Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. I/Capo VI

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CAPO SESTO.


(1590). Quantunque fra le occupazioni scientifiche di Frà Paolo egli si adoperasse eziandio a decomporre metalli, a distillazioni e ad altri esperimenti di chimica, quale lo stato infantile di questa scienza lo poteva permettere, il suo buon senso lo tenne lontano dalle visionarie dottrine degli alchimisti e de’ teurgici, nelle quali era incappato il Van Helmont, il Cardano e più altri filosofi suoi contemporanei, ed era così persuaso della vanità di quelle scienze, che non ebbe alcuna difficoltà di deriderle.

Imperocchè al principio del 1590 comparve a Venezia, dopo avere peregrinato altri luoghi d’Italia e gabbato non pochi, un ciarlatano per nome Marco Bragadino di Cipro, già frate cappuccino, il quale si vantava di sapere far l’oro e dava a sè stesso il titolo fastoso di Mammona, Dio della ricchezza. È incredibile la vertigine eccitata da quel frate ciurmatore. Tutti i principi lo volevano: Enrico IV commise al suo ambasciatore a Venezia d’invitarlo alla sua corte; Sisto V, come che tanto spregiudicato, vi pretendeva ragioni perchè era frate: ma Bragadino diceva di voler preferire Venezia, perchè a lui patria. Alloggiava nella splendida casa dei Dandolo, si trattava magnificamente, conduceva con sè due cani con collare d’oro: e possiedendo il secreto di combinare il mercurio con altri o metalli o [p. 101 modifica]minerali sì che la composizione pigliava il color d’oro, facendo sue esperienze con prosopopea e bella grazia trappolava quanti avevano la stoltìa di fidare in lui; finchè conosciuta l’impostura, fu bandito. Andato in Baviera, l’Elettore, giuntato da lui, il fece impiccare poi abbruciare (nel 1591) come stregone, e con esso anco i cani, cui gl’inquisitori nell’alta loro sapienza sospettarono diavoli.

Dimorando in Venezia, ambasciatori, nunzi, patrizi, plebe, tutti correvano a vedere far l’oro; e fra tanto delirio di gente civile, un Barbaro si fece distinguere per sanità di cervello. Essendo che un Ciavùs turco, mandato per negozi dal Gran Signore a Venezia, udendo come quegli faceva l’oro, disse facetamente: Se è vero, il mio Sultano verrà a servirlo. Molti si fecero intorno a Frà Paolo acciò ch’egli pure andasse a vedere, ma e’ se ne burlava, e colle solite sue lepidezze mescolate a sodi ragionamenti cercava di trarre d’inganno altrui. Per suo consiglio, affine di screditare il ciarlatano, fu fatta una mascherata di giovani nobili che girando in gondola vestiti da Mammona, con crogiuoli, mantici, boccette, fabbricavano oro e lo vendevano a cinque lire il soldo; sferzando così la bricconeria del ciurmatore che rubava cinque lire in buoni denari, per un soldo che dava del suo oro.

Di tal forma passava il Sarpi l’innocente sua vita, quando verso questo tempo vennero a’ sturbarla le discordie de’ frati.

Al Capitolo generale di Cesena (7 giugno 1588) i frati, dovendo eleggere il loro capo, si trovarono al solito divisi in due fazioni: i Fiorentini e [p. 102 modifica]Bolognesi colle provincie loro aderenti portavano Giovan Battista Libranzio da Budrio, stato per 25 anni professore di metafisica a Pisa, e raccomandato caldamente alla corte di Roma dal gran duca Francesco, morto l’anno innanzi; e i Lombardi e Veneziani favorivano Battista Micolla milanese che per essere stato Procuratore aveva ottenuto dispensa dai papa per le non compiute vacanze. Vinsero i primi, ed essendo il Libranzio uomo buono e pacifico e poco atto a contenere una frataglia inquieta, nacquero tumulti, disordini, accuse, imprigionamenti, e lo stesso generale fu incolpato d’insufficienza e di troppa sopportazione. Il Protettore cercò di mettere qualche accordo, ma non fu possibile. Sisto V chiamò il generale a Roma (1590), e avendo fatto esperienza del senno ed imparzialità di Frà Paolo, gli comandò che si recasse a Bologna, e giudicasse quelle faccende insieme a’ suoi auditori di Ruota. Vi andò nel mese di marzo, fu libero da passioni, e tanto dotto si mostrò nelle leggi e nelle pratiche della curia che gli stessi auditori si riportavano al suo giudizio. Alcuni de’ più discoli furono castigati, e la causa del generale restò interrotta per la morte di lui in Roma, colpito da apoplessìa, a’ 12 d’aprile onde sciolto dal pontefice il tribunale, Frà Paolo si restituì in patria nel maggio seguente.

