Alcyone/La morte del cervo

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La morte del cervo

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Versilia L'asfodelo
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LA MORTE DEL CERVO.

Q
UASI era vespro. Atteso avea soverchio

alla posta del cervo, quatto quatto
fra le canne; e vinceami l’uggia. A un tratto
vidi l’uom che natava in mezzo al Serchio.

5Un uomo egli era, e pur sentii la pelle
aggricciarmisi come a odor ferigno.
Di capegli e di barba era rossigno
come saggina, folte avea le ascelle;

ma pél diverso da quel delle gote
10sotto il ventre parea gli cominciasse,
bestial pelo, e che le parti basse
fossero enormi, cosce gambe piote,

come di mostro, tanto era il volume
dell’acqua che moveva il natatore
15se ben tenesse ambe le braccia fuore
con tutto il busto eretto in su le spume.

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Un uomo era. A una frotta d’anitroccoli
sbigottita egli rise. Intesi il croscio.
Repente si gittò su per lo scoscio
20della ripa, saltò su quattro zoccoli!

Lo conobbi tremando a foglia a foglia.
Ben era il generato dalla Nube
acro e bimembre, uomo fin quasi al pube,
stallone il resto dalla grossa coglia.

25Il Centauro! Di manto sagginato
era, ma nella groppa rabicano
e nella coda, di due piè balzàno,
l’equine schiene e le virili arcato.

Ritondo il capo avea, tutto di ricci
30folto come la vite di racimoli;
e l’inclinava a mordicare i cimoli
dei ramicelli, i teneri viticci

con la gran bocca usa alla vettovaglia
sanguinolenta, a tritar gli ossi, a bere
35d’un fiato il vin fumoso nel cratère
ampio, sopra le mense di Tessaglia.

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Levava il braccio umano, dal bicipite
guizzante, a côrre il ramicel d’un pioppo.
Repente trasaltò, di gran galoppo
40sparì per mezzo agli arbori precipite.

Il cor m’urtava il petto, in ogni nervo
io tremando. Ma, nella mia latèbra
umida verde, l’anima erami erba
d’antiche forze. E udii bramire il cervo!

45L’udii bramir di furia e di dolore
come s’ei fosse lacero da zanne
leonine. Balzai di tra le canne,
vincendo a un tratto il corporale orrore,

agile divenuto come un veltro
50pe’ gineprai, per gli sterpeti rossi,
con silenzio veloce, quasi fossi
in sogno, quasi avessi i piè di feltro.

O Derbe, la potenza che desidero
è nei metalli che il gran fuoco ha vinto.
55Eternato nel bronzo di Corinto
ti darò quel che i lucidi occhi videro?

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Il Centauro afferrato avea pei palchi
delle corna il gran cervo nella zuffa,
come l’uom pe’ capei di retro acciuffa
60il nemico e lo trae, finché lo calchi

a terra per dirompergli la schiena
e la cervice sotto il suo tallone,
o come nella foia lo stallone
la sua giumenta assal per farla piena.

65Erto alla presa della cornea chioma,
con le due zampe attanagliava il dorso
cervino, superandolo del torso,
premendolo con tutta la sua soma.

Furente il cervo si divincolava
70sotto, gli occhi riverso, il bruno collo
gonfio d’ira e di mugghio, in ogni crollo
crudo spargendo al suol fiocchi di bava.

Era del più vetusto sangue regio,
di quelli che ammansiva il suon del sufolo,
75vasto e robusto il corpo come bufolo,
di vénti punte in ogni stanga egregio.

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Quanti rivali, oh lune di Settembre,
cacciati avea da' freschi suoi ricoveri
e infissi nella scorza delle roveri,
80pria d’abbattersi al Tassalo bimembre!

Si scrollò, si squassò, si svincolò.
E le muglia sonavan d’ogni intorno.
In pugno al mostro un ramo del suo corno
lasciando, corse un tratto; e si voltò.

85Si voltò per combattere, le vampe
dalle froge soffiando e le vendette.
Il Tassalo gittò la scheggia; e stette
guardingo, fermo su le quattro zampe.

Un fil di sangue gli colava giù
90pel viril petto, giù per il pelame
cavallino il sudore. Come rame
gli brillava la groppa or meno or più

al sole obliquo che ferìa lontano
pe' tronchi, variato dalle frondi.
95S’era fatto silenzio nei profondi
boschi. Il soffio s’udia ferino e umano.

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Gli aghi dei pini ardere come bragia
parean sul campo del combattimento.
E l’aspro lezzo bestial nel vento
100si mesceva all’odore della ragia.

Pontata a terra la sua forza avversa,
il cervo, come fa nel cozzo il tauro,
bassò l’arme. La coda del Centauro
tre volte batté l’aria come fersa.

105Una rapidità fulva e ramosa
si scagliò con un bràmito di morte.
O Derbe, ancor ne freme per la sorte
del petto umano l’anima ansiosa.

Credetti udire il gemito dell’uomo
110su l’impennarsi del caval selvaggio.
Ma il Tessalo con inuman coraggio
il cervo avea pur quella volta dómo!

Preso l’avea di fronte, alle radici
delle corna, e gli avea riverso il muso.
115Entrambi inalberati, l’un confuso
con l’altro in un viluppo, i due nemici,

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tra luci ed ombre, sotto il muto cielo
saettato da sprazzi porporini,
lottavano; e su i due corpi ferini,
120se le zampe le punte il fitto pelo

il crino irsuto il prepotente sesso,
io vedea con angoscia il capo alzarsi
di mia specie, agitare i ricci sparsi
quel vento d’ira sul mio capo istesso.

125E, gonfio il cor fraterno d’un antico
rimorso, tesi l’arco dell’agguato.
Ma l’uom co' pugni avea divaricato
e divelto le corna del nemico.

Udii lo schianto stridulo dell’osso
130infranto, aperto sino alla mascella.
Fumide giù dal cranio le cervella
sgorgarono commiste al sangue rosso.

L’erto corpo piombò nel gran riposo
con urto sordo; sanguinò silente;
135senza palpito stette; del cocente
flutto bagnò l’arsiccio suol pinoso.

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Rise il Centauro come a quella frotta
lieve natante giù pel verde Serchio.
Poi levò, grande nel silvano cerchio,
140il duplice trofeo della sua lotta.

Fiutò il vento. Ma prima di partirsi
colse tre rami carichi di pine;
e due n’avvolse intorno alle cervine
corna, e sì n’ebbe due notturni tirsi.

145Del terzo incurvo fece un serto sacro
e se ne inghirlandò le tempie umane
ove le vene, enfiate dall’immane
sforzo, ancor cupe ardeangli di sangue acro.

Precinto, armato dei due tirsi foschi,
150sollevò la gran bocca a respirare
verso il Cielo. S’udia remoto il Mare
seguir col rombo il murmure dei boschi.

Sola una Nube era nell’alte zone
dell’Etere qual dea scinta che dorma.
155Venerava il Nubigena la forma
cui fecondò l’audacia d’Issione.

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Bellissimo m’apparve. In ogni muscolo
gli fremeva una vita inimitabile.
Repente s’impennò. Sparve Ombra labile
160verso il Mito nell’ombre del crepuscolo.