di un uomo. E dei bombardamenti, dei combattimenti, avevano, si può dire, un uomo per obbiettivo.

In Val Dogna, ai primi tempi della guerra, quando vi avevamo piazzato delle artiglierie, ora spostate, che bombardavano certe posizioni vicine a Malborghetto nella Val Fella, pareva di essere sicuri dalle osservazioni nemiche. Ma un giorno, improvvisamente, cominciarono a piovere granate intorno ai nostri pezzi. Fu una di quelle granate che mandò in aria l’alpino. Il tiro, accurato, doveva esser diretto da gente che vedeva. Ma dove poteva nascondersi? Cerca, cerca, da punta a punta, da cresta a cresta, finalmente si scoprì [p. 235 modifica] qualche cosa sopra una delle vette del Montasio.

Il Montasio che domina la valle da sud-est, una immane rupe che tocca quasi i duemila e ottocento metri d’altitudine, dalle forme ardite e strane, superbo e fosco, ha un versante austriaco e un versante italiano. Era stato giudicato inaccessibile. Ma una guida austriaca, pratica della regione, era riuscita a condurvi una scalata e stabilire sulla punta un posto d’osservazione. Le nostre batterie erano là sotto.

Non rimase a lungo lassù, l’osservatorio austriaco. Dove va un tirolese vanno cento alpini: dove va un alpino non va nemmeno il demonio. All’alba i nostri ascesero la montagna da tre lati. Vi impiegarono sette ore. Gli austriaci in vedetta non si difesero e non esitarono. Temendo di essere circondati, fuggirono. Quando i nostri arrivarono sulla vetta, in un rifugio improvvisato con sassi, trovarono un telefono, degli strumenti ottici, un giornale e nel giornale delle fette di salame. Gli uomini che dovevano essere due o tre, erano scomparsi e giù per una balza oscillava la corda a nodi che era servita alla loro discesa.

Da allora la vetta è occupata da noi, e l’artiglieria nemica, che non vide più niente, tirò per qualche tempo a caso, poi smise. Avere un osservatorio vuol dire talvolta comandare una valle. Noi dominiamo una gran parte [p. 236 modifica] della vallata del Fella in territorio nemico, abbiamo potuto distruggervi forti e ridotte, la teniamo quasi senza possederla, soltanto perchè possiamo guardarla. Per avere un’idea dell’azione delle moderne artiglierie, non bisogna dimenticare questi loro nuovi organi indispensabili: gli osservatorî.

Ogni batteria ha una sua rete telefonica, lunga decine e decine di chilometri. Sono i suoi nervi. Il cannone non potrebbe più vivere senza il telefono. Ha bisogno di stendere molto lontano i tentacoli segreti della sua sensibilità. Corrono sulle rocce, sugli alberi, sull’erba dei prati, ora distesi sopra isolatori, ora gettati frettolosamente sulla terra e sui roveti, i fili elettrici ai quali il rivestimento nero dà un’apparenza da miccia. S’incrociano, si scavalcano, s’intersecano in ogni direzione. Un dialogare perpetuo va per monti e per valli fra le batterie e le vedette.

Quando il bollettino ufficiale ci parla di intensi bombardamenti, noi non pensiamo agli uomini spintisi avanti, rannicchiati al riparo di minuscole barricate di sassi, intenti a giudicare, calcolare, scrutare, riferire, freddi, calmi, maneggiando delicati strumenti come in un gabinetto di fisica, mentre intorno a loro è un inferno di esplosioni. Il fuoco nemico li cerca.

Cerca loro prima di ogni altra cosa. Li cerca con urgenza, con furore. Delle batterie [p. 237 modifica] intere non fanno altro. La lotta delle artiglierie s’inizia sempre contro gli osservatorî. Durante il bombardamento del forte Hensel i nostri posti d’osservazione erano come in un terremoto. Non furono mai toccati, ma le rocce intorno sono tutte spezzate dai colpi, che pareva dovessero svellere i rifugi da un momento all’altro.