Forse il lettore si annoia che lo trattengo di pettegolezzi monastici, ne’ quali il grand’uomo si smarrisce e non si vede che un cappuccio. Io infatti rimasi dubbio se doveva narrarli; ma considerata la qualità del mio têma, parvemi che l’omissione avrebbe lasciata una lacuna nella continuità dei casi, che [p. 103 modifica]nella vita sono una catena successiva di cause ed effetti: molto più quando si tratta di personaggi eminenti, nella vita de’ quali anco le inezie sono curiose a sapersi, apparendo come le macchiette di un gran quadro che danno risalto alle figure più cospicue, e compiono la rappresentazione del soggetto. Oltre a ciò, la varietà degli argomenti è bellezza in ogni libro; e le cose qui narrate ed in seguito, se ci fanno per qualche momento dimenticare l’uomo illustre, hanno anch’esse il loro vantaggio, pingendoci le domestiche abitudini di una casta che per molti secoli ha dominato le opinioni del mondo; e forse un acuto lettore saprà dedurne qualche utile riflessione sulla mutabilità degli affetti umani, e sui principii di interesse o di prevenzione donde troppo spesso gli uomini sogliono derivare i loro giudicii. Qui vediamo Frà Paolo onorato e stimato in corte di Roma, più oltre lo vedremo ingiuriato e vilipeso.

Restato adunque vacante il generalato, il gran duca Ferdinando, altro protettore di frati, succeduto, al fratello Francesco, raccomandò perchè fosse dato ad interim, fino al compimento del triennio, a Frà Lelio Baglioni di Firenze procuratore dell’Ordine, nel che fu compiaciuto da Sisto V; e nel seguente anno (1591) ottenne da Gregorio XIV che fosse confermato pel triennio successivo. Le quali cose benchè remote e indifferenti a Frà Paolo, gli fruttarono gravi disturbi, cui per bene intendere mi conviene tornare indietro alcun poco.

