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Castel Gavone/XII

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Capitolo XII

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XI XIII

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CAPITOLO XII.

Nel quale si dimostra l’ingratitudine d’un ventre satollo.


Il Maso ha mangiato, anzi no, dico male, ha scuffiato, macinato a due palmenti, il palmento della fame e quello della gioventù. Adesso sfa facendo la sua meriggiata all’aperto, al riparo del sole, colla schiena contro l’assito della baracca, mentre il paggio del suo anfitrione sta rigovernando i tondini e le scodelle imbrattate. Anch’egli si piglierà quella briga, ma cominciando dal giorno vegnente; per ora sta a vedere e fa conto di schiacciare un sonnellino, in onore dell’ospitalità ricevuta.

Anche il Picchiasodo si era posto a giacere nella sua cuccia di strame, e già aveva legato l’asino a buona caviglia, allorquando vennero ad annunziargli un prigioniero che aveva chiesto di parlargli a quattr’occhi.

Il Maso, senza volerlo, aveva l’orecchio di contro al sottile tramezzo. «Un prigioniero! a quattr’occhi!» Ragione per lui di aprirne due; e magari ci avesse avuto i cento del mitologico guardiano di Danae, che tanto li avrebbe messi tutti in opera, anco senza sapere il cattivo servizio che rese ad Argo il non averne adoperati che cinquanta nella sua famosa nottata. [p. 228 modifica]

Poco stante, il prigioniero entrò nella baracca di Anselmo Campora e i due balestrieri che lo avevano scortato si ritrassero fuori. Il paggio, intento a strofinare le sue stoviglie, dava le spalle al Maso; e il nostro curioso ne profittò per dare una sbirciata tra le commessure delle assi. Indi ripigliò la sua prima postura, ricacciando in corpo un grido di meraviglia, che era ad un pelo di uscirgli. Aveva in quell’attimo riconosciuto il Sangonetto; Maso avea visto Tommaso.

Non meno meravigliato di lui, il Picchiasodo inarcò le ciglia alla vista del prigioniero che gli domandava un colloquio.

— Ah, ah! — diss’egli, facendo bocca da ridere. — Il messere dell’archibugio?

— Ma sì, ma sì! — balbettò il Sangonetto, arrossendo. — Ve ne ricordate ancora? Ho piacere che sia così, per pigliar animo a dirvi un mondo di cose. Del resto, — soggiunse con un certo sussiego, — la mia presenza qui vi dirà che non ero soltanto un cacciatore da passeri.

— Eh via! — sbuffò il Picchiasodo, rincalzando la frase con una alzata di spalle. — Sareste per caso venuto a chiedere che io mi ripigli ciò che vi ho detto? Amerei meglio farvi dire dell’altro da quella bella milanese, che non avete voluto saggiare, nè dalla punta nè dal manico, all’osteria dell’Altino. —

Così dicendo, Anselmo Campora accennava il suo spadone, che pendeva dalla parete al posto della libbia pasquale. Ma il Sangonetto fece un gesto contrito, come per dirgli che non aveva bisogno di tanto; la qual cosa fece spianar le ciglia al suo ospite iracondo. [p. 229 modifica]

— Ah, meglio così! — soggiunse questi rabbonito, — Dicevamo dunque... cioè, no, ero per dirvi che sono molto contento di vedervi in buona salute. Me lo dice il vostro naso, che è sempre di un amabil colore. A voi certo piace il vin buono. Ma sedete, perdinci; quella è la panca; e adesso si metterà il becco in molle, perchè un mondo di cose, come ci avete da dirmene, si sa, non lo si snocciola così su due piedi e a labbro asciutto, come una mezza serqua di paternostri. —

E intanto che andava alla parete per un fiasco, Anselmo Campora borbottava tra sè:

— To’, to’! Quest’oggi mi capita qua mezza osteria dell’Altino. Che vuol dir ciò? —

Il Sangonetto accettò il bicchiere che gli veniva profferto, e dopo averne bevuto un sorso per cortesia, due altri per farsi coraggio, così prese a incignare l’argomento:

— Giorni or sono avete ricevuto una lettera?... —

Il Picchiasodo, che stava allora per bere a sua volta, si trattenne, col bicchiere a mezza strada, e guardò il suo ospite con aria che voleva dirgli: tirate innanzi, risponderò poi.

