Canti (1831)/Inno ai Patriarchi

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VIII. Inno ai Patriarchi, o de’ principii del genere umano

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VIII. Inno ai Patriarchi, o de’ principii del genere umano
Alla primavera Ultimo canto di Saffo

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E voi de’ figli dolorosi il canto,
Voi de l’umana prole incliti padri,
Lodando appellerà; molto a l’eterno
De gli astri agitator più cari, e molto
5Di noi men lacrimabili ne l’alma
Luce prodotti. Immedicati affanni
Al misero mortal, nascere al pianto,
E de l’etereo lume assai più dolci
Sortir l’opaca tomba e ’l fato estremo,
10Non la diva pietà, non l’equa impose
Legge del cielo. E se di vostro antico
Error che l’uman seme a la tiranna

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Possa de’ morbi e di sciagura offerse,
Grido antico ragiona, altre più dire
15Colpe de’ figli, e pervicace ingegno,
E demenza maggior l’offeso Olimpo
N’armaro incontra, e la negletta mano
De l’altrice natura; onde la viva
Fiamma n’increbbe, e detestato il parto
20Fu del grembo materno, e violento
Emerse il disperato Erebo in terra.

     Tu primo il giorno, e le purpuree faci
De le rotanti sfere, e la novella
Prole de’ campi, o duce antico e padre
25De l’umana famiglia, e tu l’errante
Per li giovani prati aura contempli:
Quando le rupi e le deserte valli
Precipite l’alpina onde ferìa
D’inudito fragor; quando gli ameni
30Futuri seggi di lodate genti
E di cittadi romorose, occulta
Pace regnava; e gl’inarati colli
Solo e muto ascendea l’aprico raggio
Di febo e l’aurea luna. Oh fortunata,
35Di colpe ignara e di lugubri eventi,
Erma terrena sede. Oh quanto affanno

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Al gener tuo, padre infelice, e quale
D’amarissimi casi ordine immenso
Preparano i destini. Ecco di sangue
40Gli avari còlti e di fraterno scempio
Furor novello incesta, e le nefande
Ali di morte il divo etere impara.
Trepido, errante il fratricida, e l’ombre
Solitarie fuggendo e la secreta
45Ne le profonde selve ira de’ venti,
Primo i civili tetti, albergo e regno
A le macere cure, innalza1; e primo
Il disperato pentimento i ciechi
Mortali egro, anelante, aduna e stringe
50Ne’ consorti ricetti: onde negata
L’improba mano al curvo aratro, e vili
Fur gli agresti sudori; ozio le soglie
Scelerate occupò; ne’ corpi inerti
Domo il vigor natio, languide, ignave
55Giacquer le menti; e servitù le imbelli
Umane vite, ultimo danno, accolse.

     E tu da l’etra infesto e dal mugghiante
Su i nubiferi gioghi equoreo flutto
Scampi l’iniquo germe, o tu cui prima
60Da l’aer cieco e da’ natanti poggi

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Segno arrecò d’instaurata spene
La candida colomba, e de le antiche
Nubi l’occiduo Sol naufrago uscendo,
L’atro polo di vaga iri dipinse.
65Riede a la terra, e ’l crudo affetto e gli empi
Studi rinnova e le seguaci ambasce
La riparata gente. A gl’inaccessi
Regni del mar vendicatore illude
Profana destra, e la sciagura e ’l pianto
70A novi liti e novo cielo insegna.

     Or te, padre de’ pii, te giusto e forte,
E di tuo seme i generosi alunni
Medita il petto mio. Dirò siccome
Sedente, oscuro in sul meriggio a l’ombre
75Del riposato albergo, appo le molli
Rive del gregge tuo nodrici e sedi,
Te de’ celesti peregrini occulte
Beàr l’eteree menti; e quale, o figlio
De la saggia Rebecca, in su la sera,
80Presso al rustico pozzo e ne la dolce
Di pastori e di lieti ozi frequente
Aranitica valle, amor ti punse
De la vezzosa Labaníde: invitto
Amor, ch’a lunghi esigli e lunghi affanni

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85E di servaggio a l’odiata soma
Volenteroso il prode animo addisse.

     Fu certo, fu (nè d’error vano e d’ombra
L’aonio canto e de la fama il grido
Pasce l’avida plebe) amica un tempo
90Al sangue nostro e dilettosa e cara
Questa misera piaggia, ed aurea corse
Nostra caduca età. Non che di latte
Onda rigasse intemerata il fianco
De le balze materne, o con le greggi
95Mista la tigre a i consueti ovili
E guidasse per gioco i lupi al fonte
Il pastorel; ma di suo fato ignara
E de gli affanni suoi, vòta d’affanno
Visse l’umana stirpe; a le secrete
100Leggi del cielo e di natura indutto
Valse l’ameno error, le fraudi, il molle
Pristino velo; e di sperar contenta
Nostra placida nave in porto ascese.

     Tal fra le vaste californie selve
105Nasce beata prole, a cui non sugge
Pallida cura il petto, a cui le membra
Fera tabe non dóma, e vitto il bosco,

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Nidi l’intima rupe, ónde ministra
L’irrigua valle, inopinato il giorno
110De l’atra morte incombe. Oh contra il nostro
Scelerato ardimento inermi regni
De la saggia natura. I lidi e gli antri
E le quiete selve apre l’invitto
Nostro furor; le violate genti
115Al peregrino affanno, a gl’ignorati
Desiri educa; e la fugace, ignuda
Felicità per l’imo sole incalza2.

Note

  1. [p. 85 modifica]Egressusque Cain a facie Domini, habitavit profugus in terra ad orientalem plagam Eden. Et aedificavit civitatem, Genes. c. 4. vers. 16.
  2. [p. 85 modifica]„Non accade avvertire che la California sta nell’ultimo termine occidentale del continente. La nazione de’ Californii, per ciò che ne riferiscono i viaggiatori, vive con maggior naturalezza di quello che a noi paia, non dirò credibile, ma possibile nella specie umana. Quelli che s’affaticano di ridurre la detta gente alla vita sociale, non è dubbio che in processo di tempo verranno a capo di quest’impresa; ma si tiene per fermo che nessun’altra nazione dimostrasse di voler fare così poca riuscita nella scuola degli Europei.„ Dall’edizione di Bologna.