Quand’egli andò procuratore a Roma era provinciale di Venezia il padre Gabriele Dardano, di [p. 104 modifica]nobile famiglia veneta, ma ambizioso dei gradi supremi, imbroglione ed avido: difetti che astutamente copriva con una apparente santimonia. Fondatore e regolatore di una congregazione di pinzochere, era venerato dal volgo e stimato a Roma, dove tali instituti sono in pregio, essendo la divozione donnesca quella che mantiene in credito i santi. Ma a Frà Gabriele fruttava altrimenti, perocchè col pretesto di soccorrere le sue figliuole spirituali pettegolava nelle case de’ ricchi in busca di limosine, che poi servivano anco per lui. Frà Paolo che lo credeva inframmettente, ma non briccone, nel partire gli raccomandò i frati suoi amici o clienti; ma il Dardano seguendo il suo talento rapace, non fece più distinzione di quelli che degli altri, e tutti espilò con le astuzie di un pubblicano, e sfruttò i beni del convento e della provincia, e destreggiandosi a far mercatura e contrabandi, e a intricar liti, e in ogni altro garbuglio dove potesse cavar denari, era riuscito ad ammassare un bel peculio. Ambiva il generalato; e per farsi largo spendeva a Roma coi cortegiani, massime con quelli del cardinal protettore che ricambiavano di raccomandazioni o di elogi il ladro a cui la liberalità teneva luogo di merito. Ma gli dava ombra il sentire come Frà Paolo, col quale carteggiava continuamente, fosse onorato in Corte, fatto vicario dal generale, e portato favorevolmente nei pensieri del pontefice che lo ammetteva a spessi e famigliari colloqui. E temendo che tanta estimazione non fosse per attraversare i suoi disegni, pensò al modo di levarselo di mezzo; cominciò a scrivergli che era omai tempo [p. 105 modifica]di pensare a sè, e che avrebbe dovuto usare l’aura propizia per tirarsi fuora dalle angustie del convento e inalzarsi ai primi onori della Chiesa: profittasse di pontefice benevolo e una mitra o un cappello rosso essere, da preferire ad un povero cappuccio. Ma il Sarpi che non si sentiva di queste ambizioni rispondeva in tuono contrario; e una volta scrivendogli in cifra si lasciò scappare alcune frasi un po’ ardite, dicendo che non apprezzava la Corte, che anzi la abborriva, stantechè ivi le dignità non si possono ottenere se non con male arti. Bisogna che Frà Paolo avesse ragione, e che la corte romana sia una peccatrice incorreggibile, perchè due secoli dopo il celebre Scipione de’ Ricci, che fu poi vescovo di Pistoia, fu disgustato dai raggiri e dalle cabale di quella corte, e trovò essere incompatibile il mantenersi galantuomo e perfetto cristiano entrando nella carriera della prelatura colla idea, come dicono, di far fortuna e di pervenire ad alti posti; e se alcuno vi è riuscito, lo giudicava il rara avis in terris.

Tornato Frà Paolo a Venezia e udite le furfanterie del Dardano e le querele degli amici, anzi di tutto il convento, vennero fra loro a parole, indi ad aperta nemicizia, e scrissero a Roma l’uno contro l’altro: Frà Paolo producendo le prove della mala amministrazione del Dardano, e questi accusando Frà Paolo di sospetto nella fede per ciò che praticava con eretici ed Ebrei. Non era creduto l’ex-provinciale perchè la riputazione del Sarpi era troppo bene stabilita; e poco si avvantaggiava l’ex procuratore, perchè Gabriele spendeva alla ricca e [p. 106 modifica]coi doni si era guadagnata la protezione del nipote al cardinale Santorio, e del Santorio medesimo, che sedotto da lui gli promise il generalato alla prima favorevole occasione.

(1592). Intanto non potendo vendicarsi su Frà Paolo, Gabriele si voltò ad offenderlo in quel Frà Giulio, vecchio più che settuagenario, cui egli chiamava suo padre e che si prendeva tanto amorosa cura di lui. E cogliendo occasione di pettegolezzi da confessionario, brigò col patriarca e gli fè togliere la facoltà delle confessioni; e perchè certe monache sue penitenti minacciavano di cavare gli occhi a chi voleva privarle del loro direttore spirituale, Frà Giulio, accusato di fomentare la sedizione nella monacaia, fu mandato per castigo a Bologna, dopo 50 anni di soggiorno a Venezia. Il Sarpi ne fu tocco al vivo, non per l’offesa propria, ma per l’ingiusta persecuzione e perchè il buon frate assai si cruciava di essere tolto alle sue vecchie abitudini; e memore dei molti amici che aveva in Roma e della stima di cui lo onoravano assai prelati, altronde sapendo il proverbio che chi vuole vada e chi non vuole mandi, si decise, abbenchè già si approssimasse l’inverno, di correre egli stesso colà, affine di giustificare l’amico presso il cardinal protettore ed il nuovo pontefice Clemente VIII asceso a’ primi di quell’anno. In vero i caritatevoli suoi uffici furono gratamente accolti, ed ebbe il piacere di ricondurre a Venezia e alle sue monache il travagliato Frà Giulio.

