Ben Hur/Libro Quinto/Capitolo XIV
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Traduzione dall'inglese di Herbert Alexander St John Mildmay, Gastone Cavalieri (1900)
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CAPITOLO XIV.
Ben Hur, come abbiamo veduto, si trovava all’estrema sinistra dei sei. Per un momento, come gli altri, fu quasi abbagliato dalla viva luce dell’arena. Pure riuscì a distinguere i suoi avversari e ne indovinò l’intento. Diede uno sguardo scrutatore a Messala. Il freddo orgoglio del patrizio Romano riposava, come d’usato, sul bellissimo volto, alle cui fattezze l’elmo accresceva maestà; ma, fosse giuoco di fantasia o effetto dell’ombra bronzea che copriva il suo viso, in quell’istante l’Ebreo credette di vedere tutta l’anima dell’uomo trasparire attraverso la venustà di quel corpo, un’anima crudele, scaltra, vigile e risoluta.
In pari tempo lo spirito di Ben Hur s’irrigidì in un poderoso sforzo di volontà.
A qualunque costo, a qualunque rischio, egli avrebbe umiliato il suo nemico!
Premio, amici, scommesse, onori, tutto spariva davanti a quell’unico deliberato proposito! Neppure la morte lo avrebbe trattenuto!
Con tutto ciò, nessuna passione gli ardeva nel petto; il sangue non affrettò la sua corsa dal cuore al cervello, dal cervello al cuore; non provava nessun impulso di gettarsi alla cieca in braccio alla Fortuna, poichè egli non credeva alla Fortuna. Fidava in sè, nel disegno da lunga mano preparato, e chiamò a raccolta tutte le forze del suo corpo, tutte le energie della sua intelligenza, per poter attuare il suo piano.
A metà percorso egli si avvide che l’impeto di Messala, lo avrebbe, nel caso che non fosse successo alcuno scontro e la corda fosse caduta, infallibilmente condotto a rasentare il muro interno; e come un lampo gli venne il pensiero che Messala sapesse che la corda doveva cadere all’ultimo momento. Un accordo col direttore avrebbe potuto facilmente stabilire questo; e l’accordo era abbastanza probabile, quando si pensi che il prefetto era Romano, e all’interesse che poteva avere nella vittoria del suo concittadino, il quale, oltre al godere tanta popolarità, aveva una somma così ingente a repentaglio.
Nessun’altra ragione poteva spiegare la fiducia con cui Messala spingeva innanzi la sua quadriglia, proprio nell’istante che gli altri competitori cercavano di frenare le proprie, nessun’altra ragione, tranne la pazzia.
Ma vedere una cosa e approfittarne sono due cose diverse.
Pel momento Ben Hur rinunciò al muro.
La corda cadde, e tutte le quadriglie, meno la sua, balzarono sulla pista, sotto il doppio impulso dei flagelli e delle voci.
Egli piegò a destra, e con tutta la velocità de’ suoi Arabi, tagliò obliquamente la strada ai suoi avversari; dimodochè, mentre la moltitudine fremeva davanti all’infortunio dell’Ateniese, e il Sidonio, il Bizantino, e il Corinzio, cercavano con tutta destrezza di sfuggire alla rovina del compagno, Ben Hur passò loro davanti come una freccia, e procedette ruota a ruota col cocchio di Messala, ma dalla parte esterna.
La meravigliosa abilità dimostrata nel portarsi, in questa guisa, dall’estrema sinistra a destra, non sfuggì ai vigili sguardi delle gradinate; il Circo minacciò di crollare sotto lo scroscio degli applausi.
Allora Ester battè le mani; allora Samballat, sorridendo, offrì di nuovo i suoi cento sesterzi, senza ottenere risposta; e allora, per la prima volta, i Romani ebbero il dubbio che forse Messala avesse trovato il suo pari, forse anche il suo superiore, e questi in un Israelita!