Sempre in Val Dogna, scacciato lo sguardo nemico dal Montasio, non ci sentivamo ancora interamente padroni nella casa nostra. Il nemico si affacciava ad un altro punto, ed ogni movimento importante era impossibile oltre Pleziche, alla metà della valle. Bastava che qualche soldato passasse fra le boscaglie nel fondo della gola, perchè uno scoppiare di granate chiudesse il passo. Gli austriaci erano sulla Forcella del Cianalòt. Questa volta non si trattava di un osservatorio soltanto.

Passato Pontebba, la valle del Fella, che la ferrovia percorre, dopo aver risalito gli ultimi lembi montuosi dell’Italia, da sud a nord, varcata la frontiera volge nettamente verso l’oriente. Parallela e vicina a questo tratto austriaco della vallata del Fella corre la nostra Val Dogna. Lo spartiacque fra le due valli segna il confine. È tutta una lunga cresta aspra, nuda, cinerea, che irrompe maestosamente dagli ultimi prati e gli ultimi boschi. Verso le vette salgono rari e rudi sentieri che, [p. 238 modifica] scavalcando dei passi, allacciano le due valli. La Forcella è uno di questi valichi. Tutta la cresta fu subito occupata dai nostri, ma la Forcella, più in là della frontiera, era stata solidamente fortificata dagli austriaci, da tempo prima della guerra, e la tenevano con una risoluzione che indicava l’importanza da essi annessa alla posizione.

La importanza derivava sopra tutto dal fatto che dalla Forcella di Cianalòt, per il vano lasciato da due vette rocciose, si osservava una parte della Val Dogna, paralizzandovi ogni azione. La Forcella è un’insenatura fra i Due Pizzi — due punte: il Pizzo Occidentale e il Pizzo Orientale — e il monte Pipar. Gli austriaci, oltre all’insellatura, occupavano il Pizzo Orientale. Noi avevamo l’Occidentale, avevamo il Pipar, alto, dirupato, vicino al Pizzo Orientale, e, vicino al Pizzo Occidentale, avevamo la così detta Tana degli Orsi, una montagna rocciosa, grigia, nella quale si aprono caverne tenebrose capaci di dar ricovero ad intere compagnie, e che le tradizioni della valle, eternate nel nome, indicano come gli ultimi rifugi del gigantesco orso nero delle Alpi la cui razza è scomparsa.

Vista dal fondo della valle, pieno di un selvaggio arruffìo di boschi, la Forcella del Cianalòt appare come un ripiano, una specie di parapetto oscuro fra i pilastri delle vette. È vicino; il fuoco di fucileria austriaco batteva [p. 239 modifica] il sentiero. Parlando di monti e di vallate si conferisce un’idea di grandiosità e di distanza, ma qui, questi pizzi e queste cime intorno al passo sono a portata di voce. I nostri soldati avrebbero potuto dall’alto scagliar dei sassi nelle posizioni nemiche. Ma le posizioni nemiche erano costituite da trinceramenti in cemento armato, inattaccabili, precedute dal solido tessuto dei reticolati.

Gli austriaci stavano tranquilli là dentro. Erano invulnerabili. Nè i fucili nè i cannoni da montagna e da campagna potevano far loro alcun danno. Non rispondevano nemmeno al fuoco dei nostri che li dominavano inutilmente. Chiusi nella loro corazza, erano come il riccio sotto al naso del mastino. Assalirli era impossibile senza aver prima demolito le loro difese con l’artiglieria pesante, e gli austriaci, i quali sapevano bene che la valle angusta e dirupata non aveva strade, si sentivano perfettamente al sicuro dai grossi pezzi. Diamine, i cannoni da assedio non volano.

Ma una mattina, alle sette precise, li sorprese un’esplosione terribile. Fu il 30 di luglio. Una di quelle formidabili granate che sembrano bolidi era scoppiata avanti alle trincee. Non ebbero il tempo di riaversi. Dopo alcuni colpi di sistemazione, il bombardamento si fece serrato, intenso, spaventoso. Il fragore delle detonazioni assunse una continuità sconvolgente, era una catena di folgori, e la Forcella del [p. 240 modifica] Cianalòt scomparve entro una eruzione terrorizzante di pietre, di vampe, di detriti, di terra, di schegge, e il fumo balzava su a colonne, a getti, a sprazzi altissimi, per fondersi in immani cumuli, gialli, densi e pigri.