Nè fu senza nuova onoranza del Sarpi quell’andata; imperocchè trattandosi allora la causa del [p. 107 modifica]duca Enrico di Gioiosa, il pontefice sapendo quanto Frà Paolo fosse profondo teologo, volle che anch’egli intervenisse. Quel principe all’età di 20 anni, per disgusto della perdita di una sposa da lui caldamente amata, si fece cappuccino nel 1587. Cinque anni poi, morto suo fratello, unico erede maschio della casa, chiese al papa dispensa di secolarizzarsi; e il papa ne commise l’esame ad una congregazione di cardinali e teologi, i quali spropositarono tante esorbitanze sulla sconfinata potestà pontificia, che il Bellarmino, rivolto a Frà Paolo, disse sotto voce: «Queste sono le cose che hanno fatto perdere la Germania, e lo stesso faranno della Francia e di altri regni». Ma quel prelato non fu conforme a sè stesso, perchè da poi scrisse anch’egli esorbitanze simili, se non anco peggiori. Infine i rispetti umani, le raccomandazioni della corte di Francia, e l’influenza del cardinale di Gioiosa, fecero sortire la dispensa verso la fine di quell’anno 1592. Tornò alla professione dell’armi, alcuni anni dopo s’incappuccinò di nuovo, e morì a Torino nel 1609 per strapazzi di un pellegrinaggio a Roma fatto di verno e a piedi.

Il Santa Severina, a cui piaceva l’ingegno e la probità di Frà Paolo, volendo da una parte guadagnarselo e dall’altra levarsi col beneficio questo impedimento a’ suoi disegni, temendo non fosse egli, invece del Dardano, proposto e sostenuto a generale de’ Servi, fece ogni possa per trattenerlo presso di sè; e non riuscendo, l’anno appresso (1593) gli scrisse di suo pugno avvisandolo che lo aveva raccomandato al pontefice per farlo vescovo di [p. 108 modifica]Milopotamo in Candia. Dicono che il pontefice lo ricusasse per sinistra opinione che aveva di lui, siccome d’uomo che teneva pratica con eterodossi. Ma ciò non si accorda con quello che abbiamo detto di sopra, nè Clemente VIII era così pinzochero da lasciarsi alluccinare da superstizioni plebee.

Pare piuttosto, da quello che ho potuto raccogliere, che la sede di Milopotamo essendo povera e con pochi abitanti, sia stata congiunta, per un concordato tra la Santa Sede ed il governo veneto, con quella di Retimo pure in Candia; e a questa alcuni anni dopo, essendo restata vacante, fu promosso Luca Stella di primaria famiglia cittadinesca veneziana, chierico della camera apostolica e referendario dell’una e dell’altra segnatura, che fu poi arcivescovo d’Adria, poi di Creta, poi arcivescovo vescovo di Vicenza, poi di Padova, la più grassa sede episcopale dello stato veneto dando 24,000 ducati di rendita: dalle quali numerose traslazioni, contrarie anco ai canoni ecclesiastici, si vede, lo Stella essere stato un buon cacciatore di benefizi e grato alla Corte.

(1594-97). Durante questo tempo le speranze di Gabriele erano state deluse due volte; perocchè morto il generale Libranzio, gli venne sostituito, come narrai, Frà Lelio Baglioni, portato anco dal Santa Severina facendosi promettere che terminato il suo triennio farebbe opera perchè Gabriele gli succedesse. Ma Lelio che ambiva, come tutti, di prolungarsi più che poteva nella carica, e necessitato a lasciarla, cederla ad uno di sua fazione, aderì sulle prime per non incontrare ostacoli; ma venuto il tempo di rassegnare il comando, intrigò tanto, sostenuto dalla continua [p. 109 modifica]protezione del gran duca, che nel Capitolo di Cesena (28 maggio 1595) a dispetto di alcune opposizioni e delle minaccie del Santa Severina fu confermato per tre anni ancora. Pochi mesi prima Frà Gabriele era stato rieletto provinciale di Venezia, e fra i due emuli si riaccese una guerra sacra che tutta sconvolse la fratrìa servitica. Il provinciale non preteriva occasione per far dispetto al generale, e il generale usava ogni possa per screditare il provinciale, accusandolo persino alla Congregazione della Riforma per facinoroso, scelerato e colpevole di gravissimi delitti; e trattandolo da spia e da ladro; e che quanto rubava, tutto dava al cardinal protettore. Certo è che Dardano era un cattivo mobile e che l’ambizione lo moveva a cose ingiuste; ma gli ecclesiastici sono così avvezzi allo stile declamatorio e alle esagerazioni rettoriche, senza darsi mai la fatica di provare ciò che dicono, che quando regalano di queste gentilezze ai loro nemici siamo obbligati in coscienza a farvi qualche sottrazione. Checchè si fosse del vero, il Santa Severina se ne trovò offeso, e difendendo il suo protetto con quanto ardore lo perseguitava Frà Lelio, ne nacquero in corte di Roma e tra i Serviti due fazioni; che, povero il mondo, se avessero saputo maneggiare le armi come la lingua. Frà Fulgenzio ci accerta che il parteggiare tra Guelfi e Ghibellini, tra Bianchi e Neri erano ragazzate al cospetto del parteggiare fratesco. Infatti se sono così terribili il diavolo e le donne, quanto più i frati che fanno paura ad entrambi?

