Comedia di Iacob e Ioseph/Atto quarto

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Atto quarto

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Atto terzo Atto quinto

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ATTO QUARTO

Nel quale si tratta de li insemini che fece il re Faraone, con la esplanazione di Ioseph, e de la sua liberazione da la carcere

SCENA I

Cabasan, Durach.

Cabasan.   Non so se ’l parerá, Durach, a te,

circa l’impresa quale il re n’ha dato
per il suo insomnio, quel che pare a me.
     Il re, come tu sai, si s’ha insomniato,
e quel che lui ne senta io non lo so,
ma par per quello tutto spaventato,
     intrato è in gran pensier; per questo mo
vói che tutti li savi congreghiamo,
ch’abbino a interpretar l’insomnio sò.
     Per me ti dirò il ver, quel che facciamo
io non l’intendo, e credi al mio iudizio,
che contentarlo noi non possiamo.
Durach.   Seria nostra vergogna e nostro vizio
noi poter contentar; ma qual ragione
cosí ti fa parlar? dammene indizio.
Cabasan.   Non è la piú difficile azione
(si che è quasi impossibil) che trovare
un che sia savio, per mia opinione.

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     E il re non un sol savio fa chiamare,

ma vói che sian ben savi e vòlne assai.
Se pur un non ce n’è, che abbiamo a fare?
     Se vai cercando savi, cercherai
per tutto il mondo, e un savio ben perfetto
in fin, credilo a me, non troverai.
Durach.   Noi credo questo, perché se hai rispetto
ch’abbiam tanti filosofi e dottori,
sai che di savi non abbiam difetto.
Cabasan.   Questi che dici, e credi sian migliori,
savi non sono. Forsi hanno ben scienza,
e per quella lor scienza han de li onori:
     ma da savio a sciente è differenza,
e pili che molti son di tal scienti,
che son piú pazzi et han meno sapienza.
Durach.   Se noi dimostri con qualche argumenti,
non intendo né credo il tuo parlare,
perché li dotti io tengo sapienti.
Cabasan.   Con la tua mano io tei farò toccare.
Bisogna al savio aver cognizione
de le cose divine e non errare;
     e de le umane ancor la sua ragione
appresso dei principi aver notizia,
e coi principi la conclusione.
     Essendo di tal cose grande inscizia,
ché saper non si possono, tu intendi
che non si pò di savi aver divizia.
     E vo’ che a un’altra cosa ancora attendi:
di sua scienza il piú dott’uom richiede,
e qual sia sua risposta ben comprendi.
     Dirá che sua scienza, qual si vede,
è di quel che non sa minima parte;
se è dotto o savio, non so mo s’ tu il crede.
     Un altro motto voglio ancora darte:
che quel che ti dirá di piú sapere,
quello será piú stolto e di men’arte.

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Durach.   T’intendo mo: cosí, pel tuo parere,

se questi indivinanti cercarono,
che vòle il re, non ne potremo avere?
Cabasan.   Dico de li indivin né piú né meno,
perché l’indivinar cose future
sol Dio se l’ha salvato nel suo seno.
Durach.   Tue parole per certo paion dure.
Astrologhi, pitoni e nigromanti,
che in specchi e in acqua vedeno e in figure
     sortilegi, con maghi e geomanti,
che poss’indivinar cose avvenire
dicono e credon li omin tutti quanti.
Cabasan.   Lassa pur dir ciascun quel che vói dire,
ché vanitá son tutte e illusione,
e un uom sensato sempre i de’ fuggire.
     Dio solo, e quei che per infusione
l’hanno da lui, non dicono menzogna,
come i profeti e tal condizione;
     li altri non sanno pur quel che bisogna
a lor di giorno in giorno: or come sanno
le imagini che un uom la notte sogna?
     La lor scienza in summa è tutto inganno,
però né ai savi credo, né indivini
oggi per nostre man si troveranno.
Durach.   Toi parlamenti a me paion divini,
ma una conclusion vo’ che facciamo,
per servar del mandato i soi confini.
     Quei che son manco pazzi ne troviamo:
quelli saranno i savi. E chi dilonga
men da la brocca, quel divin diciamo.
     Cosi la cosa adunque si componga,
cerchi ciascun di noi quanto piú vale,
per vie diverse e poi in un punto gionga,
     che, come il re verrá sul tribunale,
savi e indivini ch’arém ritrovati
ciascun presenti al trono suo immortale:
     cosí adempiti arém nostri mandati.

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SCENA II

Faraone e Coppiero.