La violenza delle esplosioni era tale, che delle scaglie di roccia grandinavano sulle nostre stesse posizioni. I soldati nostri dovevano tenersi al coperto dietro alle anfrattuosita del Pizzo Occidentale, per non essere colpiti dalle pietre che quel furore di fuoco proiettava tutto intorno. I reticolati sparivano. Paletti di acciaio divelti, ancora uniti da fili, roteavano in aria sibilando. Le trincee di cemento erano qua e là intaccate, sbocconcellate, sbrecciate, in qualche punto anche sfondate. Otto ore consecutive durò quel fiammeggiante uragano di acciaio.

Alle tre del pomeriggio il bombardamento cessò.

Dietro ai ripari i nostri soldati aspettavano quel momento, il fucile nel pugno, la baionetta inastata. Nel silenzio improvviso echeggiò l’urlo possente dell’assalto. Dalle vette le nostre truppe precipitarono giù follemente, a salti, a balzi. «Pareva — dicono gli ufficiali — una frana d’uomini». Una frana grigia, tumultuosa, vivente, ululante.

I più agili arrivarono prima. La discesa disseminò i reparti. Si vide allora, avanti a tutti, a duecento passi dai compagni più vicini, [p. 241 modifica] solo, un alpino atletico, che correva impetuosamente verso le trincee piene di austriaci, intimando la resa, a gran voce.

La intimava in tedesco. Era uno di quei pazienti, forti e parchi emigratori friulani che la miseria spingeva oltre le frontiere a vivere di duro lavoro, trattati come esseri inferiori, come bestie da fatica dall’insolenza germanica. Aveva sofferto ogni umiliazione, l’oscuro polentafresser ma non l’aveva dimenticata. Era arrivato il suo momento. Aveva lui il comando ora: «Fuori tutti! Giù le armi! Arrendetevi!» Egli era la Vittoria.

E prima che gli altri assalitori sopraggiungessero, avanti a quell’uomo solo, decine e decine di austriaci sbucavano fuori, pallidi e inermi, con le mani levate. Da ogni uscita i prigionieri emergevano, a uno a uno, con delle facce attonite e convulse. Furono presi centoventi soldati prigionieri e sette ufficiali. Oltre cento cadaveri nemici insanguinavano i cunicoli delle trincee. Il bombardamento aveva inebetito gli austriaci. Alcuni dovevano essere sorretti. Erano tutti sbalorditi e inerti.

Mentre la lenta carovana dei vinti cominciava a scendere dalle alture, il nostro cannoneggiamento riprendeva, battendo più lontano della Forcella. Sbarrava il passo ai contrattacchi. Si combatteva anche più a ponente, ma si trattava di una nostra finta. Preparando l’assalto del Cianalòt, un’azione accennava a [p. 242 modifica] volere aprirsi il passo nella Valle del Fella scendendo verso Lusnitz. Conquistato il nostro vero obbiettivo, verso il tramonto, si rifece la quiete.

Ma il giorno dopo il nemico volle tentare una rivincita, e con batterie di medio calibro, piazzate durante la notte nei pressi di Malborghetto, aprì il fuoco sulla Forcella. Lanciava granate mine e bombe di gas asfissiante. Continuò il primo agosto a bombardare, senza avvicinare truppe per l’assalto. Voleva forse soltanto impedire i lavori di rafforzamento. Poi si rassegnò e tacque.

Non completamente però. Tutti i giorni cannoneggiava un poco. Di tanto in tanto la Val Dogna è percossa dai rimbombi dei colpi austriaci. Si vedono delle granate scoppiare fra le rocce, sulle quali lasciano un segno di scheggiatura fresca, e il fumo viaggia, portato dal vento, sugli accampamenti aggrampati al rovescio delle balze. Qualche colpo mal diretto passa sulle creste e arriva nel fondo del vallone. L’ululato del proiettile allora si prolunga curiosamente, per gli echi forse, dopo il boato dello scoppio.

