Vai al contenuto

Atlantide/Canto X

Da Wikisource.
Canto X

../Canto IX ../Canto XI IncludiIntestazione 20 gennaio 2016 100% Da definire

Canto IX Canto XI
[p. 207 modifica]

CANTO DECIMO


[p. 209 modifica]




Sognava Esperio, che sfidato e stanco,
     Sotto l’afa d’un ciel canicolare,
     Giungesse a un campo solitario e bianco,
     Qual cimiterio vasto in mezzo al mare;
     Dove che l’occhio volga o porti il fianco,
     Non viva forma o fil d’ombra gli appare;
     Solo un fremito arcano ode, un susurro
     Fra un bianco immenso ed un immenso azzurro.

Su dodici colonne d’adamante
     Un tempio, in mezzo, infino al ciel torreggia,
     Anzi il ciel tocca ed ha di ciel sembiante,
     E col ciel si confonde e folgoreggia:
     La Legge indeprecata e il Tempo ansante
     Qui dell’Eternità veglian la reggia;
     Qui tra semplici ordigni e vitree storte
     Attende ad immortale opra la Morte.

[p. 210 modifica]


Vergine paziente, austera e mite
     Ella esercita qui la sua ragione;
     Qui con unica legge in infinite
     Guise l’universal vita scompone;
     Qui dà per una un milion di vite,
     Cui tosto la sorella al sole espone,
     La sorella che il ciel, la terra e l’acque
     Move, e con lei d’un solo parto nacque.

In fiala di diaspro ella qui tiene,
     Nè ancor si sa come l’ottenne e donde,
     Un etere divin ch’entro le vene
     Con arte ignota a pochi eletti infonde;
     Il qual non prima insinuato viene
     Entro al corpo un calor nuovo diffonde,
     Ed alle inerti membra aura vitale
     Spira non pur, ma gioventù immortale.

Quivi la Gloria postuma con torto
     Collo su l’uscio ambiziosa attende,
     E a lui che ad immortal vita è risorto
     Festosa accorre, e fra le braccia il prende;
     Scevro allora d’invidia il vulgo accorto
     Suoi vanitosi entusíasmi accende,
     E lui spregiato e combattuto or ora
     Nei marmi eterna, e i freddi marmi adora.

[p. 211 modifica]


Da quell’austera vergine ad un tratto
     Rapire Esperio e sollevar si sente,
     E qual rapida fionda a girar tratto
     Da un braccio adamantino, onnipossente;
     Igneo, leggero e quasi aereo fatto
     Ei turbina vertiginosamente,
     E d’una striscia luminosa, intensa
     Solca i misteri della notte immensa.

Gira ei ratto così, finchè di fronte
     Gli si accampa un fantasma all’aure vane,
     Che torvo, immoto, come piceo monte,
     Tenebre erutta e voci orrende e strane;
     Corrono al cenno suo tre Furie pronte
     Con chiome di serpenti e facce insane,
     E a lui che splende vorticoso in alto
     Muovon ghignando inopinato assalto.

Ei precipita allor sotto ai funesti
     Flagelli e d’improvvisa ombra si ammanta,
     Qual vediamo talor giù dai celesti
     Domi la scheggia d’una stella infranta:
     La segue il prigionier con occhi mesti,
     Pensa a una cara vecchiarella, e canta;
     Spegnersi una pensosa alma la vede,
     E invan sospira alla perduta fede.

[p. 212 modifica]


Rapido ei piomba nell’immenso vuoto,
     Che l’incalza, l’assorbe e lo divora;
     Peso a peso si aggiunge e moto a moto,
     Ruina il tempo, ed ei ruina ognora;
     Pei tenebrori dell’eterno ignoto,
     Che non videro mai riso d’aurora,
     Precipita incessante, e dei maligni
     Spiriti per la notte ode i sogghigni.

Cade alfin sussultando appiè d’un alto
     Scoglio ch’al cielo avventa il picco irsuto,
     Quasi titan che muova al cielo assalto
     Dal cupo abisso, ov’è dal ciel caduto;
     Stendesi intorno, qual puniceo smalto,
     Un mar da spaventose ombre tenuto,
     Che, sia di sangue o di bollente foco,
     Fremebondo s’inalza a poco a poco.

Sorge, ed isola fa tra le rosse onde
     Una riversa, smisurata croce,
     Dove un gigante dalle membra immonde
     Confitto piange in minaccevol voce;
     Si dilatan le sue piaghe profonde
     Perennemente con stridor feroce;
     E dalle piaghe e dalle ciglia spente
     Sgorga di sangue e lacrime un torrente.