— E nell’estate scorsa — proseguì il Sangonetto, — il vostro capitano generale non ne ha ricavato un’altra, con utili notizie e consigli, che ha incontanente seguiti?

— Ah, ah! — sclamò il Picchiasodo. — Eravate voi? Già, ci si vedeva la mano di un chierico! —

Chierico dicevasi anticamente per uomo dotto, come laico per uomo ignorante. E i lettori rammentano di certo che all’osteria dell’Altino il Picchiasodo avea [p. 230 modifica]dato del chierico a Tommaso Sangonetto, aggiungendo ch’egli doveva averci nelle vene inchiostro per sangue.

— Ero io quella volta e quest’altra; — rispose il Sangonetto: — e come allora parve buono il consiglio, così ora... mi sembra...

— Eh, non dico di no. Sarebbe un bel colpo e il tentarlo piacerebbe a più d’uno. Ma chi mi assicura che non fosse un tranello?

— Ma... la parola di Santino da Riva, vostro capitano e prigioniero dei nostri...

— La parola, avete detto bene. Infatti, Santino da Riva è un buon laico e lascia scriver chi sa. Capisco quello che mi potreste rispondere. Se la prima lettera diede un buon consiglio...

— Ecco! — interruppe il Sangonetto, con aria di trionfo.

— Essa, — prosegui inflessibile il Picchiasodo, — non ci persuadeva già un colpo temerario, ma un atto di accorgimento sopraffino, che a messer Pietro Fregoso era venuto in testa più volte. Qui invece si trattava di una mezza pazzia... che è poi quasi inutile, al punto in cui sono le cose. Santino da Riva è un buon soldato, ma non ha il diavolo in testa e nemmanco nell’ampolla; poteva dunque aver dato nella pania.

— Ma adesso... — entrò a dire il Sangonetto.

— Sì, adesso lo so, che il consiglio viene da voi. Ma voi, chi siete? che malleveria mi date? E prima di tutto, qual fine è il vostro? che tornaconto ci avete a farci servizio?

— Grandissimo; — rispose il Sangonetto, con aria maestosa. — Congiuriamo, al Finaro; Genova è republica; vogliamo appartenere a Genova, perchè vogliamo la libertà. [p. 231 modifica]

— Bravi! mi piacete; — replicò il Picchiasodo. — La libertà è un’ottima cosa, e Genova ve la darà; Ne ha da vendere; figuratevi, l’ha messa per insegna fin sulle porte delle prigioni, con due grifoni per custodirla. Ma bevete, compar Sangonetto; buon vino, favola lunga, dice il proverbio. Voi dunque, congiurate; e in quanti?

— Oh, in parecchi; e il popolo, stanco di questa guerra che non lo risguarda, di queste privazioni e di questi pericoli che non serviranno ad altro fuorchè a ribadirgli le catene ai polsi, è quasi tutto dalla nostra.

— Dalla vostra! di chi?

— Di me, vi ho detto; di Antonio Sturlino, vi posso aggiungere, che ha molta autorità in paese e che l’altro giorno dopo aver preso a dirla col marchese, è stato, per ira di popolo, liberato dalle mani dei birri che lo menavano in carcere; di Bernardo Marchelli e di Giorgio Battaglia, caporali di schiera; di Antonio Giudice e di Nicolò Valle, uomini di legge; di Vincenzo Campi e di Nicolò Cavazzola, cittadini che sono tra i più ricchi e i più ragguardevoli della terra; di Giacomo Pico finalmente....

— Ah, ah! Pico, l’avversario di messer Pietro Fregoso all’osteria dell’Altino?

— Lui, sicuro. Se ci son io mi pare....

— Ah, voi, si capisce; voi siete un personaggio delle storie antiche e congiurate per la libertà. Ma lui, il braccio destro del marchese, a quanto dicono, lui, che in queste fazioni ha sempre combattuto come un eroe....

