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Biografie dei consiglieri comunali di Roma/Vincenzo Galletti

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Vincenzo Galletti

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Luigi Gabet Achille Gori Mazzoleni

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VINCENZO GALLETTI


Assessore Municipale




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elebre per antichità, per blasone, per censo è la famiglia Galletti, la quale sorta in Pisa, male sofferendo le guerre che straziavano la repubblica emigrò in Sicilia, ove ai pubblici e privati negozi con onore e gloria attendendo, guadagnossi nei rappresentanti i titoli di principe di Fiume Salato e duca di San Cataldo. - In Sicilia continua la casa con titolo principesco.

Vincenzo Galletti nel dì 1° ottobre dell’anno 1810 nasceva in Milazzo, città antichissima della Sicilia. La casa Galletti esercitava da tempo lontano il commercio, ritraendo quel decoro e quella ricchezza che resero tanto celebri i più dei casati fiorentini. Giacomo Galletti però, padre di Vincenzo, pareva disposto a sospendere nel figlio questa ereditaria professione, mostrandosi a quella vece desideroso che avesse a dedicarsi alla avvocatura. Ma l’uomo propone e natura dispone, poiché per i molti rapporti commerciali che il Giacomo Galletti teneva in Roma, inviatovi nel 1827 il figlio Vincenzo, lo ebbe oltre ogni aspettazione vantaggiosissimo nel disbrigo delle principali faccende, siccome giovane intelligente ed operoso. Il padre smise per allora ogni pensiero di vedere il figlio in toga, e pensò che al banco di commercio avrebbe assai bene potuto distinguersi e guadagnarsi in appresso con bel nome anche un ricco patrimonio. Rimandollo quindi negli anni successivi a Roma, finché il giovane Vincenzo nel 1833 attratto dalla grandezza del nome, delle memorie, delle speranze della città eterna, vi si stabilì, fondando una casa di commercio che venne ascritta nella classe dei Mercanti Ripali.

[p. 116 modifica]Nel 1835 dava in Roma mano di sposo a Concetta Catterina Bernini che facevalo padre di cinque figliuoli. Ma la sventura parve assidersi ferocissima sul limitare della sua casa, funestandogli gli anni più belli della vita, ed ora per il ritorno dai Borboni impedendogli di abbracciare i morenti genitori, ora immaturamente troncando le esistenze dei figli sui quali formava ogni più lieta speranza, poi rapendogli l’amata consorte, e finalmente nella primavera 1867 auche l’ultimo figliuolo, per le ferite riportate a Custoza. Tanti e così gravissimi dolori lo visitarono, mentre in Roma e con la parola e con gli scritti propugnava e validamente sosteneva la libertà di commercio in tempi ne’quali ai più pareva utopia o demenza pensare alle comunali franchigie. Membro nel 1844 della Camera di commercio di Roma, quindi giudice nello stesso anno del Tribunale di commercio, e nel 1846 presidente, trovò nella fiducia dei colleghi ogni prova di estimazione e dalla Camera stessa fu fregiato poi con medaglie d’oro.

Spuntavano intanto i giorni procellosi del 1848, e Ruggiero Settimo lo nominava agente consolare della Sicilia in Roma, dopo che dal balcone del Quirinale il pontefice aveva benedetta l’Italia. I tempi non furono certo dei più felici per disimpegnare funzioni che collidevano gl’interessi di due paesi agitati dalla rivoluzione, ma il marchese di Torrearsa che allora n’era ministro altamente commendollo. La restaurazione borbonica nella Sicilia gli chiuse il ritorno alla patria terra. Appresso alla restaurazione pontificia venne segnato nelle liste di proscrizione, e ne dovette grazia ad un amico del Prefetto di polizia francose lo sfuggire il bando. Non più potè in allora godere la fiducia del pontificio Governo, che questi sapendolo anzi tendente a massime liberali, più volte lo fece in casa perquisire, senza che nulla vi si trovasse per giudicarlo ribelle alle leggi dello Stato.

Viveasene Vincenzo Galletti per lo più ritirato, e solitario nella casa sua divenuta un santuario di ricordi per i molti dolori patiti, quando gli avvenimenti del settembre 1870 lo riscossero, e vennero a trarlo dalla solitudine per portarlo sul Campidoglio. Eletto membro della Commissione che doveva recare a Vittorio Emanuele il risultato del plebiscito con che Roma veniva annessa alla famiglia italiana, sommettendosi alla dinastia Sabauda, segnò con ciò il primo atto pubblico di sua vita politica: nel 1871 venne nominato reggente della Banca Romana, quindi fra i ventuno membri della Camera elettiva d’industria e Commercio di Roma. In questo tempo rinunziava la nomina governativa di giudice del Tribunale di Commercio, e la nomina a reggente della Banca Nazionale sede di Roma. Nel 1872 pubblicò cinque lettere sui provvedimenti finanziari dell’onor. Sella allora ministro, quindi con 4782 voti venne eletto a Consigliere Comunale.

