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Atlantide/Canto XI

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Canto XI

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Canto X Canto XII
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CANTO UNDECIMO


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Nell’oceano dei Sogni, oltre il negghiente
     Lido, torreggia una montagna gialla,
     A cui zefiro mai d’erba fiorente
     Orna il piè scabro e la gibbosa spalla;
     Assedia i fianchi suoi perpetuamente
     Col turbine che mugghia il mar che balla,
     Balla feroce, e al popolo somiglia
     Tripudiante su la rea Bastiglia.

Come vuoto sepolcro, ogni sua vetta
     In un morto vaneggia ampio cratere,
     Che, quasi bocca sitibonda, aspetta
     Cosa che dee dall’alto in lui cadere.
     Nemesi qui la turba empia saetta
     Dei tiranni del corpo e del pensiere;
     Qui le catene atroci e l’armi stolte
     Presto saranno in tetro oblio sepolte.

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Qui gl’idoli selvaggi, onde l’umana
     Gente si torse in sì tenace affanno,
     Vagolanti fantasmi all’aura vana,
     Dalla terra e dal cielo esuli vanno:
     Un occulto poter li batte e sbrana,
     Nè tregua mai di tal martirio avranno,
     Finchè l’uman Pensier tutto redento
     Non li disperda un dopo l’altro al vento.

Piovono qui, sotto a’ gagliardi fiati
     Onde le tarde menti il Ver disgombra,
     Quanti rei libri in folli età pregiati
     Sparsa la terra han di malizia e d’ombra:
     Mostri sul Ren dall’avarizia nati,
     La cui plumbea dottrina Italia ingombra;
     Mostri nati alla Senna e d’aria pregni,
     Ch’empion di vanità gl’itali ingegni.

Saltar qui mira in orride tregende,
     Come luride streghe intorno al noce,
     Quante folli, crudeli, empie leggende
     Lusingarono già l’età feroce:
     D’origine celeste e di stupende
     Tempre e d’opre immortali ebber già voce;
     Ma all’oblio condannate o al vitupero
     Urlano or qui sotto al flagel del Vero.

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Chi per fame di lucro o di possanza
     Rinnegò l’alta idea che un dì l’accese,
     Perennemente in tormentosa danza
     Turbina in questo squallido paese:
     Ogni giro che fa, muta sembianza,
     E col prossimo suo viene alle prese;
     Ad arraffar la granfia avido ruota,
     Ma la ritrae con l’ugne mozze e vuota.

Vedi quell’altalena eretta sulla
     Roccia, da cui fremendo il mar si arretra,
     E quell’ombra di re, ch’ivi si culla,
     Dal bieco sguardo e dalla faccia tetra?
     Essa è del Tentennon l’anima brulla;
     Nè tregua mai di cotal gioco impetra,
     Gioco o supplizio che la Storia inflisse
     A chi tradendo e titubando visse.

Pende in un ondeggiar perpetuo e lento
     Fra due travi la bieca Ombra sospesa,
     E una salma ti par ch’onduli al vento
     In fra le gambe d’una forca appesa;
     La Viltà quindi e quinci il Tradimento,
     Ond’ebbe Italia invendicata offesa,
     Col guardo al suol, con man di sangue tinta,
     Alternamente a lei danno la spinta.

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Uno stormo di piche ammaestrate
     Intorno al palco strepita e svolazza,
     Come branco di saffiche sguajate,
     Ond’or la musa maremmana impazza;
     Con jati osceni e voci cadenzate
     Laudi perpetue al tristo re schiamazza,
     Mentre dall’alto in lui piega i severi
     Occhi e scrolla il gentil capo Vochieri.

Qui da Pietro a Leone (ahi, l’abborrita
     Di Giuda eredità non anco è chiusa?)
     Piomban quei che venduta hanno e tradita
     Sión sempre ingannata e sempre illusa;
     Chi trafficò la propria e l’altrui vita
     Or qui nel fango ha l’anima confusa;
     Qui ruina chi fece il mondo triste
     Di rapine, di stragi e di conquiste.