— Sì, questo è nell’indole sua, ma Giacomo Pico [p. 232 modifica]non fa oramai maggior conto dei Carretti, pigliati a mazzo, con tutta la loro protezione, di quello che voi ne facciate, sia detto con vostra licenza, messere Anselmo riverito, d’un fondigliuolo di fiasco.

— Eh via, che ne sapete voi? — disse il Picchiasodo, ridendo del paragone. — Se il vino non fa posatura, anche la fondata è buona da bere. Vedete questo vino di Calice, come è chiaro e sfavillante, sebbene già il piede vi faccia imbuto per entro.

— Sicuro, — replicò il Sangonetto, — ma supponete che nel calice dei marchesi, nostri padroni, ci sia della feccia, e che Giacomo Pico sia giunto a questo bivio, di gittare, o di bere.

— Spiegatevi meglio; ci vedo buio pesto, finora.

— Ecco! Rammenterete, io non dubito, la cagione dell’alterco di Giacomo col vostro magnifico messer Pietro Fregoso.

— Sì; cioè, ricordo che non ce n’era, e che il vostro amico lo aveva tolto in iscambio.

— Rivalità d’amore; — soggiunse Tommaso. — Il mio povero amico avea perso la tramontana per madonna Nicolosina del Carretto.

— Sta bene; questo è il gran punto. Tirate innanzi.

— Madonna Nicolosina non voleva saperne di Giacomo Pico.

— Davvero? Eh, infatti, — soggiunse Anselmo Campora, — sappiamo che la ci ha poi sposato il suo conte di Cascherano, Ma ciò non toglie.... che anzi!

— Eh, l’ho detto ancor io, da principio, quando non sapevo niente dei loro segreti e pensavo che le malinconie di Giacomo gli venissero tutte dal padre. [p. 233 modifica]Ma egli sembra che non fosse proprio così. Madonna Nicolosina amava il Cascherano, o, per dire più veramente, non amava il Bardineto, ed egli era disperato per due versi; pel padre, che non gli avrebbe dato la figliuola; per la figliuola, che ci aveva in testa più superbia del padre. Ora, voi m’intendete, messere Anselmo; un grande amore può cangiarsi spesso nell’odio più acerbo.

— Capisco; — disse il Picchiasodo con gravità. — Del vino dolce si fa l’aceto forte.

— Ci siete, — incalzò il Sangonetto, — ed ora capirete eziandio che sa Giacomo Pico ricusa di bere la feccia del calice, ci ha le sue grandi ragioni.

— Questo Pico, — notò il capo dei bombardieri col piglio di chi vede molto lontano, — è un acquisto prezioso, per gli amici della libertà. Ma che diavol c’è egli? soggiunse, con accento mutato e balzando dalla panca. — Qualche topo mi rosica la parete; forse per giungere al cacio. Ma gliene caverò io il ruzzo, perdinci! —

Non c’erano topi, il lettore lo ha già indovinato; e il Picchiasodo, dal canto suo, parlava in metafora.

Il Maso, tutto orecchi da un’ora ad ascoltare quell’importantissimo dialogo, nello stupore onde lo avevano compreso certe inaspettate rivelazioni, non era stato saldo abbastanza. Si aggiunga che il paggio di Anselmo Campora non era più là, testimone del suo sonno simulato, avendo dovuto allontanarsi un tratto per certe faccende del suo ministero. Così, pensando di esser più libero e non ricordando che la parete era un semplice tramezzo di assi, il Maso aveva provato a rivoltarsi sulle reni, per accostar meglio l’orecchio; e il rumore lo aveva tradito. [p. 234 modifica]

Si pentì dell’atto, come in fin di vita non si sarebbe pentito de’ suoi peccati; ma il pentimento non gli serviva un frullo, poichè Anselmo Campora s’era alzato da sedere ed accennava di voler uscire dalla baracca. Ora il Maso fu pronto ad intendere che se il Picchiasodo lo coglieva là dietro, anche in atteggiamento di chi dorme, egli era un uomo spacciato. E intender ciò e pensare al rimedio, fu un punto solo. Di colta fu in piedi, come se dentro ci avesse avuto una molla; spiccò un salto da banda, indi un altro, a guisa di scoiattolo, e trovato per sua ventura un carro di bagaglie, si accoccolò dietro a questo, prima che il Picchiasodo fosse giunto sul luogo d’onde gli era parso di sentire lo strepito.