L’uno di fianco all’altro, separati da un intervallo quasi impercettibile, i due cocchi si avvicinavano alla prima mèta.
Il plinto su cui s’ergevano i tre pilastri, veduto da ovest, presentava l’aspetto di un muro, in forma di semi cerchio, offrendo la convessità della curva egli spettatori, parallela all’opposta concavità del balcone di faccia. Questa voltata costituiva la prova di fuoco dei guidatori; Oreste medesimo vi aveva fallito. Un generale silenzio regnante nell’assemblea testimoniava l’interessamento con cui il pubblico seguiva questa fase.
Il calpestìo dei cavalli ed il rumor delle ruote erano distintamente avvertibili.
Allora, per la prima volta, sembrò che Messala si avvedesse della presenza di Ben Hur; e subito tutta l’audacia dell’uomo si manifestò in un modo sorprendente.
— «Abbasso Eros, evviva Marte!» — egli gridò, brandendo il flagello. — «Abbasso Eros, evviva Marte!» — egli ripetè, assestando sulla schiena degli Arabi di Ben Hur, una sferzata, quale essi non avevano mai ricevuto.
Il colpo era stato veduto da ogni settore, e lo stupore fu generale.
Il silenzio divenne terribile nella sua intensità; sugli scranni intorno al Console i più coraggiosi trattennero il respiro, aspettando con gli occhi sbarrati. Solo un istante durò la tensione, poi, come rombo di tuono, scoppiò l’indignazione del pubblico.
I quattro cavalli trasalirono dallo spavento e balzarono innanzi. Nessuno li aveva mai toccati, se non in segno di affetto; erano cresciuti accarezzati come bambini, e la loro fiducia negli uomini era commovente.
Che cosa dovevano fare quelle delicate creature se non slanciarsi avanti come pazze?
Il carro traballò.
Non v’ha dubbio che ogni esperienza ci è utile nella vita. Donde trasse Ben Hur, in questo momento, il suo braccio vigoroso e il suo pugno di ferro? Donde, se non dai lunghi anni passati al remo? E che cos’era il sobbalzare del carro in confronto al rullìo improvviso della nave battuta dall’ebbro furore dei flutti? Egli mantenne il suo posto, allentò le redini sul capo ai cavalli, parlando loro con voce carezzevole, cercando unicamente di guidarli incolumi intorno all’angolo pericoloso; e prima ancora che l’agitazione del pubblico si fosse sedata, aveva riconquistata la padronanza su di essi.
Non solo: nell’avvicinarsi alla seconda mèta egli si trovò nuovamente al fianco di Messala, seguito dalla simpatia e dai voti di tutti gli spettatori non Romani. Questo sentimento appariva così evidente, che Messala, con tutta la sua audacia, non stimò opportuno scherzare più oltre.
Mentre i carri passavano la mèta, Ester vide il volto di Ben Hur — un po’ pallido, un po’ rialzato — ma calmo, risoluto.
Subito un uomo si arrampicò sull’estremità occidentale del muro di divisione, e levò una delle sfere. In pari tempo fu tolto un delfino dall’altra parte.
Nello stesso modo, scomparvero la seconda sfera e il secondo delfino.
Poi la terza sfera e il terzo delfino.
Tre giri erano stati compiuti; Messala occupava ancora l’interno della pista; Ben Hur galoppava all’esterno. La corsa assumeva l’aspetto di una di quelle gare doppie così popolari nel secondo periodo dell’età imperiale. — Nella prima Messala e Ben Hur; il Sidonio, il Corinzio, il Bizantino, seconda.
Intanto gli uscieri avevano ottenuto di far sedere la rnoltitudine, quantunque il clamore continuasse, precedendo i corridori.
Al quinto giro il Sidonio riuscì a portarsi all’altezza di Ben Hur, ma perdette subito il vantaggio.
Il sesto giro cominciò senza recare un spostamento nelle posizioni relative.