[p. 213 modifica]


Allora d’avvoltoj neri, deformi
     Una turba, una folla, un nugol venne,
     Di cui parean li artigli àncore enormi,
     Rostri di nave i becchi, e l’ali antenne;
     Antenne che con moti ampj, difformi,
     E vestite da tetre e bronzee penne,
     Fendeano l’aria impaurita e mesta
     Con fragor di tremuoto e di tempesta.

Inorridisce Esperio; e quel che molto
     Cresce il ribrezzo suo, non la paura,
     È che ognun di quei mostri ha umano il volto,
     Se togli il rostro ch’è d’altra natura;
     Ma il suo ribrezzo in altro senso è volto,
     Quando tutti un per un li raffigura,
     E si sovvien con istupor profondo
     D’averli visti e conosciuti al mondo.

Di Stradella il volpon non è colui
     Che il collo irsuto sogghignando inarca,
     L’uom da’ maligni adattamenti bui,
     Che di frodi gravò l’itala barca?
     Quei che il dorso ripiega al cenno altrui
     Non è di Lissa il perfido navarca?
     L’altro il duce non è dell’empio stuolo,
     Che ferì la nizzarda aquila a volo?

[p. 214 modifica]


E tu che armando invan lo sguardo losco,
     L’aguzza testa serpentino avventi,
     Facondo faccendier, ben ti conosco,
     Che d’Aspromonte il marchio asconder tenti!
     Ben la volpina età, rabula fosco,
     Simulacri a te foggia e monumenti,
     Se al vulgo ignavo, onde tu sei l’emblema,
     Son astuzia e viltà gloria suprema!

Quell’uccellaccio dalle gambe a stecco,
     Allampanato, squallido, ritinto,
     È il terribile eroe di princisbecco,
     Che a Custoza restò scornato e vinto;
     Ben apre ancor, dopo tant’anni, il becco,
     E gracchia: Io fui nell’empia rete spinto;
     Non perfidia o viltà, ma fu cagione
     Della sconfitta mia l’esser coglione!

L’altro, che bieco in lui gitta lo sguardo,
     È il burbanzoso guerriglier di Spagna,
     Che di Gaeta e di Castelfidardo
     Il ducato pappossi e la cuccagna;
     Con moto di pavon solenne e tardo
     Misurando egli vien l’alta campagna,
     Mentre fan sotto a lui strilli di gioja
     Di Brescia il birro e di Fantina il boja.

[p. 215 modifica]


Superbi agli altri innanzi ecco van due
     Con aureo serto e con purpureo rostro,
     Alla cui doppia ereditaria lue
     Volpeggiando ubbidisce ogn’altro mostro;
     Dalle profondità orride sue
     Romba a’ lor voli il tenebroso chiostro,
     Sopra cui l’orda tetra accolta in cerchio
     Fa delle fragorose ali coperchio.

E sè di sè tessendo in ferrea tenda,
     Calasi turbinosa e si dirupa,
     E come sepolcral lapida orrenda
     Di quel baratro immenso il vano occùpa.
     Una voce di pianto, una tremenda
     Bestemmia odi echeggiar per l’aria cupa;
     Odi fra la tempesta atra dell’ale
     Del gigante suonar l’ansia ferale.

Ansa il confitto, e dalla cieca tomba
     L’affannoso fragor fino al ciel giunge,
     Quando su lui lo stuol grifagno piomba,
     E ingordo il preme, e piaghe a piaghe aggiunge;
     E qual nel fianco l’assetata tromba
     Figge aspirando, e quale il cor gli punge,
     Quale il cervello gli dilania, e mentre
     Sen pasce, sopra a lui scarica il ventre.

[p. 216 modifica]


Si contorce egli, e dalla petrea croce
     Divincolare invan tenta le braccia,
     Ed or supplica abjetto, ora la voce
     Fulmina, e spaventosa erge la faccia;
     Si arretra un tratto la congrega atroce,
     E si rannicchia alla fatal minaccia,
     Ma poi che intatti i ferri avversi vede,
     Più feroce di pria torna alle prede.

Torna; ed ecco dal mar torbido e grave,
     Che del sangue di lui bollendo cresce,
     D’anfibj mostri dalle facce prave
     Un inquieto stuol brulicando esce;
     Con umili atti, con voce soave
     Lusinghe e laudi e reticenze mesce,
     Si scalmana, s’acciuffa, e infin si assetta
     Appiè dei sommi, e i loro avanzi aspetta.

