Andromaca (Euripide - Romagnoli)/Introduzione

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Introduzione

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Euripide - Andromaca (420 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1931)
Introduzione
Andromaca (Euripide - Romagnoli) Personaggi
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Se dovessi precisare quale sia il motivo fondamentale ispiratore dell'Andromaca, direi l'odio a Sparta. Odio che serpeggia, piú o meno, in tutte le tragedie; ma che qui domina, e palesemente informa la concezione delle due figure piú caratteristiche del dramma: Menelao ed Ermione. Sono proprio dipinte col fiele: la loro condotta è tanto esecranda, che le imprecazioni scagliate contro di loro dagli altri personaggi trovano pronta eco, facile consenso nel cuore di tutti gli spettatori. Sicché il poeta, abilmente equivocando, da un personaggio a tutta una città, dal tempo mitico al vivo e presente, converte l’invettiva del dramma mitico in invettiva politica attuale. Le fiere parole di Andromaca e di Peleo contro Menelao ed Ermione vanno a colpire i fedifraghi Spartani contemporanei d’Euripide.

Né l’attacco è limitato agli uomini. Dice Peleo:

...e già, neppur volendo, a Sparta
restar potrebbe onesta, una fanciulla:
ché, lasciate le case, insiem coi giovani,
nude le gambe, alto succinte i pepli,
hanno comuni — usanza insopportabile —
studî e palestre. E allor, che meraviglia,
se le fanciulle oneste non vi crescono?

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È un trattar da sgualdrine tutte le donne di Sparta.

E se Sparta piange, Argo non ride. Non è facile immaginare una figura meno simpatica di quell’Oreste che proclama d’aver tesa un’insidia contro Neottolemo; e che spera cosí di sopprimerlo. Cinismo che non possiamo non credere figlio di vigliaccheria.

Abbandonandosi alla passione politica, Euripide si è allontanato dalla tradizione, che non dipingeva cosí tristi né Menelao, né Ermione, e, tanto meno, Oreste. Ma non è che questa alterazione danneggi, come pur fu detto, la generale economia artistica del lavoro. L’Andromaca appartiene a quel genere di drammi, e, se si vuole, a quel periodo creativo (l'ultimo) in cui Euripide distacca le figure del mito dalla compagine di eventi in cui le poneva la tradizione, e dalla quale ricevevano lume e ragione, per plasmarle secondo un nuovo modulo, e farle muovere liberamente su la scacchiera, che sempre piú si andava ampliando, di nuove situazioni.

Ora, in questo tipo di dramma, l’unico quesito che in linea critica si dimostri legittimo, è se l’intreccio susciti interesse, e se i caratteri abbiano il rilievo e diano l’illusione della vita.

Diciamo súbito che i caratteri, per quanto odiosi, sono bene osservati e ben resi.

Si veda Ermione. Già le sue prime parole la dipingono per intero. Appare in ricche vesti, e carica di gioielli; e la prima notizia che dà è che non sono doni dello sposo, bensí del padre Menelao. E ricorda che i vasi che servono a lavare i pavimenti della sua casa, sono d'oro. E non si lascia sfuggire veruna occasione di esaltare le proprie ricchezze, e disprezzare la povertà del marito. E al menomo contrasto, porta alle stelle Sparta, e vilipende Ftia. Andromaca glie ne muove aspro rimprovero. [p. 5 modifica]

Tu, basta che alcunché t’irriti, Sparta
è la gran cosa, e Sciro è men che nulla,
e ricca sei fra poverelli, e piú
d’Achille vale Menelao. Per questo
t’odia lo sposo tuo.

La sua perfidia contro Andromaca, e, piú, contro l’innocente bambino, è addirittura insopportabile; e peggiore il cinismo con cui enuncia le sue infamie.

È intanto, è cosí nulla, che, di per sé, neppure avrebbe concepito questo suo grande odio. Le compagne, le amiche la sobillarono coi loro tristi consigli: cosí essa dice ad Oreste.

E s’intende bene che, non essendo spontaneo, bensí d'accatto, questo suo atteggiamento tramuta alla prima occasione.

Dopo l’arrivo di Peleo, quando la preda le sfugge, ed ella rimane col terrore dell’arrivo di Neottolemo, quella sua spietata decisione cade come una larva, e la sdegnosa regina appare convertita in misera querula donnetta.