Faraone.   Dappoi che i nostri dèi (come al piú degno)

a me d’Egitto il scettro consignorno
e che in questo mio trono io presi il regno,
     i fati e la fortuna mi donorno
molte prosperitá, molte mie voglie
insino a questo tempo contentorno,
     e ancor, si come accade, molte doglie
e molte passion per casi avversi,
ché alcun mortai da queste non si scioglie:
     e tutti sempre in ben si son conversi,
perché con generoso animo e forte
li ho sopportati in modi assai diversi.
     E molti insomni e molte ambigue sorte,
molte apparizion pien di sospetti
ho giá vedute e molte imagin morte:
     per niuna mai tanto a pensar mi détti,
nissuna mai mi die’ tanto spavento,
nissuna mai mi tolse i mei diletti.
     Due insomni, ch’io son certo han sentimento,
ambidui d’una notte, al cor mi dánno
un gran pensier di strano avvenimento;
     non mi lassan posare, e questo fanno,
che a tante varie cose il pensier vólgo,
che’1 dormir, il vegliar, tutto m’è affanno.
     Non so se a tema o a speme io mi rivolgo,
non so se bene o mal questo pretenda:
è questa la cagion perché mi dolgo.
     Però se alcun di voi gli è che s’intenda
d’esplanar somni, io v’ho qui congregati,
acciò che suo parer ciascun mi renda.

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     Per questo ho ancor commesso sian chiamati

savi, indivin, filosofi e dottori,
ch’a la presenza mia sian ragunati,
     per riparare a questi mei terrori;
che se li insomni saperan chiarire,
mi trarranno dal capo molti errori.
Coppiero.   Io, sacra Maestá, ti vengo a dire
che son venuti i savi a obedienza;
comanda quel ch’io gli abbia a riferire.
Faraone.   Venghino tutti quivi a mia presenza
con l’ordin loro, ch’io ho deliberato
udir d’ognun di lor la sua sentenza,
  ché da questo pensier sia liberato.

SCENA III

I Savi, Faraone.

Primo Savio.   Ave, re Faraon, noi ti adoriamo

e salutiamo ancora, e reverenti
udir quel che comandi, no’ aspettiamo.
Faraone.   Io laudo, ch’io vi vedo obedienti,
valentomini mei, laudando ancora
che a l’obedirme voi non séte lenti.
     La gran dottrina, qual tanto vi onora,
mi dá gran fede che voi solverete
li insomni ch’io dirò senza dimora.
     Però che esperienza e ingegno avete,
li insomni vi dirò quali vedeva:
a voi lasso il spianarli. Ora intendete.
     Sopra la verde ripa mi pareva
del nostro sacro Nilo fiume stare
e li occhi fissi in l’acqua riteneva.
     Fora de l’acqua poi vedea levare
sette gran vacche belle, tonde e grasse
et in quei lochi acquosi pascolare.

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     Sett’altre vacche d’ogni vigor casse,

magre, strinate, sordide e distrutte,
parea che quelle prime seguitasse.
     E in su la ripa, in l’erbe verdi e asciutte
parea che queste magre si pascesseno
e divorassin quelle belle tutte.
     Vere parean, si come se vedesseno;
io mi svegliai, dappoi raddormentato,
par ch’altre simil cose mi apparesseno.
     D’un bel ceppo di grano alto e levato
nascer vedeva sette spiche belle,
col corpo molto pieno e ben granato.
     Sett’altre spiche vote e meschinelle,
arse dal vento, appresso ancor nasceano,
e queste brutte divoravan quelle,
     che belle e ben granate si vedeano.
Questi due insomni quali io v’ho narrati,
ne le passate notti mi appareano:
     voglio che a punto me li dichiarati.
Primo Savio. Osiri et Isi, Anubi e il sacro fiume,
nostri potenti dèi, o Faraone,
     sempre ti salvin come nostro nume.
Avemo inteso la tua visione,
e poi che a questi par per cortesia
     ch’io dica, ti dirò mia opinione.
Non creda alcun mortai, dotto ch’el sia,
le imagini notturne dei dormienti
     interpretarle per filosofia;
perché li insomni son certi accidenti,
nati da cause tanto occulte e strane,
     che attinger non li posson li argumenti.
E sono la piú parte cose vane,
però quel che li insomni rappresenteno
     non lo debbon curar le menti umane.
Ma perché i dottor nostri in ciò consenteno,
che i cor dei re in man son de li dèi,
     e per quest’anco del presagio senteno,

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     e tu re sopra li altri gran re sei,

che’l sia l’insomnio tuo di grande effetto
questo dicono ben li libri mei.
     Ma vo’ ben confessare il mio difetto,
che quello che significhi o pretenda,
io non lo so, né ’l credo aver mai letto.
     Ma se tu vói che ’l ver ben si comprenda,
laudo pel mio parer che sii contento
che tra noi prima insieme si contenda;
     e che si faccia alcun ragionamento,
cosí da canto, e li disputaremo
per veder di trovarne il sentimento.
     Perché tra noi filosofi tenemo
che per il disputar si possa avere
la veritá, che è obietto a noi supremo.
Faraone.   Io laudo se alcun dice non sapere
quel che non sa, ché quelli al fin piú sanno
che non presumon piú del suo sapere;
     ma quelli son per certo in grande inganno,
che per non confessar loro ignoranza,
nulla sapendo o poco, in quel si stanno,
     al non saper giongendo l’arroganza.
Io mi contento che tra voi ’n disparte
troviate qualche cosa di sustanza,
     e ancor commendo molto questa parte.
Restringetevi adunque in un cantone,
disputando e voltando vostre carte:
     tornate poi con la conclusione.