Così fu salvo il mariuolo. Anselmo Campora venne dietro la capanna, con quel suo cipiglio che non prometteva niente di buono; guardò tutto in giro e non vide nessuno; svoltò la cantonata e si ricondusse dall’altra parte fino all’ingresso della sua modesta abitazione, senza vedere il prigioniero, nè il paggio.

— Che dire? — borbottò, stringendosi nelle spalle. — Avrò sognato ad occhi aperti.

E tornò al suo colloquio col Sangonetto, che gli dovea premer di molto, come il savio lettore argomenta.

Frattanto, il Maso ci avea avuto una gran battisoffia, che l’allontanarsi del Picchiasodo non valse a chetargli d’un tratto. Però stette lungamente nel suo nascondiglio; ci stette per ricogliere il fiato ed anche un pochino per richiamare i pensieri a capitolo.

Non c’era da scherzare; egli, il Maso, umilissimo soldato, pur dianzi ragazzo d’osteria, ci aveva in corpo un segreto da cui dipendeva la sorte della sua terra. [p. 235 modifica]E non importa il dire che si trattava piuttosto del marchese del Carretto e della sua discendenza; coteste distinzioni il Maso non la conosceva, e se le avesse conosciute, di certo le avrebbe lasciate ai curiali dei suo tempo, e ai politiconi di là da venire.

Ora, che doveva egli fare? Svignarsela dal campo nemico, per dar l’avviso nel Borgo? Questo era un punto difficile; ma il nostro giovinotto non ci vedeva niente d’impossibile. Ci avrebbe pensato, e al postutto, avrebbe tentato. Ma egli non poteva ancora pensarci; ma egli non sapeva ancor tutto. Aveva capito che nel Borgo c’era una fazione avversa ai signori del luogo e al proseguimento della guerra; aveva capito che il Sangonetto e lo Sturlino, il Marchelli e il Battaglia, il Giudice e il Valle, il Campi, il Cavazzola e il Bardineto, congiuravano per dare la terra ai genovesi. Ma ciò non bastava ancora. In che modo contavano essi di darla? Questo era il busilli; questo bisognava sapere; e per saper questo bisognava tornare laggiù contro l’assito della capanna, ad origliare la conversazione del Sangonetto col Campora.

Come venirne a capo? A tornar là, ci risicava la vita; e questo sarebbe stato il meno, per un ragazzo animoso com’egli, se, risicando la vita, non avesse anche risicato di non portare più niente all’orecchio degli assediati. Ci voleva dunque giudizio ed audacia, audacia e giudizio, due cose che tra gli uomini, come tra i popoli, sogliono andare così poco d’accordo.

Il Maso ci si provò. Quello che l’esperienza il più delle volte non dà, lo aspettava egli dalla fortuna. Era giovine, e la fortuna li ama, questi benedetti giovani. Suvvia, dunque; il Maso si tolse di dietro al [p. 236 modifica]carro, non senza aver dato una prudente sbirciata per mezzo alle ruote, e con passo leggiero, ma in apparenza sbadato, colle mani in tasca e gli occhi in guardia, andò incontro al pericolo.

Mai volpe vecchia s’accostò più guardinga al pollaio insidiato, di quello che il ragazzo dall’Altino a quella baracca di legno, in cui si patteggiavano le sorti del suo luogo natale. Egli voleva esser pronto ad apparire in atto di chi torni da una passeggiata, e per moto di prudenza istintiva tenea corrugate le labbra e dondolava la testa per zufolare in cadenza; ma il fiato lo chiudeva per bene tra i denti, poichè, se gli venia fatto, voleva udire, non essere udito.