Fu in quell’anno che dimessasi la Giunta Municipale venne nominato Assessore anziano, affidandogli la direzione del III° Ufficio «la Finanza».

I lunghi studi, la pratica degli affari, avrebbero potuto servirgli a norma nella [p. 117 modifica]amministrazione dilicata e difficoltosa del proprio ufficio, ma ostacoli gravissimi gli si elevavano dinnanzi, e con esso lui a chiunque si fosse sobbarcato nella impresa. Due - fatti principalmente venivano a contrastare l’immediato buon successo: 1° Roma città nuovissima agli aggravi ed alla pubblica amministrazione; 2° lo sbilancio grave fra il consumo ed i prodotti, e fra le classi medesime che venivano a costituire quasi una nuova popolazione, ed a sovrapporsi all’elemento puro romano. — In Roma con l’ultimo soffio delle guerre cittadine combattuto da famiglie più che da popolo, ora per il papato, ora per la supremazia di potere in Castel Sant’Angelo, e nei principali monumenti convertiti in bastite e luoghi di difesa, erasi spenta qualunque idea di Comune: nel 1848 e 49 fu sì breve e confuso il tratto, da non potersi annoverare fra i ricordi di una vera pubblica amministrazione. — Il Governo nominava pro forma alcuni distinti cittadini, i quali però erano dispensati da qualsifosse fatica di mente e materiale occupazione: dovevano apporre il proprio nome a quanto il Governo trovava vantaggioso, quindi far comparsa in ispeciali circostanze. Il governo clerocratico unendo in sè i due poteri «spirituale e temporale» importava che il cardinale Vicario avesse un vero ufficio con cui governava le famiglie, il ministero dirigeva in ogni cosa il Comune; nulla idea quindi di quanto anche le straniere signorie facevano nel resto d’Italia. Ignota la leva militare, ciascuno viveva e moriva come piaciuto gli fosse fra le pareti domestiche: scarsi i pubblici bisogni, e per lo più provveduti con parte delle risorse che venivano dal mondo cattolico, così non gravose le imposte, e sconosciuto ogni principio burocratico e fiscale. Che fosse questo il miglior vivere del mondo, non ispetta a noi il giudicarlo, nè il farvi quivi quistione, bastandoci per lo scopo del nostro scrivere rilevare come al settembre 1870 mancasse del tutto l’idea della comunale amministrazione.

Ma il formarsi Roma capitale di un regno importava nuova gente e nuove massime; con il cannone si era potuto aprire le mura, non così facilmente il cervello a molti, e persuaderli al nuovo ordine di cose. I potentati decaduti alzarono barriere che furono ostacolo qua per la opposizione, là per la inazione; i nuovi venuti trovarono un terreno ora intralciato di rovine e di triboli, ora deserto, arido, sterile; il governo prima che le buoue leggi portò le imposte, mentre per ogni porta di Roma entravano a conto a mille i sognatori della polvere d’oro: pareva un popolo che in massa avesse emigrato e- che venisse ad occupare od una città di nuovo fabbricata o per morte universale deserta. Credevasi dai più che la città della Repubblica, dei Cesari, dei Papi nella pubblica cosa inselvatichita e nella privata imbarbarita, si aspettasse per rara provvidenza che il sapere, la civiltà, la ricchezza venissero quivi a segnare il principio di una nuova èra.

Non è dunque a maravigliarsi se preste e molteplici furono le delusioni, dappoiché da’ parecchi che s’erano fatti promettitori di grandissime cose tappezzando i [p. 118 modifica]muri delle case con le scritte di grossi capitali, agli ultimi avventurieri smaniosi di subiti guadagni, quale più quale meno trovossi in brutta pania, mentre gran parte della romulea gens anzichè rimanere spennata scodava senza certo scrupolo alla politica, chè quando s’affaccia l’interesse è costumanza generale mettere il bavaglino anche alla coscienza.

Ciò tutto però portava un guaio gravissimo più che non si potesse credere nella amministrazione della pubblica cosa: quà le esigenze del governo, le fiscalità, gli aggravi enormi suscitavano il malcontento, infermavano lo sviluppo economico ai primi passi; là i bisogni cresciuti, le imperiosità di tempi, di circostanze, di persone rendevano necessari i sacrifizi, ma spesso inefficaci al conseguimento del pubblico e privato bene.