È, insomma, tutta incertezza, frivolità, vanità. Una farfalla. La prima, in letteratura, osservata e resa con tanta precisione e felicità di particolari. Andromaca coglie il punto capitale della sua psicologia, quando la chiama, e non per vezzo «ragazza» (192). E: «Tu sei giovinetta», insiste poco dopo. E dice a Menelao:

                              Tu sei dappoco,
che per le ciance d’una figlia ch’à
senno di bimba, tal furore sbuffi.

Questo è il nodo. Ermione è rimasta una bambina. In lei vediamo un tipico esempio d’arresto di sviluppo. E questo, mentre la inquadra sicuramente nella vita reale, spiega in qualche modo e rende un po’ meno insopportabile, dal lato scenico, la sua odiosità. [p. 6 modifica]

E nel complesso, Ermione è una figuretta da poco, senza nulla d’eroico, una borghesuccia, si direbbe oggi. Ma la precisione del disegno, la vivacità del colore, la rendono indimenticabile, mentre tante altre solenni eroine, appena spariscono dalla scena, spariscono anche dalla nostra memoria.

In Menelao, come s’è detto, Euripide ha voluto foggiare un prototipo d’odiosità. E i tratti con cui dipinge la sua malignità e la sua ribalderia sono d’indiscutibile efficacia. Ha attorte le mani d’Andromaca in maniera da torturarla. Peleo lo rampogna:

                              Cosí, tristo ribaldo,
hai le sue mani deturpate? Un bove,
forse, un leone trascinar pensavi?

Convince Andromaca ad allontanarsi dall’ara protettrice, promettendole di lasciar libero il figlio; ma dopo che la misera s’è lasciata convincere, non mantiene piú la promessa, e dichiara cinicamente di averla tratta in inganno.

E pari alla perfidia, la vigliaccheria. Basta che un vecchio, Peleo, lo affronti, perché egli lasci la sua preda. E, pur di svignarsela, lascia esposta la figliuola all’ira, certo inevitabile, di Neottolemo.

E la vigliaccheria si sposa ad una smargiasseria quasi pulcinellesca. Quando vede che Peleo non cede, si ritira lui, e del ritiro adduce tale pretesto:

Ora, perché tempo non ho d’avanzo,
torno alla patria mia. C’è presso a Sparta,
una città che innanzi amica m’era,
e adesso da nemica opera. Io stringerla
voglio d’assedio, e in mio potere averla.
E quando avrò secondo il mio volere
disposte ivi le cose, tornerò.

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Fa davvero pensare al gracioso d’una commedia di Juan de Alarcon; il quale, quando vede il suo padrone impegnato con un fiero nemico in duello mortale, si allontana esclamando:

Perdio, tirano alla pelle!
Vado in fretta a confessarmi,
e a morir volo con te.

Diciamo dunque, che, poiché Euripide voleva dipingere un personaggio odioso, ha raggiunto perfettamente il suo scopo. Però, come altra volta ho già rilevato, queste assolute perfidie, senza alcun raggio di luce, non conseguono, nel mondo scenico, né gran credito né grand’effetto. E i personaggi che ne sono esponenti, divengono tipi, e, in definitiva, fantocci. Questo Menelao è un po’ il fantoccio del «tiranno».

Strano, e non forse casuale, che anche a suo favore militi la stessa ragione che serve d’attenuante ad Ermione. Peleo ad un certo momento gli dice:

E dunque, mai non conterai per uomo,
tristo fra i tristi? Il senno tuo dov’è,
degno d’un uomo?

Sembra quasi che Euripide voglia implicitamente insinuare che questa infantilità cattiva era come uno stigma della famiglia d’Agamennone. Comunque sia, per questo tratto caratteristico, Menelao esce un po’ dal tipo generico del tiranno, per divenire persona specificamente designata, cioè vitale.

E accanto ai personaggi odiosi, i simpatici: Andromaca e Peleo. E simpatici senza eccezioni, come raramente li troviamo in Euripide.

Veramente c’è’ in Andromaca un punto oscuro: ed Ermione, resa chiaroveggente dall’odio, lo rileva: [p. 8 modifica]

                              Presso il figlio ardisci
giacer d’un uomo che il tuo sposo uccise,
e figli procrear dall’assassino.