Così infatti gli avvenne. Non ho detto che la fortuna ama i giovani?

Anselmo Campora data la sua scorsa nei pressi della capanna, aveva bandito per allora ogni sospetto e la conversazione proseguiva più calda che mai.

— Già, — diceva il Sangonetto, quando il Maso riuscì a metter l’orecchio da un altro lato del tramezzo, — la condizione sarebbe di ucciderlo. Egli non consentirà a questi patti, se non gli si leva d’innanzi quel terzo incomodo.

— Ucciderlo! — notò il Maso tra sè, — Diavolo! Chi sarà costui che si condanna in tal modo, senza fargli il processo? —

Intanto il Picchiasodo rispondeva.

— Ah, quanto a ciò, non lo sperate, Messer Pietro è un gentil cavaliere e non vi accetterà mai un tal patto.

— Manco male! — ripigliò il Maso, sempre tra sè, — Chiunque sia l’uomo che si vuol morto, questo messer Pietro Fregoso incomincia a piacermi. [p. 237 modifica]

— Non lo accetterà; — proseguiva il Picchiasodo. — Tanto e tanto si verrà a capo della vostra resistenza, o, per dir meglio, della resistenza del marchese. Ci ho il mio disegno anch’io e messer Pietro lo approva. Il vostro è più spicciativo, non nego; ma abbiatelo per fermo, io conosco il capitano generale come il fondo delle mie tasche; egli non vi venderà in compenso la vita di nessuno.

— Ma... — si provò a dire il Sangonetto.

— Ma infine, o non siete buoni voi altri, a far le vostre vendette? Voi pratici dei luoghi; voi più al caso d’ogni altro di cavar profitto da un’ora di trambusto; noi non ci avremo nulla a vedere. Del resto, sarà buio, a quell’ora. Ma intendiamoci, non parlate di ciò a messer Pietro; e’ sarebbe capace di non volerne sapere, e allora, addio fave; piuttosto, si potrebbe domandare un duello, e messer Pietro, che ama questi combattimenti come un tordo la ginepra, ve lo consentirebbe senza fallo. Proponete questo; è il partito migliore.

— Lo proporrò; — disse il Sangonetto, chinando il capo in atto di assenso.

— Andiamo dunque; — soggiunse il Campora, — Messer Pietro sentirà e risolverà secondo il suo savio consiglio. C’intenderemo, non dubitate; io l’ho tanto per negozio conchiuso, che piglio per via un mio vecchio compare, Giovanni di Trezzo, il più arrischiato capitano di tutto l’esercito, a cui simili imprese vanno a sangue, come ai tordi... Ah scusate, il paragone l’ho adoperato poc’anzi; dirò invece: come ad Anselmo Campora il vostro vino di Calice. —

Il Maso non volle saperne altro, e mentre i due si [p. 238 modifica]alzavano da sedere, corse difilato, come già avea fatto una volta, ad appiattarsi dietro il suo carro.

E là, fingendo di dormir della grossa, il povero Maso s’immerse nelle più profonde meditazioni intorno al modo di uscire di mano ai nemici e di avvisare il Borgo del tradimento ordito a suo danno.

Ma questa gretola era più difficile a trovare che non sembrasse a tutta prima. Osservare la forma dello steccato, le consuetudini delle scolte, e quelle del Campora, trar profitto delle occasioni, avere un occhio al cane e l’altro alla macchia; queste erano tutte cose bellissime, che il Maso si disponeva a fare, ma colle quali non cavò quel giorno, nè il giorno seguente, un ragno da un buco.

Bene andava egli mattina e sera col paggio del Picchiasodo ad attinger acqua in un pozzo, che era in una certa forra a tramontana, poco lunge dello steccato. Ma egli lavorava, e il paggio colla balestra stava a fargli la guardia, come fa l’aguzzino alla ciurma. Anselmo Campora, che non lo aveva veduto nella occasione del suo colloquio col Sangonetto, saputo com’egli fosse andato da solo a pisolare in un canto, aveva sgridato il paggio, ordinando che d’allora in poi non lo perdesse più d’occhio. Ospite sì, ma prigioniero, e certi riguardi non si dovevano smettere. Così fu tenuto alla lunga il falconetto dell’Altino; ed ebbe un bel beccarsi i geti e dar l’anima al diavolo; la sua inquietudine non gli fruttò che una vigilanza più stretta.