Vincenzo Galletti assumendo nel 1872 la direzione dell’ufficio 3° municipale, trovossi dinnanzi alla sfinge ed al cerbero finanziario. Nel luglio 1873 esso presentava la propria relazione sulla situazione finanziaria del Comune di Roma, severa, arcigna come può essere un calcolo matematico dal quale fatto e rifatto si ritrae sempre nella somma che leggerezza ed imprevidenza sarebbero cattive consigliere in ogni circostanza, pessime poi quando s’abbia siccome in Roma sbilancio assoluto nelle classi sulle quali più accuratamente deve invigilare l’occhio del pubblico amministrare. Il Galletti addimostrossi in questa penosa situazione uomo almeno di coscienza con il franco dire, siccome ne fa fede qualche periodo che stralciamo da tale relazione....

«Non ho bisogno, onorevoli Colleghi, rammentare che senza la buona finanza regolata dal principio dell’equilibrio fra l’entrata e l’uscita, il disordine e la rovina nell’economia Comunale ne sarebbero la conseguenza. Il Comune è una grande famiglia, all’amministrazione della quale noi siamo preposti; il suo stato economico attira tutti i nostri studi onde essò proceda ordinatamente, e senza quei disturbi e quelle scosse a cui purtroppo si alligano gl’interessi ed il benessere degl’amministrati, e Voi Signori, non occorre dirlo, siete stati sempre premurosi onde col vostro lavoro questo scopo sia raggiunto.

» È doloroso per un Assessore della Finanza lo additarvi soltanto che nuovi gravami quanto prima devono pesare sui contribuenti. Egli non avrebbe avuto il coraggio di pronunziare questa ingrata parola, se il dovere del suo officio non glielo avesse imposto. Ma, o Signori, lo scopo di questa esposizione sullo stato finanziario del Comune non è soltanto rivolto a dimostrarvi l’attuate sua situazione, la quale mercè i nuovi rincari delle tasse potrebbe mantenersi in equilibrio, ma esso tende sopratutto all’avvenire. L’attuale Assessore della finanza Comunale è amico, o Signori, dei grandi nuovi lavori in progetto, onde Roma sia degna Capitale d’Italia; ma crede nel tempo stesso suo dovere di presentarvi francamente e lealmente quale futura posizione si farebbe alla nostra finanza. Si decretino pure nuovi e grandi [p. 119 modifica]lavori, e si spendano dei nuovi milioni. Si lasci alle generazioni future il peso ed il pensiero di ammortare la sorte principale, esse ne avranno i mezzi quando lo sviluppo della Città sarà nella via del suo completamento, ma gl’interessi e gli accessori per questi nuovi milioni da spendere, spetta a noi di pagarli, ed è quindi nostro dovere prima di spenderli, studiare con mente calma, ove e come questi interessi ed accessori che graveranno il bilancio ordinario annuale si potranno trovare».

L’assessore Galletti non dimenticò il cittadino che aveva sempre propugnata la libertà di commercio e la tutela di ogni diritto. Che se costretto a confessioni le quali maggiormente rivelano lo stato d’imbarazzo da cui difficilmente vale a districarsene una svegliata intelligenza, un cuore retto ed un carattere franco, o non volle o non seppe toccar coraggioso quei punti che da soli avrebbero bastato a raffermare le sode speranze sopra un migliore avvenire economico. Il Galletti per il tempo lunghissimo passato in Roma, per l’avere atteso senza ingerenza e briga politica solo agli affari commerciali, avrebbe potuto bene studiare e conoscere la gravissima quistione dell’Agro romano, alla quale stà legata l’igiene, e la prosperità economica e finanziaria di tutta la provincia. Limitare le osservazioni ai semplici cespiti produttivi siccome acconsentiti dalle leggi generali, quali sono imposte, sovra imposte, centesimi addizionali ed altro, è troppo poco; il finanziere deve spingere lo sguardo, l’esame, l’azione più lontano, e trarre da tutto il criterio che valga a migliorare lo stato dei consumatori con i massimi elementi di produzione. Il prestito è parola presto detta, ma il Galletti medesimo ne conobbe la insufficienza; esso poteva portare il Comune a serie pratiche con il governo, e se v’ha il diritto di espropriazione per metter al sole quattro mura vecchie, ben più poteva darsi tale diritto per distruggere quella cintura di morte che pare circondi Roma, semenzaio di malattie, sterminata carnaia dei poveri lavoratori che per ironia coltivano pochi ettari. Sovra questi terreni destinati a ricchezza grandissima, fondato un prestito di 100 o 200 milioni con emissione di carta legale perchè sul serio garantita, ciò avrebbe aperto un largo orizzonte alle finanze municipali, e procurato un benefizio a tutta Italia; nè al 3° anno si dovrebbe lamentare il disavanzo con opere debolissime, bensì troverebbesi un vantaggio con opere veramente serie e di generale utilità.