Gradatamente la velocità era aumentata; a poco a poco il sangue dei guidatori si riscaldava. Uomini e cavalli sembravano sapere che la crisi finale si avvicinava.
L’interessamento che, sul principio della gara, s’era concentrato nella lotta fra Messala e Ben Hur, accompagnato dall’universale simpatia per quest’ultimo, si mutò in ansietà e paura per lui. Su tutti i banchi gli spettatori tendevano gli occhi, seguendo silenziosi e immobili i cavalli dei due competitori.
Ilderim cessò di lisciarsi la barba, ed Ester dimenticò la sua timidezza.
— «Cento sesterzi! sull’Ebreo!» — gridò Samballat ai Romani sotto alla tenda consolare.
Nessuno rispose.
— «Un talento — cinque talenti, — dieci, se volete!» —
Agitò le tavolette in atto di sfida.
— «Io vincerò i tuoi sesterzi!» — disse un giovine Romano, preparandosi a scrivere.
— «Non farlo» — lo ammoni un amico.
— «Perchè?» —
— «Messala ha raggiunta la sua massima velocità. Guarda come si piega sopra l’orlo del cocchio, e libera le redini, ed ora osserva l’Ebreo.» —
L’altro guardò.
— «Per Ercole!» — egli esclamò impallidendo. — «Il cane fa ogni sforzo per trattenerli. Lo vedo, lo vedo! Se gli Dei non aiutano il nostro amico, egli sarà battuto dall’Israelita. — Ma no, non ancora. Guarda! Giove è con noi. Giove è con noi!» —
Questo grido, che uscì simultaneamente da ogni gola Romana, fece tremare il velario sopra la testa del Console. Se era vero che Messala aveva raggiunta la sua massima velocità, il risultato corrispondeva allo sforzo. Lentamente, ma distintamente, egli guadagnava terreno. I suoi cavalli correvano con le teste chinate e i colli tesi; dal balcone sembrava che radessero il suolo: le loro narici parevano schizzar sangue; gli occhi uscire dalle orbite. Certamente i buoni cavalli facevano tutto il possibile! Ma per quanto tempo avrebbero potuto mantenere quel passo? Era il principio del sesto giro soltanto. Volavano. Nel voltare la seconda mèta i cavalli di Ben Hur piegarono dietro il cocchio del Romano.
La gioia dei partigiani di Messala non ebbe limiti: gridavano, urlavano, gettavano per aria i cappelli; e Samballat riempì le tavolette con le scommesse che essi offrivano. Malluch nella tribuna sopra la Porta del Trionfo potè a stento frenare le sue lacrime. Egli aveva fatto tesoro della allusione di Ben Hur, secondo la quale «qualche cosa» doveva avvenire allo svolto delle colonne occidentali. Era il quinto giro, il qualche cosa non era ancora avvenuto; ed egli s’era detto fra sè: — «Aspettiamo il sesto.» — Il sesto era venuto e Ben Hur galoppava in coda al cocchio nemico.
Nella tribuna orientale, la compagnia di Simonide taceva. La testa del negoziante era chinata sul petto. Ilderim si tirava la barba, e corrugava le ciglia quasi a coprirne gli occhi. Ester respirava appena. Solo Iras sembrava contenta.
Per la penultima volta i cocchi facevano il giro dell’arena. — Messala alla testa, dietro di lui Ben Hur. Era la vecchia corsa di Omero:
Innanzi a tutti
Le puledre volavano veloci
Del Fereziade Eumelo; e dopo queste,
Ma di poco intervallo, i corridori
Di Troe, guidati dal Titide, e tanto
Imminenti che ognor parean sul carro
Montar d’Eumelo. a cui coi flati ardenti
Già scaldano le spalle, e già le toccano
Colle fervide teste.