I nostri soldati, sistemata la posizione della Forcella, l’hanno anche ingegnosamente adornata. Come per una sfida, per ergere di fronte allo straniero un simbolo d’italianità, essi hanno costruito proprio sulle trincee un campaniletto veneto, che ha un vaso di shrapnell per [p. 243 modifica] campana. Manda un suono da campanaccio da armento, un suono di pace.

Più in basso, al coperto, dove comincia il bosco e si annida fra i macigni il primo posto di medicazione, i soldati hanno eretto un baldacchino alto: quattro tronchi per colonne, una cuspide di fronde, una croce sulla punta. Una grossa pietra rozzamente spianata biancheggia sotto al baldacchino, al quale si sale per una specie di grandiosa scalea di rocce. È l’altare. Alla domenica il cappellano vi dice la messa; in giro sui dirupi e fra gli alberi si accalca la soldatesca immobile, silenziosa e grave; il cannone romba lontano, e in alto, sulle trincee, lo shrapnell tintinna sul suo minuscolo campanile.


Gli austriaci non avevano preveduto la possibilità di portare delle artiglierie pesanti sulle balze della Val Dogna. Non immaginavano che la montagna potesse in poche settimane venir solcata, tagliata e ascesa da strade ruotabili di una fantastica arditezza. Vi erano solo dei sentieri da cacciatori e da contrabbandieri. Nei primi tempi della guerra ogni carovana, ogni salmeria che s’inerpicava sulla valle perdeva qualche mulo. Il terreno si sfaldava, lembi di sentiero franavano, e le più solide bestie da soma spesso scivolavano nei passi angusti e scoscesi, perdevano piede, si dibattevano per un istante annaspando convulse con [p. 244 modifica] gli zoccoli, ogni muscolo teso e fremente in un muto terrore, e precipitavano nel burrone, le zampe in aria, in mezzo ad una valanga di terriccio e di sassi. Ora l’automobile sale le stesse pendici.

La strada pare che assalti le balze; passa da una all’altra con quel serpeggiamento ascendente, serrato e folle che hanno certi razzi. Va su, va su, tagliata nel macigno; s’inerpica su delle vere pareti; sembra da lontano, in certi punti, un zig-zag tracciato sopra un muro gigantesco. Non ha parapetti ancora, è larga poco più della vettura, sovente le ruote lasciano cautamente il loro solco lieve ad un palmo dall’abisso. Sporgendosi si scorge il biancheggiare lucente e vivo dell’acqua che scorre precipitosa giù nel fondo, nell’ombra, fra macigni lavati e chiari intorno ai quali essa mette effervescenti collari di spuma. Le volute percorse pochi momenti prima salendo, sono sotto, a picco, già lontane nella profondità. Più avanti o più indietro la strada sembra sempre troppo angusta per potervi passare, e si ha l’impressione di doversi sentir slanciare da un momento all’altro nel vuoto. Ad ogni giro essa manca allo sguardo, sparisce, non è più che un taglio, una soglia oltre la quale non c’è più niente.

Strade mirabili, strade prodigiose aperte dalla guerra! Hanno nel loro tracciato stesso una violenza e un impeto, come un segno di [p. 245 modifica] volontà ferma, la volontà di passare, la decisione di non conoscere ostacoli. Sono comparse ovunque, come per incanto, ad ogni altitudine, attraverso regioni impenetrabili ancora chiuse al traffico umano come all’inizio dei tempi. Solide, incancellabili, queste arterie della nostra forza scavalcano ponti di pietra, si appoggiano a muraglie massicce, e sul sasso appena tagliato si vedono scolpiti simboli di armi, frasi lapidarie di ricordo, date, numeri di reggimenti, che narreranno al più lontano avvenire questa magnifica storia che noi viviamo, come quei cippi che ai margini delle strade romane le legioni creatrici piantavano.

Davanti a queste opere gigantesche che sorgono da una settimana all’altra, ci si ricorda stupiti che un male dell’Italia è la deficienza di strade, che delle belle province nostre si spopolano, che delle ubertose regioni nostre agonizzano, perchè isolate dal mondo. Cinquanta anni di pace non hanno dato alla Calabria, alla Basilicata, alla Sicilia, le strade che un mese di guerra apre nelle più impervie regioni del mondo. Ci accorgiamo ora di quello che la disciplina può fare di noi. Avevamo bisogno di un’unione e di un comando.