Il Sangonetto dopo essere andato dal capitano generale, non si era più visto nella baracca del Campora. Certo era rimasto in custodia della compagnia [p. 239 modifica]che lo aveva fatto prigione. Ma il terzo giorno ci fu gran novità nel campo, per dare un altro grattacapo al nostro povero Maso. Una scorribanda di cavalieri menava prigione entro il battifolle messer Giacomo Pico.

Pallido in volto come un cencio lavato, gli occhi stravolti e i capegli più rabbuffati del solito, messer Giacomo Pico avea l’aria d’un uomo a cui grandemente cuocesse di quella umiliazione, assai comune del resto agli uomini di guerra, la cui sorte è pur troppo di dare e di ricevere.

— O come è egli possibile che costui sia un traditore? — dimandò a sè stesso il Maso, vedendolo a passare, colla fronte china e livida di vergogna e di rabbia, in mezzo a un drappello di nemici. — Egli mi sembra un cavallo generoso che morde il freno e sbuffa e si ribella allo sprone. —

Intanto, si spargeva tra i crocchi la voce che il Bardineto, il braccio destro del marchese Galeotto, era stato preso, mentre, con un pugno di arditi cavalieri, tentava di attraversare la cerchia degli assediati, per riuscire sulla via di San Giacomo. L’imboscata in cui egli doveva cadere, era comandata da Giovanni di Trezzo.

Questo nome risvegliò i sospetti del Maso.

Giovanni di Trezzo! Ma questi era l’amico del Campora; l’uomo che egli volea condurre dal Fregoso, due giorni addietro, come capitano d’audacissime imprese, dopo la conversazione avuta col Sangonetto. E poi, che volea dire questa sequenza di prigionieri? Prima il Sangonetto; indi il Pico. Questa di certo non era l’opera del caso, bensì la conseguenza d’un patto fer[p. 240 modifica]mato tra loro; che anzi, o non poteva il capitano generale, prima di pigliare per evangelio le parole del Sangonetto, aver voluto alla sua presenza il più ragguardevole tra tutti i congiurati?

Ma come? Il Sangonetto avea dunque potuto da lunge comunicare coi sozi? mandare un messaggio al Borgo, anzi a castel Gavone, dove abitava il Bardineto?

E a lui, Maso, non sarebbe riuscito di fare altrettanto? di fuggire dal campo genovese e portare in tempo un salutare avviso al castello?

Quel pensiero s’impadronì di lui, mentre, con una bigoncia in bilico sulla cervice, se n’andava per acqua al pozzo, accompagnato dal paggio aguzzino. Avviandosi per quella forra, che, come ho detto, era poco lunge dello steccato, il Maso guardava con desiderio infinito le sovrastanti colline, di cui conosceva, meglio delle capre, ogni sentieruolo, ogni ciglione, ogni solco. Quante volte non le aveva egli corse e ricorse da bambino, per cogliervi le viole mammole, o per tagliarsi un arco ne’ pieghevoli rami dei frassini! E adesso, che brutto divario! Una bigoncia sul capo e una balestra minacciosa alle spalle.

Fattosi, alla bocca del pozzo, cavò di dentro alla bigoncia una secchia e cominciò ad attingere, secondo il costume di tutti i dì. Ma il povero Maso doveva quel giorno esser molto distratto, poichè, alla terza calata, gli scivolò di mano la corda, e tuffete, secchia e corda piombarono nell’acqua.

Il Maso, disperato, si messe le mani nei capegli, guardando con occhi lagrimosi ora nel pozzo, ora in volto al custode. [p. 241 modifica]

— Lasagnone! — gridò costui, a mala pena si accorse dal guaio.

— Scusate, Falamonica, non l’ho fatto a posta; — disse il Maso umilmente.