La rampogna trova consenzienti noi, e trovava certo consenzienti i contemporanei d’Euripide. E allora, si potrà domandare, perché Euripide ha rievocato questo particolare, che non accresceva simpatia ad una figura che egli voleva pur dipingere simpatica? Forse per la sua tendenza, altre volte rilevata, a gittar qualche ombra anche sulle figure piú belle. O forse, qui, per uno scopo affatto contrario. Tutti gli spettatori sapevano dalla leggenda, diffusissima, che Andromaca era andata sposa a Neottolemo, e la biasimavano in cuor loro di non aver preferita la morte. Facendogliene qui infligger biasimo, e da un personaggio odioso, si compieva in qualche modo una catarsi. Del resto, in ogni suo detto, in ogni sua opera, Andromaca è figura quanto mai nobile ed elevata.

E simpaticissimo è Peleo. Troppo crude e brutali possono sembrare alcune sue espressioni contro Ermione; ma le assolve la loro essenziale giustezza, e la disumana crudeltà della figlia di Menelao. Del resto, si dimostra pieno di coraggio e di generosità. E dal suo reale eroismo e dalla sua tarda età riesce scusato, e quasi simpatico, quel pizzico di fanfaronaggine che dimostra un po’ in tutte le sue parole, e massime al momento di lasciar la scena.

Oreste è poco piú che una macchietta. Ma non sfuma, neanche lui, nel generico. È un tristo e un debole, che, non potendo farsi giustizia con la forza, se la fa con l'astuzia e con la frode, e cinicamente se ne vanta. Non fantoccio, dunque; bensí carattere, che qui è in abbozzo, ma che potrebbe avere sviluppo drammatico. Caratteri simili ne abbiamo avuti, e frequenti, sulle scene moderne.

Concludendo, non caratteri di grande sviluppo, né di alto [p. 9 modifica]volo; ma tracciati con linee sicure, e ben distinti l'uno dall’altro, con qualificazioni spesso contrastanti. Onde la vivacità del loro urto: cioè la vita drammatica.

Alla rilassatezza dei caratteri eroici corrisponde, al solito, l’abbassamento di tutto il tono della tragedia. E cosí, non solo i fatti creati dal nuovo intreccio, bensí anche tutti gli elementi della tradizione sono interpretati a stregua della psicologia e della morale borghese.

Talis mater talis filia — diceva, come or dice, la saggezza del popolino: e qui di Ermione si afferma che è quello che è perché figlia di quella madre.

E i bravi Ateniesi temevano per le loro mogli la compagnia delle cattive amiche. Ed Ermione, nella sua resipiscenza, dice:

No, mai, no, mai, lo dico e lo ripeto,
quanti mariti hanno giudizio, devono
acconsentir che in casa entrino donne
a frequentar la moglie: esse maestre
son di ribalderia.

E il finale del suo discorso è proprio da commedia.

E dunque, uomini, gli usci
di casa vostra custodite bene
con serrature e catenacci: ché
nulla di buono arrecano, se v’entrano
estranee donne in casa, e assai malanni.

Non andrebbe a pennello nella concione che rivolge Mnesiloco alle donne nelle Tesmoforiazuse? [p. 10 modifica]

E, naturalmente, i Numi non sono trattati con maggior riguardo degli eroi. Le tre Dèe si presentano a Paride rissando l’una con l’altra, come lavandaie (287), mettendo a confronto le reciproche qualità (παραβαλλόμεναι) con profluvii di parole vituperose (ὑπερβολαῖς λόγων δυσφρόνων).

E quando appare Tetide a consolare Peleo, questi osserva:

Ora, non deve, chi ben sa, figliuole
di nobili sposare, e dare a nobili
le proprie, e non bramar mogli volgari,
anche se in casa ricca dote portino?

Son queste le ultime parole del dramma. E certo il vecchio Eschilo avrebbe inorridito udendo che si traeva una morale cosí utilitaria e terra terra dal sacro dramma di Diòniso.

Ed anche le altre qualità essenziali della maniera euripidea appaiono affermate nell’Andromaca.

Il patetico, che qui tocca il suo vertice nella scena del bambinetto Molosso, che si gitta ai piedi dello spietato Menelao, e nell’altra, che preannunzia il gran finale de Le Baccanti, nella quale il vecchio nonno Peleo piange sul morto Neottolemo.