Così arrivarono alla prima mèta e la girarono. Messala, temendo di perdere il vantaggio conseguito, andò rasente al muro, sino quasi a toccarlo; un palmo più a sinistra e cocchio ed arriga sarebbero stati travolti; pure, quando la voltata fu fatta, nessuno, osservando le carreggiate dei due cocchi, avrebbe potuto dire: — «qui passò Messala, qui l’Ebreo.» — Uno solo era il solco lasciato dai due.
Ester vide di nuovo il volto di Ben Hur, e le parve più pallido di prima.
Simonide, più acuto osservatore di Ester, sussurrò nell’orecchio di Ilderim:
— «Sceicco, io non sono buon giudice, ma credo che Ben Hur covi un progetto nella sua mente. Il suo viso me lo dice.» —
Al che Ilderim rispose: — «Hai veduto come i cavalli erano freschi e lucidi? Per lo splendore di Dio, amico, non sembra che abbiano corso! Ma ora, attento!» —
Una sola sfera e un solo delfino rimanevano; e tutto il popolo respirò, sapendo che il principio della fine era giunto.
Il Sidonio lasciò cadere le correggie del suo flagello sulla schiena dei suoi cavalli, e, quasi pazzi dal dolore e dalla paura, i nobili animali si slanciarono innanzi disperatamente, minacciando di prendere il primo posto. Ma lo sforzo si esaurì nella promessa. Il Bizantino ed il Corinzio fecero il medesimo tentativo, con lo stesso risultato, e d’allora in poi essi si poterono considerare fuori giuoco. Con una prontezza facilmente spiegabile; tutte le fazioni meno la Romana accentrarono i loro voti su Ben Hur, animandolo con grida selvagge.
— «Ben Hur! Ben Hur!» — urlarono, e il rombo di’ migliaia di voci arrivò come un’onda sino alla tribuna consolare.
— «Avanti, Ebreo!» —
— «Al muro, al muro!» —
— «Forza, Arabi! Frusta e redini!» —
— «Ora o mai!» —
Sull’orlo della balconata si piegavano mille corpi, tendendo le mani verso di lui.
Forse non udì, forse non potè far di più; in ogni modo l’ultimo giro era mezzo percorso senza che fosse avvenuto alcun mutamento!
Ed ora per fare l’ultima voltata. Messala cominciò a raccogliere le redini dei cavalli di sinistra, movimento che necessariamente rallentò la sua velocità. Il suo cuore batteva in anticipazione della vicina vittoria. Più d’un altare avevano arricchito i suoi doni. Il genio Romano doveva prevalere. Sui tre pilastri, a seicento piedi di distanza, erano fama, fortuna, onori, e un trionfo che l’odio rendeva ineffabilmente dolce. Tutto ciò I’attendeva! In quell’istante Malluch, dalla gradinata, vide Ben Hur piegarsi innanzi sull’orlo del cocchio, e rallentare le redini sulla schiena dei suoi Arabi. Le cinghie del flagello si snodarono nell’aria, con un lungo sibilo di serpenti. Non caddero, ma la minaccia di quel suono, sortì il medesimo effetto. Nel passare dalla sua posizione, rigida e calma, a questa rapidità di azione, il volto dell’uomo si imporporò, gli occhi scintillarono; sembrava che la sua volontà, correndo lungo le redini, si comunicasse ai cavalli, i quali, come animati dal medesimo impulso, risposero con uno scatto che li portò al fianco del carro Romano. Messala, presso alla perigliosa voltata della mèta, udì, ma non osò volgere la testa. Dal pubblico non ricevette alcun avvertimento. Nel profondo silenzio dell’arena non si udivano che il rumore dei cocchi e la voce di Ben Hur, che, in pura lingua Amarica, come lo sceicco medesimo, parlava ai cavalli.