Per tale modo noi crediamo che la quistione economica non batterebbe Oggi alle porte di Roma, che il malcontento non serpeggierebbe cupo ma generale, che l’avvenire non sarebbe tenebroso, che la finanza non sarebbesi intralciata fra le spine della politica, chè è duopo convenire il più delle genti misurare le condizioni e le forme dei governi dai vantaggi che ne ritraggono.

Forse ciò che non si è fatto si farà: al tempo perduto potrà rimediarvi la solerzia e l’ardimento: Vincenzo Galletti ha mente per abbracciare un vasto orizzonte, e sarà con siffatta opera che potrà maggiormente assicurarsi quella stima ed affetto che [p. 120 modifica]formano il compenso ad ogni fatica, e la compiacenza fra i triboli che stanno sulla via di chiunque veste un pubblico carattere, difficilissimo poi ai contentamenti siccome è l’amministrazione finanziaria nel Comune di Roma.

A noi per verità sembra impossibile che il Galletti non possa aver studiato quel grande quesito che si chiama «Agro romano:» ci sembra impossibile che nel mentre i suoi connazionali, e molti fra suoi concittadini avventuravano la vita fra le cospirazioni o nei combattimenti per la italiana indipendenza, non abbia esso rivolto un pensiero a ciò che fare si potrebbe per redimere tanta parte morta di Roma e convertirla a fonte di ricchezza.

L’Agro Romano ha una storia: parecchi libri si sono scritti. - Molti popoli siccome i romani furono battaglieri, vittoriosi, conquistatori, ma nessuno al pari di loro seppe appropriarsi con il sudore della fronte il suolo dei vinti, e meritarsi per la seconda volta con l’aratro ciò che con la spada aveva guadagnato. - Uno dei primi atti della repubblica fu quello di ricondursi alla costituzione di Servio, che l’ultimo Tarquinio aveva tentato di abolire; le terre furono divise fra i cittadini in ragione di sette iugori per ogni capo, ed il diritto di godere l'Ager publicus che dapprima era privilegio dei patrizi fu esteso anche ai plebei. I terreni parte venivano destinati al popolo, parte a speciale coltura, e questi si affittavano per grossi lotti; i terreni incolti finalmente venivano acquistati per occupazione da chiunque v’intraprendesse il dissodamento, con il che non acquistavasi la proprietà, sibbene un diritto temporario di usufrutto sopra il. pagamento allo Stato del decimo dei frutti. Le conquiste, le ricchezze importate in Roma svezzarono dalla agricoltura che fu affidata agli schiavi; alla divisione della proprietà successe il latifondo; nel popolo venne la brama di correr il mondo rapinando per acquistare in un giorno quanto avrebbesi dovuto guadagnare con il sudore di anni; scemò la libera e laboriosa popolazione, i campi rimasero inabitati, e l’Agro Romano divenne squallido e deserto. Alcuni pontefici ricordando l’antica ricchezza, pensarono a provvedimenti, i quali però fallirono alio scopo. Papa Zaccaria per lo spaventevole deserto che si era fatto intorno a Roma ordinò si fondassero tre villaggi detti domoculte. Adriano tentò la colonizzazione perchè la continuata sterilità rendeva spesse le carestie, a cui non sapeasi provvedere che con i magazzini annonari: poi fino a Pio VI pare che tutti rimanessero spaventati, e fu questi che ordinò si mettesse a seminato circa un sesto dell’Agro, premiando chiunque piantasse un albero di ulivo, ma i rivolgimenti politici lo distrassero dallo accettare il progetto che nel 1785 aveva presentato il prete Cacherano di Bicherasio per colonizzare tutta la parte settentrionale dell’Agro. Pio VII promise che, qualora la coltivazione riuscisse ad estendersi per quattro miglia fuori dell’abitato, il Governo con il prodotto della sovrimposta di migliorazione avrebbe fatto costruire i pubblici edifici per i nuovi villaggi, e proporzionò premi per chi avesse costrutto capanne, scavati pozzi, fornito di alberi [p. 121 modifica]utilissimi l’Agro. Pio VIII, Gregorio XVI, Pio IX, tutti si adoperarono per il risorgimento dell’Agro, e sempre fu studiata la colonizzazione, ma sempre invano.