Frà Paolo avrebbe voluto starsi neutrale; ma pressato da ambe le parti e costretto a decidersi, sì per [p. 110 modifica]onore proprio come per ragione si schierò dal lato del generale. Ciò nondimeno proponeva termini alla lite, e desiderava che i potenti non più se ne mischiassero, e fosse lasciata la decisione ai liberi suffragi di un Capitolo. Ma Frà Sante, nipote di Gabriele, disse, doversi aspettare la inspirazione dello Spirito Santo. E Sarpi: Lasciamo da parte lo Spirito Santo e operiamo coi mezzi umani. Non avesse mai detto sì terribile eresia! Sante, o sciocco o maligno, lo denunciò siccome uno che negava gli aiuti dello Spirito Santo. Ma intanto che l’Inquisitore di Venezia aveva il buon senso di rigettare l’accusa, un’altra ne insinuava alla Inquisizione di Roma, di cui faceva parte il Santa Severina, Frà Gabriele incriminandolo nuovamente che conversasse con eretici ed Ebrei; e per far più colpo ricordò quella fatal lettera in cifra che ho detto di sopra, e la sfoderò agli occhi degli Inquisitori. Ma nè il Sant’Offizio trovò materia di eresia, nè il cardinale motivo di personale offesa; sì solamente gli doleva che Frà Paolo, da lui amato e stimato, nol volesse compiacere ne’ suoi desiderii: e più per questo che per altro gli portava un po’ di mal animo. Bene fu per fare un cattivo incontro Frà Gabriele, se per avventura la colpa di cui lo incusarono non fosse stato un arcano sacro. Era capitato a Venezia un Servita cui, per saper piangere a sua voglia, chiamavano Frà Lagrimino; il quale ribaldo ed ipocrita, fuggendo l’ira del generale si era acquistata la protezione del provinciale. Lagrimino, bravo esorcista, si era dato ai lucri del suo mestiere, e fra i clienti si ebbe la moglie di un mercatante; la quale in ricompensa che [p. 111 modifica]il frate le cacciava dal corpo i diavoli, lo regalava con belle pezze di rasi, e mussole e tele fine, che poi Lagrimino, Gabriele e monsignor nunzio a Venezia si dividevano da buoni amici. La ruberia fu scoperta; Lagrimino fuggi; gli fu fatto il processo e fu intaccato nella truffa anco Frà Gabriele; della qual cosa essendone corsa la fama a Roma, il general Lelio lo accusò al governatore, che fecelo portare in carcere. Ma quelli che avevano avuto parte dei rasi e delle mussoline ne ebbero scandalo. Il Santa Severina specialmente ne fece uno scalpore da non dirsi col pontefice, e tanto adoperò, finchè dopo pochi giorni fu rilasciato il Dardano e in sua vece fu sostenuto il generale come calunniatore.