E lo spettacoloso. Quando appare Tetide, il coro esclama:

Che s’agita mai? Di qual Nume
sento io la presenza? Fanciulle,
guardate, mirate: solcando
dell’etra il fulgore,
un dèmone scende sui campi
di Ftia.

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Parrebbe dunque che Tètide non apparisse di sorpresa, ma che una macchina rendesse possibile un suo transito luminoso attraverso l’aria.

E il colorito erotico e romanzesco. Oreste aveva avuta promessa sposa Ermione. Ma poi la fanciulla è concessa ad un altro; e non va d’accordo con lui. Il primo amato lo sa, e ronza intorno, sinché gli si offre il momento buono per rapirla allo sposo. — Ed è poi abbastanza strano che Oreste ed Ermione non si amano. A questo proposito, la grande scena tra i due ha offeso piú d’una coscienza. «Né Oreste né Ermione — dice il Patin (pag. 285) — hanno per attenuante la passione. Una agisce per timore, l’altro per calcolo ed interesse; e l’amore non c’entra». È proprio cosí. Ed è caratteristico: qui vediamo affermata la tendenza, trionfante poi nella elegia e nella commedia alessandrina, che amore debba essere la molla d’ogni dramma. E anche se il contenuto non è erotico, deve almeno sussistere una superficiale vernice erotica.

Ed anche qui troviamo la musica usata in momenti nei quali alla nostra sensibilità sembrerebbe meno opportuna. Quando per esempio, dopo la partenza di Menelao, esce Ermione, ed esprime il suo pentimento per gli eccessi a cui è trascorsa, e per la punizione che ne teme da Neottolemo. O quando Peleo riceve il cadavere dilaniato di Neottolemo.

Pure, in entrambi questi casi possiamo rimanere perplessi, perché non sappiamo precisamente con quali modi e quali gradazioni si effettuasse il trapasso dalla recitazione al canto. Ma quando poi, alla fine della prima delle suddette scene, Ermione dice:

Deh, potessi volar lungi da Ftia,
come augello azzurrino,
o come il curvo pino
che in mezzo alle cerulee
rupi il primo compié corso marino;

[p. 12 modifica]allora possiamo abbandonare ogni esitazione. Che Ermione, un temperamento cosí poco lirico, in un tale eccesso di paurosa disperazione, foggi immagini tanto sottili e pittoresche, è falso, falso senza riparo. E qui sentiamo tutta la giustezza e tutto il valore di certe parodie e di certe critiche aristofanesche.

Si risponde che la musica velava, mascherava un po’ — o molto — la falsità. Senza dubbio: per lo meno possiamo supporlo; ma questa mascheratura non sana l'intimo vizio. In realtà, troviamo qui, già trionfante, la intollerabile falsità melodrammatica, che tanto male ha recato e reca tuttora alle arti musicale e drammatica.

E tanto questo uso della musica, quanto il colorito erotico romanzesco, sono, mi pare, indici cronologici che consentono assai sicuramente di collocare l’Andromaca verso l'ultima fase dell’attività del poeta.

Il Christ sostiene invece che l’accanimento contro la malafede e lo spirito di raggiro degli Spartani ci richiamano ai primi tempi della guerra del Peloponneso. Ma contro questa opinione sembrano decisive, in linea obiettiva, le parole dello scoliaste al verso 445: «Gli Spartani violarono la pace con gli Ateniesi, come scrive Filocoro». Questa pace non potrà essere che la pace di Nicia. La condotta degli Spartani dopo quella pace, e massime l’alleanza con Tebe (420), non possono essere considerate, anche da giudici come noi, tanto remoti di tempo e d’interesse, se non come veri e proprii tradimenti. E l’atmosfera che si creò allora in Atene dové esser proprio quella che si respira nell’Andromaca.

La cui composizione cadrebbe dunque dopo il 420. Ma i caratteri intimi, che abbiamo già rilevati, farebbero pensare ad una data anche piú bassa. E motivi a rinnovamenti d'odio [p. 13 modifica]non mancarono mai nel corso della lunga ed accanitissima guerra.

I critici giudicarono sempre poco favorevolmente l’Andromaca, dall’antico autore dell'argomento, che la classificò di second’ordine 1, al Wilainowitz (Herakles2, 121), che la chiama senz’altro un cattivo dramma, al Christ, il quale sentenzia che in nessun altro dramma si deve deplorare tanta rozzezza. E il medesimo autore, badando alla esaltazione che nel dramma si fa della real casa dei Molossidi, congettura che l’'Andromaca non sia stata rappresentata in Atene, bensí in qualche corte semibarbara, e improvvisata per qualche festa.