Ruina, e sopra a lui fan mora e monte
     Armi, emblemi, trofei, bronzei cavalli,
     Obelischi che al cielo erser la fronte,
     Granitici colossi ed aurei stalli:
     Opere di viltà, memorie d’onte
     Tramandate nei marmi e nei metalli,
     Cui nel suo novo, irresistibil corso
     L’umana Civiltà scote dal dorso.

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Colui che come turbo esiziale
     In un vampo di morte arse la terra,
     Il Caino d’Ajaccio, onde immortale
     Parve l’opera immane or qui si atterra:
     Il Grande, l’Invincibile, il Fatale,
     Di Dio la spada, il fulmine di guerra,
     La speranza e il terror dell’universo
     È qui nel gelo dell’orror sommerso.

Stolto! e non seppe, che ben tenue scorza
     L’opra ha dell’armi ed all’età non dura;
     Che sol breve stagion l’Odio e la Forza
     Contro l’Amore e la Ragion congiura;
     Che la gloria dell’uom presto si ammorza,
     Se alimento d’onor non l’assicura;
     Che nelle notti della Storia orrende,
     Unico faro la Giustizia splende.

In tal serena idea gioía del pari
     D’Esperio il core e della sua compagna,
     Quando di rossa luce arsero i mari,
     E un gran foco s’alzò su la montagna:
     Così velando i plenilunj chiari,
     Qui dove il piè la mia Catania bagna,
     Mutasi l’aria e s’invermiglia tutta,
     Or che Gibello i suoi disdegni erutta.

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Cresce la fiamma, e in una sfera immensa
     Mirabilmente si dilata e splende,
     E là dov’è più candida e più densa
     Un’eccelsa fra mille Ombra comprende:
     Nell’animo così, che veglia e pensa,
     Un’immagin si desta e si raccende,
     Mentre un popol di forme escon dal cieco
     Carcer dell’ombre e s’accompagnan seco.

Come cerule nuvole indistinte,
     Che cullandosi all’aure vespertine,
     D’ametista e di croco ai lembi tinte
     Vaporan da le grige acque marine;
     Quasi da consciente anima spinte,
     Lentamente pe ’l ciel van peregrine,
     E abbracciate fra lor dolci sorelle
     Muovon pensose ad incontrar le stelle;

Così nel mezzo del mirabil foco,
     Dove più puro e men raggiante è il lume,
     Disegnando si vanno a poco a poco
     Profili aerei, ma d’uman costume:
     Il lor colore vaporoso e fioco
     Sembianze certe e noti aspetti assume;
     Ecco, su tante insigni Ombre stupende,
     Il genovese redentor risplende:

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Sei tu, sei tu, con subito e profondo
     Estro d’entusiasmo Edea favella:
     Ben t’affiguro al mite aspetto, al fondo
     Sguardo, alla fronte pensierosa e bella!
     O intemerato cavalier del mondo,
     Ben principia da te l’età novella,
     Da te, dal cui presago alto pensiero
     Raggiò, qual sole dall’oceano, il Vero!

Quando più pura e più sublime Idea
     Più puro cor, mente più alta accese?
     Quando in età più tenebrosa e rea
     Raggio più bel di libertà discese?
     Quando mai l’ala del Pensier che crea
     Finse più mite eroe, più sante imprese?
     Quando sdegno che atterra, amor che molce
     Andâr congiunti in armonia più dolce?

Dolce armonia, che nel tuo bronzeo petto
     Di vaticinj e di dolor nutrita,
     Dalle voci cresciuta, onde un eletto
     Stuolo agitò la tenebra abborrita,
     Alimentata dal perenne affetto
     Per cui sì novi eroi dieder la vita,
     Resa divina dal sospir di tante
     Madri e dall’ira e dall’amor di Dante,

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Nel tuo grido proruppe, e all’aure prave,
     Onda oscura intristía l’itala pianta,
     Diffuse a un tratto un fremito soave,
     Una speranza inusitata e santa;
     Dai pigri petti, dalle menti ignave
     Fugò la nebbia e la negghienza tanta,
     E come squillo di celesti trombe,
     Svegliò la terra ed animò le tombe.

Sorsero sette re, pullulâr sette
     Venali turbe al mal d’Italia armate,
     E industri insidie e perfide vendette
     Fra l’erbe ordîr dal pianto tuo bagnate;
     Il demonio dell’Odio e delle Sette
     Ti saettò con l’armi avvelenate;
     Ma il vermiglio Guerriero, un contro a tutti,
     Sguainò la sua spada, e fûr distrutti.