Nutriti di viltà, di fraude armati
     Mirali tutti in sol mentir costanti,
     Eroi legali, apostoli bollati,
     Bertoni in toga e galeotti in guanti,
     Barattieri pasciuti e decorati,
     Senatori bardassi e ladri santi,
     Caini e Giuda in levigati astucci,
     Professori Tartufi e Vanni Fucci.

[p. 217 modifica]


Rotava Esperio smanioso i rai,
     D’ira piangendo allo spettacol tristo:
     E non verrà, fremea, non verrà mai
     Un dio liberatore, Ercole o Cristo?
     E tu, popol confitto, ognor sarai
     Di codardi e di rei scherno e conquisto?
     Nè vincerà giammai l’ultime prove
     Quell’Idea, che agli oppressi animi è Giove?

Dubbioso core, allor gli dice Edea,
     Che improvvisa fra quelle ombre gli appare,
     E in tanta notte e fra quell’orda rea
     Dell’eterna speranza un raggio pare:
     Quella sublime, avventurosa Idea,
     C’ha dentro alle solinghe anime altare,
     Come riso di stella in basso loco,
     Scenderà fra quest’ombre a poco a poco.

Il Sogno eccelso, che con rosee piante
     Del redento Pensier la cima or tiene,
     E con la luce del divin sembiante
     Dei vati il core irradiando viene,
     Il Sogno, per cui tante anime e tante
     Or gemon fra calunnie e fra catene,
     Scenderà, scenderà su questa riva
     Fatto cosa terrena e immagin viva.

[p. 218 modifica]


Oh come al guardo suo fiero di lampi
     Si squarcerà la tenebra funesta,
     Che non pur della terra invade i campi
     Ma le menti intristisce e i cori infesta!
     Oh come, allor che questi lidi ei stampi
     Del suo passo di fiamma e di tempesta,
     S’atterreran gli avidi mostri ai piedi
     Di quei che a terra in tali strazj or vedi!

Sconficcherà dai maledetti chiodi
     Da sè stesso costui la destra inerme;
     Spezzerà tutti ad uno ad uno i nodi,
     Ond’or son vinte le sue membra inferme;
     Nelle fetide piaghe in fieri modi
     Brucerà della peste intima il germe;
     E terribile e pio, dolce e feroce,
     Col piè calcando la funerea croce,

Torreggerà, come titanio monte
     Che al novo dì, nella stagion più bella,
     Il piede nell’abisso, al ciel la fronte,
     E in fronte il riso dell’idalia stella,
     Mutato il ghiaccio in mormorevol fonte,
     Di tenere, fragranti erbe si abbella,
     E rivestito di speranza appare
     Al Sol che il viene a salutar dal mare.

[p. 219 modifica]


Stuol di neri rapaci, a cui corrotte
     Carni son pasto ed odioso è il giorno,
     Saran gl’ispidi mostri, onde le frotte
     Fremendo or miri al grande oppresso intorno;
     Non prima un raggio ferirà la notte,
     Dilegueranno dall’uman soggiorno;
     E il regno lor che sembra ai vili eterno,
     Memoria diverrà d’odio e di scherno.

Laggiù, vedi? laggiù, dentro alla densa
     Tenebra che ti usurpa il ciel lontano,
     Ed a cui, senza il mio favor, l’intensa
     Virtù del ciglio aguzzeresti invano,
     Si matura laggiù l’anima immensa,
     Che tutto innoverà lo stato umano:
     Un fremito, un fervor, qual di roventi
     Lave, per le commosse aure non senti?

Squarciato ha i fianchi al secolar colosso
     L’ignea corrente, e procellosa irrompe,
     Mentre un vivo baglior di fiamme rosso
     Lingueggia all’aure e l’atre nebbie rompe;
     Già l’armento dei re, dal sonno scosso,
     Armi ostenta e promesse in ardue pompe;
     Già di Levi il pastor con prece bieca
     La grande ora del fato invan depreca.

[p. 220 modifica]


Lento sì, ma crescente, esiziale
     L’igneo fiume procede in suo cammino,
     Nè forza contro a lui nè arte vale,
     Chè lui nutre il Pensiero, urge il Destino;
     Librata innanzi a lui su le grandi ale
     Tende la Storia il dito adamantino,
     E al ben dell’uomo unicamente fida,
     Contro i rei tutti inesorata il guida.

Ma che parlo e che taccio? E di codeste
     Liete immagini o tristi a te che giova,
     Se, lasciate le cure altrui moleste,
     Pace l’anima tua nel sonno trova?
     Dormi, immemore Esperio, e ti sian queste
     Ree piagge ospizio e queste frondi alcova:
     Al regno, ov’han l’eccelse alme soggiorno,
     Di te ridendo e disdegnando io torno.