— Eh, non ci mancherebbe altro che tu l’avessi fatto a posta! — replicò il Falamonica, che così avea nome il paggio. — Va là, buono a nulla; per colpa tua si perderà un’ora di tempo, e le ripassate toccheranno a me. —

Frattanto si accostava al murello e guardava a sua volta nel pozzo.

— Ah, manco male! — soggiunse. — La secchia non ha bevuto e galleggia. Ora dimmi, bertuccione; come faresti tu a cavarla dell’acqua?

— To’! disse il Maso. — La bocca del pozzo non è troppo larga; mi calo dentro, aiutandomi colle mani e coi piedi...

— E dai un tuffo anche tu, babuasso! — interruppe il Falamonica. — Il guaio non sarebbe dei grossi, per verità; ma tu potresti, nell’affogare, mandarmi al fondo la secchia. Per fortuna, il mio diavolo la sa più lunga del tuo. Stammi a vedere ed impara. —

Così dicendo, il Falamonica trasse di tasca la corda di ricambio della sua balestra; l’annodò con quell’altra, che aveva avuto cura di spiccare dai due capi del suo strumento di guerra, e v’adattò in fondo il crocco, che era il gancio del martinello con cui si caricavano le balestre, e serviva a tender la corda fino a quel punto del fusto, o teniere, che dir si voglia, dove s’incoccava la freccia.

Il pozzo non era molto profondo, e il Falamonica, [p. 242 modifica]così ad occhio, aveva misurato lo spazio che gli bisognava percorrere con quella ságola posticcia. Le due corde annodate bastavano, solo che egli si curvasse un pochino sull’orlo del pozzo, per calare il crocco fin sotto l’anello della secchia, che si dondolava beatamente sul pelo dell’acqua.

— Ripesco io? — disse il Maso, offrendosi a quella fatica.

— Sì, per gittarmi anche il crocco nel pozzo! Tirati in là, scimunito, e tienmi piuttosto la balestra, ella non mi si sciupi nel fango.

— Dite bene, Falamonica; sono uno scimunito; — borbottò il Maso, crollando il capo e tirandosi col sommo delle dita un sentore, anzi una voglia, di baffi. — Sono uno scimunito, — aggiunse poscia in cuor suo, — se non cavo i piedi di qua. —

Il Falamonica intanto a calar la sua fune. Tutto andò com’egli aveva immaginato. Il crocco dondolava, faceva le giravolte a due o tre spanne dalla secchia. Bisognava dunque spenzolarsi sull’orlo del pozzo e allungare il braccio, perchè il gancio arrivasse; pel resto, non si trattava che di cogliere il punto buono e infilare il dente nell’anello insidiato.

Il Maso guardava, e guardando pensava.

— Faccio, o non faccio? — chiese egli perplesso a sè medesimo.

La tentazione c’era; l’occhiata sospettosa in giro l’aveva già data, e si vedeva solo nella forra, solo col suo aguzzino, il cui capo spariva dietro le spalle, incurvate sulla bocca del pozzo.

— Animo, a te, lanternone senza moccolo! — disse il Falamonica, sporgendo un braccio dietro di sè. — Dammi una mano, che son per toccare. — [p. 243 modifica]

Il Maso alzò gli occhi al cielo, donde si fanno venire le cattive ispirazioni, come le buone.

— Eccomi qua! diss’egli di rimando.

E poste le palme contro le reni al nemico, gli dette un spianta gagliarda, che lo fe’ andare a capo fitto nel pozzo.

— Tocca ora la secchia! — soggiunse. — Io tocco il cavallo. —

E lo toccò daddovero e lo fe’ parere l’ippogrifo di Ruggero, quantunque e’ non foss’altro che il modesto cavalluccio di san Francesco. Avea l’ali alle piante; saliva su per la collina, veloce come un ramarro, e non c’era pericolo che si voltasse indietro, per dare uno sguardo allo steccato di Pertica, e un saluto a quella baracca, nella quale aveva mangiato e bevuto per quattro.

— Gratitudine di ventre satollo! — doveva dire il Picchiasodo, più tardi.