— «Su, Atair! Su, Rigel! Avanti, Antares! Vorresti forse indugiare, Aldebran, nobile cuore? Io li sento cantare nel deserto; io sento le donne e i fanciulli cantare la canzone delle stelle: Atair, Antares, Rigel, Aldebran, vittoria! — e quel canto durerà eterno. Avanti, cavalli! Domani vi accoglieranno le tende paterne! Avanti, Antares! La tribù ci aspetta, e il padrone ci guarda! Vittoria, vittoria! E, fatto, è fatto! Ah, ah! L’orgoglioso è umiliato! La mano che ci colpì è nella polvere! Nostra la gloria! Ah, ah! — fermi! La fatica è compiuta! — Adagio — alt!» —
Nulla di più semplice, nulla di più istantaneo.
Nel momento scelto per lo scatto finale. Messala stava girando intorno alla mèta. Per sorpassassarlo. Ben Hur doveva tagliargli la strada, e, precisamente percorrendo il medesimo cerchio, con un raggio di poco maggiore. Le migliaia di persone assiepate sopra le gradinate compresero tutto: videro il segnale dato da Ben Hur; la magnifica risposta; i quattro cavalli di fianco al cocchio di Messala, la ruota interna del cocchio di Ben Hur, dietro il carro del Romano, tutto ciò videro e compresero. Poi udirono un colpo secco che fece fremere tutto il Circo, e videro una pioggia di scheggie bianche cadere sulla pista. Il carro del Romano traballò e si piegò sopra il lato destro, urtando con l’estremità della sala la terra. Due volte rimbalzò, poi tutto il cocchio andò in frantumi, e Messala, avviluppato nelle redini, fu precipitato a capo fitto fra i propri cavalli.
Per accrescere l’orrore dello spettacolo, il Sidonio, che rasentava il muro dietro Messala, non potè arrestarsi o deviare. Con tutta velocità piombò addosso ai resti del cocchio Romano, in mezzo ai cavalli di questo, quasi pazzi di terrore. Poco dopo, attraverso la nube di polvere, che velò per un istante la scena, egli fu visto trascinarsi carponi, mentre il Corinzio ed il Bizantino seguivano come freccie il cocchio di Ben Hur. Gli spettatori balzarono in piedi sui banchi con un lungo grido. Alcuni videro Messala sotto gli zoccoli dei cavalli tumultuanti e i rottami dei due carri. Non si muoveva; sembrava morto. Ma la maggior parte non aveva occhio che per Ben Hur. Era loro sfuggita l’abile mossa, per cui, piegando un poco verso sinistra, egli aveva urtata la delicata ruota di Messala con la ferrea punta del proprio mozzo, frantumandola; ma avevano veduto il mutamento avvenuto in lui. Essi medesimi si sentivano compenetrati dalla subita fiamma del suo spirito, dall’eroica risoluzione, dalla furiosa energia, con cui, nel gesto, nello sguardo, nella voce, aveva improvvisamente inspirato i suoi Arabi. Correvano essi? O non erano piuttosto i lunghi salti di leoni aggiogati? Se non fosse stato pel carro pesante, si sarebbe detto che volassero. Quando il Bizantino ed il Corinzio erano ancora a metà percorso, Ben Hur voltava l’ultima mèta.
E la corsa era vinta!
Il console si alzò, il pubblico gridò con quanta voce aveva in gola; il direttore discese dal suo scranno incontro ai vincitori.
Il fortunato vincitore del pugilato era un gigantesco Sassone dai capelli flavi, e con un volto così brutale, da attirare l’attenzione di Ben Hur, che riconobbe in lui il suo antico maestro in Roma, di cui era stato l’alunno favorito. Poi alzò gli occhi verso il balcone di Simonide. La compagnia gli tese le mani. Ester rimase seduta; ma Iras si alzò e con un grazioso gesto del ventaglio gli mandò un bacio — favore non meno inebbriante, perchè noi sappiamo, o lettore, che sarebbe toccato a Messala, se a questi avesse arriso la vittoria.
La processione, salutata da un nuovo scoppio di applausi, attraversò lentamente la Porta Trionfale.