Se poi si viene a precisare, gli appunti che specialmente si rivolgono al dramma sono: 1) che manca d unità, perché con l’arrivo d’Oreste incomincia un altro dramma; 2) che lo spirito del poeta è troppo dominato dalla passione politica.

Ma la prima osservazione è piú speciosa che vera. Non è proprio esatto che con l’arrivo d’Oreste incominci un nuovo dramma. La scena fra Oreste ed Ermione ha piuttosto carattere d’intermezzo, come, nella Medea, la scena fra l'eroina e Peleo. E con la seconda entrata di Peleo si torna in qualche modo alla prima parte, continuandola, illuminandola, ed esponendo le ultime vicende di Neottolemo e la sistemazione di Andromaca e del fanciullo Molosso, sui quali il poeta aveva fatto nella prima parte convergere l’interesse degli spettatori. Siamo al solito sopruso dei critici. Prima postulano un concetto dell’unità che difficilmente può aver valore obiettivo. Poi, facendo un processo, spesso arbitrario, alle intenzioni del poeta, determinano e restringono un po’ a modo loro il [p. 14 modifica]soggetto del dramma. E se lo sviluppo non corrisponde perfettamente a questo lor duplice concetto, condannano. Ma pensate che ampia e libera concezione dell’unità si palesi in tutti i drammi greci, e massime in quelli d’Euripide: ponete che soggetto del dramma siano, come sono, le ultime vicende di Neottolemo; e vedrete che l’unità, in certo senso indispensabile in ogni opera d’arte, scacciata dalla porta, rientra dalla finestra.

Si può piuttosto osservare che questa libera giustaposizione di tre motivi che avrebbero potuto offrire ciascuno argomento a un dramma, costituisce ricchezza di materia, ma non d’intreccio. E che per questa parte l’Andromaca non merita molte lodi, neanche di fronte al nuovo modulo drammatico che qui certo si proponeva il poeta.

Quanto poi alla politica, verissimo che essa ha continuamente ispirato Euripide: verissimo che lo ha indotto ad alterare, di fronte alla tradizione, questo o quel carattere. Ma questo fatto, di per sé solo, non ha molta importanza. Ne avrebbe se avesse avuto il risultato di fargli creare personaggi senza rilievo e senza vita. Ma questo non è, lo abbiamo veduto. E allora? — L’invettiva di Andromaca è rivolta piú contro gli Spartani contemporanei di Euripide che non contro Ermione. E che vuol dire? Quando questa invettiva raggiunge a tratti una eloquenza dantesca, essa convince e commuove; e solo un pedante potrà pensare a porre un freno alla propria commozione perché scopre una presunta impurità nella fonte d’ispirazione.

Dice il Patin, concludendo il suo capitolo sull’Andromaca: «Se i ricordi nazionali, i tratti di località e di circostanze di cui abbonda questa tragedia non producono su noi alcun effetto, se parecchi dei personaggi ci riescono repellenti per l’espressione troppo caricata o troppo fedele della loro barbarie, che cosa, dunque, rimane in essa, che possa attrarci?»

Rimane, mi pare, tutto ciò che mi sono studiato di far [p. 15 modifica] risaltare in questa analisi: rimangono le pitture patetiche e commoventi, che ci mettono sott’occhio, spesso con l’evidenza della vita, la fedeltà della schiava troiana, la puerile trepidazione di Molosso, l'eroismo materno, tanto semplice e vero, della sventurata Andromaca, la generosa e un po’ comica baldanza del vecchio Peleo.

E questa antica e perenne nota d’Euripide, che qui tocca spesso il sublime, e l’evidenza della rappresentazione, e la franca baldanza dell’azione scenica (forse troppo libera, e forse per ardor di neofita d’una nuova concezione), bastano, secondo me, a distinguere l’Andromaca, e a farla emergere dalla sfera della grigia mediocrità (alla quale appartengono, per esempio, gli Eraclidi), nella quale vorrebbe relegarla, quasi concorde, la severa sentenza dei critici.

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ANDROMACA

  1. Τὸ δὲ δρᾶμα τῶν δευτέρων. Non mi sembra convincente intendere: «di quelli che ebbero il secondo premio».