Intanto fra intrighi e accuse quella fratesca rimestura durava da più anni. Il papa voleva perdere la testa: spediva brevi di qua e di là, s’interessavano cardinali, vescovi, prelati e sopratutto le monache; e tanto si erano riscaldati gli spiriti che dovendosi tenere un Capitolo a Vicenza, convenne alla polizia di mandarvi una grossa squadra di sbirri. I quali sapendo che i frati fanno voto di povertà, non di astinenza, visitarono divotamente la cantina e dispensa loro, e sì si avvinazzarono ed empirono, che fu facile ai Servi di Maria di disarmarli; e sbirri e frati stavano in punto di venire alle archibugiate, se la prudenza di Frà Paolo colle preghiere colle esortazioni e usando di tutto l’ascendente di cui godeva, non impediva quel pazzo e scandaloso furore.

(1597). Era convocato a Roma il Capitolo pel primo di giugno. Gabriele scaduto dal provincialato [p. 112 modifica]si fece nominare definitore, e nella prima carica gli succedette Arcangelo Piccioni, altro nemico del Sarpi: ambi andarono al Capitolo; ma i frati del partito contrario, che assolutamente non volevano il Dardano per loro capo, sollecitarono Frà Paolo che vi andasse anch’egli, e trovasse via di accordo, altrimenti non sarebbe più finita. Ciò egli sentiva benissimo; ma gli facevano paura le mene dei due frati nemici, quella tal lettera in cifra e lo sdegno del cardinal protettore. Gli amici ne lo confortavano, appoggiandosi alla antica benevolenza del medesimo, e alle graziose lettere scrittegli più volte e anco di recente. Allora il Sarpi ricordò facetamente l’apologo del leone che aveva chiarito guerra a tutti gli animali cornuti, il che sentendo la volpe, si nascose dicendo: Se il leone vuole che le mie orecchie sieno corna, chi vorrà contradirgli? Pure risolse l’andare, ma ben fornito di commendatizie per l’ambasciatore veneto e prelati di corte. N’era anco sollecitato dal Bernerio cardinale d’Ascoli, suo vecchio amico, da lui già conosciuto a Mantova quand’era inquisitore, ed ora della Congregazione del Sant’Offizio; il quale lo assicurava che avrebbe trovato in Roma la migliore accoglienza.

Infatti il Santa Severina lo ricevette molto benignamente, e solo si lagnò che avesse favorito con troppo calore il general Lelio; intorno a che il Sarpi essendosi giustificato in modo che il cardinale ne fu contento, questi volle riconciliarlo con Gabriele; al quale tuttavia non riuscì di essere generale, opponendosi non pure Veneziani e Lombardi, ma i Fiorentini ancora, e chi proponeva uno e chi un altro [p. 113 modifica]candidato. A talchè il papa che aveva altri disturbi per la testa, la finì egli con eleggere ai 30 di maggio Angelo Maria Montorsi, eremita dei Servi del monte Senario presso Firenze, più atto alla santimonia che agli affari, e che non accettò se non dopo minaccia di scomunica. Nè perciò finirono le liti, ma sono estranee alla vita di Frà Paolo. Aggiungo solo che morto il Montorsio nel 1600, il Dardano fu di nuovo escluso dal generalato, toccato invece a un frate Arcangelo Tortelli da Parma; e morto anco questo il seguente anno, Gabriele ad arbitrio del cardinale Santa Severina, e contro le regole dell’Ordine, fu nominato generale ad interim e confermato da un Capitolo tenuto in Roma a’ 24 maggio 1603, ma poco godette di un incarico procacciato con tanti intrighi, perchè morì a Venezia a’ 27 febbraio del 1604. Frà Fulgenzio afferma che per riuscirvi spese 40,000 ducati; forse è un po’ troppo: ma è sempre vero che a Roma si paga e senza danari non si hanno santi.

Il cardinale Santorio di Santa Severina morì ai 7 di giugno del 1603, e mancato questo desposta protettore che disponeva delle cariche dell’Ordine come di cosa propria, mancò il principal fomite della discordia, come bene, quantunque con parole velate, osserva l’annalista de’ Serviti, contemporaneo. Il che giova a difendere Frà Paolo dalla accusa che la attizzasse egli medesimo per la voglia di diventar generale: mentre nelle liste de’ concorrenti a quella dignità, non mai si trova il suo nome.