Salve, o dell’Ideal nitido acciaro,
     Raggio di libertà puro ed ardente,
     Celere qual pensier, come Sol chiaro,
     Gloria della ridesta itala gente!
     Per te dall’ombre dell’esilio amaro
     Rifiammeggiò del Ligure la mente;
     Per te l’Idea, che il cor gli arse perenne,
     Nella destra d’un dio fulmin divenne!

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Mille balzâro al formidabil lampo
     Rossi leoni ed agitâr la chioma,
     E quel ch’or or parea funereo campo
     Opre mirò per cui rinacque Roma;
     All’improvviso, irresistibil vampo
     Tutta di tirannia l’idra fu doma;
     Ed altro osato il fatal brando avrebbe,
     Ma troppo altrui l’alta sua gloria increbbe.

Per la via luminosa, ove il valore
     Gl’inciampi ruppe e la vittoria rise,
     Sorse su bronzeo carro il patrio Amore,
     E l’età nova dietro a lui si mise:
     Tal per la via, che d’un soave albore
     Fascia le notti, il Sol nostro sorrise;
     E di nuovi, crescenti astri un festante
     Popolo il segue con tenor costante.

Passa il fulgido nume, e delle ruote
     Fervide, fragorose il mondo segna;
     Dei popoli cessanti il sonno scuote,
     E il sentier della gloria a tutti insegna;
     Spezza irose barriere, ozj percuote,
     Fuga monarchi, e di punir disdegna;
     E nello sdegno e nel perdon sublime,
     Entro la luce sua tutti redime.

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Tuona alla notte avversa il glorioso
     Plaustro seguito dagli eroi vermigli,
     E squassa ecco la giubba il poderoso
     Leon che infranti a Jena ebbe li artigli;
     Ode la Senna, e fuor del vergognoso
     Letto prorompe e desta a gloria i figli:
     Libertà vien con questi, e l’omicide
     Gare frenando, in mezzo a lor si asside.

Ode il Volga gigante, e in sì profondo
     Spasimo torce i flagellati flutti,
     Che impaurito ne rimugghia il mondo,
     E gialli di terror fansi i re tutti.
     O eroi dall’occhio grigio e dal crin biondo,
     Voi pur di libertà côrrete i frutti;
     Ruinerà lo smisurato mostro
     Sotto al valore ed al martirio vostro!

Fra’ ghiacci immani, entro le cave audaci
     Scorre un giovine sangue, arde un pensiero;
     Dai patiboli sacri e dai voraci
     Sepolcri avventa un raggio immenso il Vero;
     Già Prometeo si scuote, e le rapaci
     Orde travolge e il tracotato impero;
     Su le ruine immoto apre le braccia,
     E in un patto d’amor gli Slavi allaccia.

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Passa il carro augurale, ed un sinistro
     Grido l’Arpia d’Asburgo al ciel saetta,
     E su le tenebrose onde dell’Istro
     Spazia superba, e il dio nemico aspetta.
     Bacca sotto i suoi voli a suon di sistro
     La sitibonda imperial Vendetta,
     E un giovinetto, che dal laccio infame
     Penzola al vento, è poco alle sue brame.

Penzola il sacro giovinetto, e al suono
     Del trionfale iddio s’anima e scende,
     E il glorioso imperator dal trono
     Travolge a un tocco, ed il suo loco prende.
     Un’aureola di sdegno e di perdono
     Il delicato e fiero capo accende,
     Mentre per gli antri della vacua reggia
     La voce sua qual vaticinio echeggia:

Venuta è l’ora! Come fragil tazza
     Da una destra sfuggita ebbra e lasciva,
     Si frantuma il poter dell’empia razza,
     Che a mentir solo ed a misfare è viva;
     La strega irsuta che al Danubio impazza,
     D’occhi non pur, ma d’intelletto è priva;
     Brancola urlando nell’estrema pugna,
     Le braccia vibra, e invan tre genti adugna.