Le nuove strade ci permettono uno spostamento di grosse artiglierie, quale gli austriaci si erano da molti anni assicurato con una viabilità aggressiva che arretava tutte le nostre frontiere. I cannoni più potenti, che parevano [p. 246 modifica] destinati a non muoversi dai forti, ora viaggiano per tutto, trainati da motori, in lunghi e lenti convogli di carrocci pesanti al passaggio dei quali il suolo freme. È come se le fortezze avessero sciolto le righe e manovrassero. Il duello delle artiglierie pesanti, qui come sull’altipiano di Asiago, ha preso una mobilità maestosa. Cessato su Malborghetto riprende altrove, su nuove posizioni, si sposta, gira.


Abbiamo fatto un rapido e largo giro per le valli del Dogna e del Raccolana, che si somigliano un poco, parallele e brevi, egualmente dirupate e truci alle testate, piene di una agreste poesia agl’imbocchi, dove s’ingentiliscono, verdi di prati, disseminate di piccoli villaggi alpestri che seguitano a vivere la loro antica vita eguale sotto al rombo delle artiglierie, e verso i quali alla sera ascendono in fila per sentieri erbosi robuste contadine, curve sotto alla gerla colma di fieno odoroso, rosse e sorridenti.

A Chiusaforte una folla di soldati si serrava intorno a qualche cosa, riempiva la strada, altri accorrevano su dai baraccamenti e dai parchi, delle grida, delle risa, un pigia pigia, un sollevarsi dei più lontani sulle punte dei piedi, un’agitazione di berretti grigi.

«Che c’è?» - chiedevano gli ultimi arrivati. «Dei prigionieri!» — «Cantano!» — «Quanti? quanti?» — «Da dove vengono?» — «E chi li capisce?».... Degli ufficiali sono [p. 247 modifica] sopraggiunti: «Indietro, via! Volete andarvene?» — hanno comandato. I soldati si sono dispersi come delle formiche fra le quali sia caduto un fiammifero acceso. E allora si sono visti nello spazio vuoto due strani tipi, stracciati, vestiti di una tunica irriconoscibile, una specie di camiciotto di tela sporca, con dei grossi stivali deformati, impolverati e rotti, la testa coperta da un largo berretto a piatto con la fascia rossastra.

Giovanissimi, imberbi quasi, magri, pallidi, macilenti, uno basso, uno alto, con delle grosse mani scarnite che si muovevano in gesti disordinati. La loro faccia esotica, dagli zigomi sporgenti e gli occhi asiatici, era tagliata dal largo sorriso di una felicità piena, il quale scopriva dei grandi denti bianchi. Erano russi fuggiti alla prigionia austriaca.

Costretti a fare trincee contro di noi, erano riusciti a separarsi dai loro compagni, e marciando di notte, nascondendosi al giorno, mangiando non si sa come, vivendo così per una settimana una vita da bestie cacciate, erano arrivati ai nostri avamposti.

Ogni tanto li prendeva un impeto di allegrezza, li sollevava un’onda di gioia; agitando i berretti urlavano: «Viva Italia! Viva, viva, viva!» — e i loro poveri grossi piedi stanchi accennavano pesantemente a passi di danza, una di quelle danze slave che si snodano intorno al fuoco dei bivacchi cosacchi, [p. 248 modifica] accompagnate da gridi acuti e da un battere ritmico di palme. Poi cantavano qualche strofa d’un loro canto sostenuto e melanconico come un salmo, che scandivano con movimenti di tutto il loro corpo magro e sofferente. Parevano ebbri. I nostri soldati, scostatisi, dopo aver riso al principio si erano fatti gravi.

Quando hanno visto gli ufficiali, i due russi si sono avanzati verso di loro, e chini, messo un ginocchio a terra hanno afferrato a forza le loro mani per baciarle, con quel gesto di profonda devozione del mugik che bacia l’icone.

L’ultima tappa li aveva avvicinati alla loro grande patria così remota e pallida.