Non zagaglia così stridendo scote
     Di dormente nemico a morte il petto,
     Come d’Esperio i visceri percuote
     D’Edea l’amaro, acuminato detto:
     Balza dal sonno, e rosse ambe ha le gote
     Di vergogna ad un tempo e di dispetto;
     E in lei, che su la spalla in dolce piglio
     La man gli ha posto, alzar non osa il ciglio.

[p. 221 modifica]


Ond’ella tosto con benigno volto
     E con pie voci a consolar lo prese:
     Se per poco sei stato oggi a te tolto,
     Non io ti lascio in questo vil paese;
     Nè il sonno tuo, sebbene il core ascolto,
     Indifferente all’amor mio ti rese;
     Anzi più mio s’è fatto il tuo pensiero,
     Dacchè veduto ha tra fantasmi il vero.

Tu sognato hai con me, con me le sante
     Ire hai sentito e il ciel bramato hai corso,
     Finchè per crescer ali alle tue piante
     Con l’acuta rampogna il cor t’ho morso.
     Sopra il Mare dei Sogni ecco, il fiammante
     Liberatore affretta irato il corso;
     Ecco, a noi vien su veleggiante torre
     L’ardito stuol che i moti suoi precorre.

Nobile stuol, fior dell’Italia nova,
     Che sul regno del Mal, d’odj fecondo,
     In lotta impari, in diuturna prova
     L’ora della Riscossa annunzia al mondo;
     Tesei novelli, a cui soltanto giova
     Dar guerra e morte al Minotauro immondo,
     Che d’orror chiuso in labirinto infame
     Di frodi vive, e d’oro e sangue ha fame.

[p. 222 modifica]


O nati al vero ed alla gloria nostra,
     Sia che si schiuda a voi l’arduo sapere,
     E come ciel che al novo dì s’innostra
     Splendan le vostre ardenti anime altere;
     O che a spezzar la formidata chiostra
     Serriate i carmi in generose schiere,
     Che a par di rutilanti angeli irati
     Fugan gli errori all’uman danno armati;

Sia che un nimbo di gloria al capo austero
     Arda inconsunto e l’ombre invide accenda,
     O al tetto ignoto, in cui vivete al Vero,
     Le sue fredde il livor tenebre stenda;
     Sia che saetti il vostro genio altero
     Liberamente la congrega orrenda,
     O che innocenti di catene carchi
     Balzar facciate dal sonno i monarchi;

Voi ricerchi la lode, a voi si volga
     Con volo di squillante aquila il verso,
     E al capo vostro nitido si avvolga
     Qual aureo serto in pura fiamma asterso:
     Voi, così dall’error l’uomo si tolga,
     Rispecchiate l’Idea dell’universo;
     Cavalieri del mio fulgido regno,
     Voi conoscente agli avvenire insegno!

[p. 223 modifica]


Mentre su di sè stessa alto rapita
     Scioglie Edea questi detti, e sembra face
     Che limpida si appunti all’infinita
     Volta del ciel che tenebrosa tace,
     S’avvicina la nave alla marcita
     Gleba ove il gregge accidioso giace,
     E dalle cristalline onde riflessa
     Maestosa alla spiaggia umile appressa.

Allora Edea trasfigurata, e come
     Fatta celestiale, eterea cosa,
     La man caccia ad Esperio in tra le chiome,
     Seco il rapisce, e su la tolda il posa.
     Mira, gli dice poi, l’anime indome
     Che disdegnan l’età lenta e dubbiosa,
     E per l’ampia dei Sogni equorea strada
     Traggon te pur da questa ignobil rada.

Splendido in sua modestia e tutto assorto
     Nel pensier delle mie floride rive,
     Mira colui che piange Italia or morto,
     Ma nel mio ciel, cor d’ogni core, ei vive:
     Saffi, che del sentier lubrico e torto
     Tenne l’anima sempre e l’orme schive;
     Saffi, che del Messia ligure, ardente
     Proseguì l’opra ed illustrò la mente.

[p. 224 modifica]


Vedi colui che posa austero e muto,
     Esul quasi e straniero al secol reo?
     Impenitente apostolo canuto
     Quegli è il severo pensator d’Iseo;
     A lui vasto sapere, animo acuto
     Schiusero il regno, ove i miei fidi io beo;
     A lui fra’ ceppi, che il tiran gli diede,
     Nel trionfo del Ben crebbe la fede.

In quel pallido volto, onde traspira
     Con prudenza profonda animo antico,
     L’intemerato onor di Trani ammira
     Dal cor di Bruno e dal pensier di Vico;
     Di torve sette in fra l’insidie e l’ira
     Puro egli passa e sol del Vero amico,
     D’aquila al par, che la nebbiosa via
     Trascende, e nella luce ebbra si oblia.