Il prof. Luigi Cardona nelle sue considerazioni storiche ed economiche sull’Agro romano, confutò ed oppose fatti per ribattere coloro cho elevavano obiezioni ora sul clima, ora sulle difficoltà per il risultato, ora per la poca attrattiva dei contadini verso l’Agro romano. Un principe, il Torlonia, potè porsi solo a quell’audacissima impresa che fu il prosciugamento del lago Fucino, richiamando la vita su 14,000 ettari. Un rubbio di terra ch’è di quasi un chilometro suolsi affittarlo per scudi romani 5, cioè per sole lire 26, 75, mentre un rubbio di sementa darebbe il decuplo di raccolto.

Non tocca a noi, nè qui, sbozzare il progetto; ma perchè non istudiarlo il Galletti, e superate le pur vane difficoltà, perchè non propone e tentare di convertire l’Agro in una parte grandissima di produzione anche per lo finanze comunali? Tutte le idee economiche del cittadino, tutto gli studi finanziari dell’assessore, si direbbero distillati dal Galletti nella sua relazione, e le seguenti parole, se lo mostrano previdente e dilicato, non possono però scusarlo nell’aver solo superficialmente analizzato la situazione, senza suggerire quei rimedi che realmente l’avrebbero migliorata:

«Ora io mi faccio una domanda; quest’entrata ordinaria come si potrà procurare? Creare nuovi debiti, pagare nuovi interessi per estinguere gl’interessi vecchi, cumulare interessi sopra interessi, mi sembra essere lo stesso che mettersi sulla via che in brevi anni condurrebbe la finanza Comunale al precipizio. Scartate vi prego, o Signori, questo metodo tanto pernicioso, e già d’infelice esperimento in altro luogo, e procurate di attenervi ai mezzi delle nostre proprie risorse.

«Queste risorse potrebbero consistere nello sviluppo del movimento della Città e nel rincaro delle tasse. In quanto allo sviluppo io non credo che per ora e forse per diversi anni si debba far calcolo di reddito disponibile; intendo di reddito sul quale si potesse contare nel caso nostro. Lo sviluppo della Città crea nuovi bisogni e nuove esigenze, e quindi maggiori e nuove spese, ed il maggior prodotto probabile che potrà ottenersi dallo sviluppo della Città sarà assorbito dalle maggiori e nuove spese ordinarie. Questa però non è che un’appreziazione mia propria, un’incognita, e sull’ignoto i numeri che hanno, come già dissi un còmpito inesorabile, non si possono appoggiare».

Le parole sono serie, ma sono parole. Il Galletti trovossi certo dinnanzi a difficoltà gravissime, ma esso corse sempre sopra terra, nè gli resse l’animo di rompere questo suolo, e tentare il tesoro nascostovi. — Le conseguenze della guerra franco-prussiana si mostrarono anche in Italia con la esportazione; da ciò nuovo spostamento economico nella vita domestica che andò a riversarsi sul generale; lo scarso raccolto, l’incetta di grani per l’estero, la speculazione spinta alla frenesia rincarirono in modo esorbitante i grani: il Galletti anziché gittarsi nella quistione dell’abolizione del [p. 122 modifica]dazioconsumo, seguendo il progresso di altre città, fu costretto a rimpiangere di trovarsi necessitato a limitarne i prodotti per le eccezionali condizioni di alcuni generi: e così la finanza comunale procedette cieca, incerta, povera di consiglio, senza coraggio per l’avvenire, brancicando a stento nei soliti sistemi di tasse: togliere senza provvedere, fiscaleggiare senza sostituire una produzione, avvizzire il corpo senza rinsanguarlo e rimpolparlo per poterlo aver poscia operativo e quindi maggiormente produttivo.

Le condizioni specialissime di Roma certo devono stringere penosamente anche il Galletti; però non gli fanno difetto intelligenza, esperienza, attività. — Sappia esso inspirarsi ai retti principi economici: che se saviamente rammentò ai propri colleghi nella sua relazione come imprudentissima cosa sia spendere 100 possedendo 10, può esso studiare ed efficacemente promuovere nuovi cespiti di produzione: Roma capitale del regno avrà i pesi a ciò inerenti, ma i vantaggi saranno fittizi: Torino risorse economicamente dopo scapitalizzata, perché gittossi ardita nell’industria. Pagare a caro prezzo l’onore di far da ospite a principi nostrali e forestieri non è assicurare la vita tranquilla e prospera di una popolazione: porti il Galletti in un suo progetto finanziario il risorgimento di Roma agricola, ed avrà bene meritato di tutta Italia.






Roma 1873. Tip. Cuggiani, Santini e C.