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O mia sacra Trieste, a te col mio
     Sangue io segnai della riscossa il punto;
     Ed ecco, se non fu perfido il dio,
     Cui diedi il sangue, il dì fatale è giunto:
     Sorgi dall’onta dei trentenne oblio,
     Che dagl’itali fati ha il tuo disgiunto;
     E sia la voce tua squilla che i grami
     Popoli alle battaglie ultime chiami!

Vedi? i ferri già scrolla, e dall’infranta
     Carcere il leopardo ungaro balza;
     Freme di sdegno la Polonia santa;
     Le offese membra ricompone e s’alza:
     Di Sobieski la gloria ecco l’ammanta;
     Sorge Kosciusko e il gran vessillo inalza;
     Ecco, irrompenti in luminose schiere
     Di Misckiewitz le strofe alte e guerriere!

Tale il martire parla; e il tenebroso
     Palco, ond’or ora pallido ei pendea,
     Un gigante si fa, che disdegnoso
     Calca passando la progenie rea;
     Poi sorvola il Danubio, e luminoso
     Poggia, e penetra il ciel come un’Idea;
     Mentre dallo Spilbergo orrido, un canto
     Mistico emerge, che ti sforza al pianto.

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Passa il carro fatale, e i sonnolenti
     Popoli sveglia e i novi animi aduna,
     E là tuona ove i freddi raggi lenti
     Piove sul morto Egeo l’odrisia luna.
     Ahi, la terra dei numi e dei portenti
     Giacerà parte inonorata e bruna?
     Gemerà sotto all’ottomano immondo
     Chi nel vel delle Grazie avvolse il mondo?

Rompi i miseri chiostri, in cui malfido
     Di mercanti e di re zelo t’inferra,
     E dal Rodope all’Ida in fiero strido,
     Aquila dell’Olimpo, il vol disserra!
     Tessa pur fra gl’incensi arabi il nido,
     Ma sgombri il turpe Osman l’ellenia terra;
     E i truci sogni e i perfidi terrori
     Dello schiavo tiranno Asia divori!

Vola, o magico plaustro; e poi che infranti
     Cadan gli altari orrendi e i troni infidi,
     Della catena luminosa i santi
     Nodi avvolgi alla terra, o tu che il guidi!
     Tu, di giustizia ispiratore, a quanti
     Popoli all’onor tuo vivano, arridi;
     Tu, di pace foriero, in un possente
     Patto di libertà lega ogni gente!

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Vola, o magico plaustro: i bei destrieri,
     Che traggono il bel dio vittorioso,
     Si cibano di lampi e di pensieri,
     E come questi il volo han procelloso;
     Schiuso a loro è il doman come fu l’jeri,
     Nè mai conosceran meta o riposo,
     Finchè non cada all’ultime tenzoni
     L’ultimo re dall’ultimo dei troni.

Sovra il monte più alto e più sereno
     Del fantastico regno ov’io son nata,
     Quando il corso fatal tutto avrai pieno,
     Una splendida sede io t’ho serbata;
     Sciolti i cavalli tuoi dall’aureo freno
     Al vento ridaran la chioma aurata,
     E in balda gioventù scevra d’affanno
     Eternamente in libertà vivranno.

Tu sotto un padiglione ampio di palme,
     Fra un intreccio di miti ombre e di rai,
     O generoso agitator dell’alme,
     Ozj immortali ed onorati avrai:
     Muovere intorno a te splendide e calme
     Degli eroi le sognanti Ombre vedrai,
     Che diedero alla tua legge gradita
     Divinamente immemori la vita.

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E riandando insiem l’ore secrete
     Del pianto e il sacrificio alto e solenne
     E i mesti errori e le vittorie liete,
     Onde il genere uman libero venne,
     Brillar di dolci lagrime vedrete
     I fior che al vostro piè vita han perenne,
     E le nitide linfe e l’aure blande
     Perpetuamente a voi crescer ghirlande.

Echeggeran le mistiche parole
     Vostre nel mondo, e con pietoso incanto,
     Per quante regioni animi il Sole,
     Animeranno dei poeti il canto;
     Meravigliando udrà la nuova prole
     Le glorie vostre e gli olocausti e il pianto,
     E nutrirà nel petto, ara fumante,
     Il foco pio delle memorie sante.