Catone Maggiore/VII

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Capitolo VII - Né memoria né ingegno fanno difetto ai vecchi.

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Marco Tullio Cicerone - Catone Maggiore (De senectute) (44 a.C.)
Traduzione dal latino di Michele Battaglia (1866)
Capitolo VII - Né memoria né ingegno fanno difetto ai vecchi.
VI VIII

[p. 262 modifica]VII. — (Nè memoria nè ingegno fanno difetto ai vecchi.) — Si rampognano i vecchi per fugace memoria. Sia pure, quando fu tarda per natura, o irrugginì per mancanza di esercizio.

Temistocle chiamava a nome tutti i cittadini: [p. 263 modifica]tuttavia ch’il crederebbe? nell’età avanzata, confondeva i nomi, e salutando Aristide lo appellava Lisimaco. Io parimenti conobbi non solamente coloro che al presente sono ancora in vita, ma i padri ed avi loro. Scorrendo le iscrizioni scolpite sui loro sepolcri, non lo faccio, come asseriscono taluni, per timore di smarrirne la ricordanza, bensì perchè in cosiffatta guisa rivivo fra i trapassati.

Non mi sovviene di persone attempate che nascosto un tesoro, dimenticassero mai il luogo dove l’avevano celato. Rimembrano esse con rara precisione ogni loro faccenda, non lasciano cadere in contumacia l’assegnamento delle comparse nel foro, e tengono nella memoria i nomi de’ loro debitori e creditori. Gran numero di giureconsulti, pontefici, auguri, filosofi, arrivati in età avanzatissima, conservarono intatta la vasta loro erudizione.

Lo studio e l’alacrità giovano a mantenere vigorosa la mente dei vecchi. E ciò non avviene solamente per eminenti e chiari personaggi, ma per coloro altresì che vivono privatamente.

Giunto all’ultimo stadio senile, Sofocle componeva tragedie, e perchè assorto dalla passione dello studio era noncurante degli interessi della casa, venne dai figli chiamato a renderne conto ai giudici. E nella stessa guisa che in Roma sono interdetti coloro che malamente amministrano le loro sostanze, così da quel tribunale veniva Sofocle dichiarato mentecatto e sospeso dal governo della famiglia. Narrasi di quel vecchio venerabile, che al cospetto dei giudici prendesse a declamare l’Edipo a Colono, tragedia di fresco composta, in [p. 264 modifica]torno a cui stava tuttora lavorando, e chiedesse loro se quei versi sembrassero dettati da uno stolido? - E quella recita bastò perchè il Tribunale rievocasse la sentenza.

Or dunque Omero, Esiodo, Simonide, Stesicoro, e gli altri già da me nominati, Isocrate, Gorgia, Pitagora il principe dei filosofi, Democrito, Platone, Zenocrate, e poscia Zenone, Cleante, e colui che voi tutti vedevate in Roma, lo stoico Diogene, vennero forse costretti per vecchiezza a dimettersi dagli studi, ovvero li proseguirono essi nel corso dell’intera vita?

Anche lasciata in disparte la divina occupazione delle lettere, ben io potrei nominarvi non pochi campagnuoli dell’Agro Sabino miei vicini e famigliari, ai quali punto non garberebbe che in loro assenza, altri desse mano ad alcun lavoro rurale di qualche importanza, nè alla seminagione, nè al raccolto, nè al togliere le granaglie dall’aia. E la gelosia di tali faccende che sono di lunga lena mi desta minor meraviglia, perchè non è un uomo per vecchio che sia, il quale non creda di poter vivere ancora quell’anno. Tuttavia essi incumbono a non pochi lavori, dei quali ben sanno che non potranno raccogliere il frutto in vita. "È d’uopo piantare alberi che preparino l’ombra ai nostri nipoti" dice il nostro Cecilio Stazio nella commedia dei Giovinetti coetanei.

E il tremolante agricoltore richiesto per chi mai sudi a tracciare solchi novelli vi risponderà senza imbarazzo: gli Dei immortali ne permisero di ricevere fecondi e ben coltivati i campi dai nostri maggiori, affinchè fossero da noi tramandati nel medesimo stato ai nostri nipoti.