Agile, smanioso, in gran rovello,
     Cavallotti v’è pur, l’uomo folletto,
     Che come avesse un diavol per capello
     Cento cose ogni dì caccia ad effetto:
     Fa un discorso, un articolo, un duello,
     Corre a un comizio, assiste ad un banchetto,
     Avventa una querela, abbozza un dramma,
     Torna a Milano a riveder la mamma.

[p. 225 modifica]


Tornava, ora non più: la veneranda
     Vecchia nel ciel delle memorie or posa,
     E al suo figliuolo irrequieto manda
     Spesso di là la sua voce amorosa:
     Non dar tregua, gli dice, alla nefanda
     Ciurma che infesta ogni più nobil cosa,
     Ma in rissoso armeggio di te non degno
     Tu buono e prode non sprecar l’ingegno!

Non titubar, non deviar: le alture
     Nebbiose, ove un poter fatuo troneggia,
     Abbian le picciolette anime impure,
     Che un piede han nella piazza, un nella reggia;
     S’inerpichi per vie torte ed oscure
     Schiava d’altri e di sè l’avida greggia;
     A te poeta, cittadin, guerriero
     Sia dio la Libertà, sia gloria il Vero!

A lui compagno è il buon Matteo Renato
     Dalla voce di bronzo e dal cor d’oro,
     Che di sublimi intolleranze armato
     È di Napoli bella alto decoro;
     Lui dalle generose anime amato
     Trema dei servi e dei tiranni il coro;
     Lui da San Giusto in luttuosa veste
     Apostolo e guerrier chiama Trieste.

[p. 226 modifica]


Qui d’Enna il pensator dotto e pugnace
     Nel plutòcrate mostro i dardi apposta:
     Memorabile ardire, onde l’edace
     Turba alla gogna finalmente è posta;
     Piccolo stuol, ma fervido e tenace,
     Di battaglie bramoso a lui s’accosta;
     E primo è quei che con eraclie braccia
     Le catanesi arpíe sgomina e caccia.

V’è col pensoso ed erudito Arturo,
     Cui l’alto cor non impietrò Medusa,
     L’inclito Edmondo, che del mio futuro
     Regno alla luce or or l’anima ha schiusa:
     Come del regno mio fulgido e puro
     Restar potea la dolce anima esclusa?
     Sordo a’ veri dolori e all’uman pianto
     Chi su finti dolor pianger fe’ tanto?

Mira quei due, che pensierosi, in parte,
     Piegan le fronti altere e gli occhi mesti:
     Il Trezza è l’un, che in generose carte
     Con Lucrezio intimò guerra ai Celesti;
     In igneo fascio la dottrina e l’arte
     Strinse, e ne fulminò gl’idoli infesti,
     Nobile cor, che i ferri, onde lo strinse
     Un cieco dio, spezzò fremendo, e vinse.

[p. 227 modifica]


Ellero è l’altro, a cui diè Machiavello
     L’indagin acre, ond’egli in dotte guise
     Con severo, anatomico scalpello
     L’idra borghese in ogni parte incise;
     A lui tra’ primi l’Ideal novello
     Dall’inaccesso vertice sorrise;
     Ed ei del suo pensier su le inaccesse
     Cime un altar con l’opre sue gli eresse.

Quel disdegnoso in su la tolda ritto,
     Fosco il crin, fiso il guardo, ampia la fronte,
     È il vate etneo, che come spada ha dritto
     L’animo, ardente il cor, le rime pronte;
     Sta l’Ideal nella sua mente fitto,
     Qual vessillo di guerra in cima a un monte,
     Odio e terror della congrega impura,
     Che da lui dispregiata in lui congiura.

Una fanciulla nobile e gioconda,
     Dai modi schietti e dall’ingenuo viso,
     Su la spalla di lui posa la bionda
     Testa e il rallegra d’un gentil sorriso;
     Come tenue convolvulo circonda
     Alber che più d’un ramo ebbe reciso,
     Ella così pietosa a lui si stringe,
     E dell’anima sua tutto il ricinge.

[p. 228 modifica]


Ma già dietro di noi fuggon le triste
     Sponde ove il sonno accidioso regna;
     Incalza l’ora, e di vermiglie liste
     La Riscossa imminente il ciel già segna:
     Odi rombar terribilmente miste
     L’ire e le preci della turba indegna,
     Mentre, aspirando l’ultima battaglia,
     Di Rimini il leon rugge, e si scaglia.