SCENA IV

Coppiero e Faraone.

Coppiero.   In questo punto io mi son ricordato

(ché prima ricordar me ne doveva:
per questo io confesso aver peccato):

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     dui anni fa tua Maestá teneva

il capo de’ pistori e me in prigione,
per ira che ver’ noi ’n quel tempo aveva.
     Una notte, dormendo, in visione
un insomnio ci apparse ad ambidoi,
presagio di futura occasione.
     Era un giovine ebreo prigion con noi,
che circa vintott’anni potea avere,
a chi narrammo i nostri insomni poi;
     et era, se ancor questo vói sapere,
famiglio del tuo Duca di milizia:
non so qual causa il fèsse li tenere.
     Costui, che di sapienza avea divizia,
li insomni interpretò senza difetto:
tristezza al mio compagno, a me letizia;
     perché, si come dimostrò l’effetto,
lui in croce fu attaccato et io, disciolto,
nel primo officio mio fu’ ancora eletto.
Faraone.   Fa’ adunque colui sia dal career tolto,
e condutto qui sia a mia presenza,
incontinente mo, libero e sciolto.
Coppiero.   Io ’l farò presto senza negligenza:
al career, che i pregion del re contiene,
andrò, e conduròl con diligenza,
     ché a servir tanto re cosí conviene.

SCENA V

Primo Savio, Faraone, poi Coppiero.

     Primo Savio. Signor, come tu vedi, molti siamo,

et arte per scrittura non si trova,
che tra noi tutti adesso non abbiamo;
     e non è a noi dottrina ancora nova
né parte alcuna di filosofia,
che s’abbia per ragione, ovver per prova.

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     Non bisogna dir piú: nissuna via

di dotti o indivinanti ci è mancata,
per consultar questa tua fantasia.
     Quando la cosa abbiam ben disputata,
tutti d’accordo in fin ti concludemo,
che questa vision dai dèi ti è data,
     i secreti dei qual noi non vedemo:
e però concludendo ti diciamo
che dichiarar tuo insomnio non sapemo.
     Di questo, o sacro re, ben ti preghiamo:
che a la nostra ignoranza tu perdone,
e da noi vogli quel che noi possiamo.
Faraone.   Conviene ad un’aperta confessione
ch’un faccia d’impotenza e d’ignoranza,
qualche indulgenza o qualche remissione.
     De la dottrina vostra ebbi speranza
poter trar frutto, e poi ch’io so’ ingannato,
altro per ora a dirvi non mi avanza.
Coppi ero.   Signor, Ioseph si è stato liberato
et è qui. Se ’l ti piace il farò intrare:
spero che non invan será chiamato.
Faraone.   Fa’ presto, fai qui in mezzo appresentare.
Non vi partite, ché in vostra presenza
io voglio questo ebreo interrogare,
     e sopra il somnio udirò sua sentenza.

SCENA VI

Ioseph e i predetti.

Faraone.   Veduto ho certi insomni, e non è alcuno

che li dichiari, ancor che sia dottissimo,
et honne dimandato qui a ciascuno.
     Intendo che tu sei sapientissimo
in ben conietturare ogni visione:
se me li spiani, mi será gratissimo.

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Ioseph.   Dio vivo e vero eterno, che dispone

il mondo tutto, senza l’opra mia,
dará risposta bona a Faraone.
Faraone.   Narrar ti voglio il tutto, e per qual via
e di qual sorte i somni mi mostrava,
imaginando, la mia fantasia.
     Su la ripa del fiume star pensava,
di quel vedendo sette vacche uscire
per grassezza rotonde, qual stimava
     pur troppo belle, e lor pascendo gire
per la palude l’erba; e drieto a queste
sett’altre vacche poi vedea seguire,
     in tanto brutte e magre e disoneste,
che simil mai non vidi piú in Egitto:
e queste cosí brutte, ardite e preste
     divorar quelle belle vidi al dritto,
né parer però sazie, anzi durare
squallide e magre e il corpo lor trafitto.
     Io mi svegliai, poi m’ebbi a addormentare,
et ecco un altro insomnio mi riviene.
Vedea d’un ceppo solo pullulare
     sette spiche bellissime e ben piene,
et altre sette vane, arse dal vento,
nascer di stoppia, con le secche vene;
     queste spiche ch’avean suo vigor spento,
di quelle sette prime la bellezza
vidi che divororno in un momento.
     Vorria di questi insomni aver chiarezza:
di questi coniettori e sapienti
alcun non è che intenda la sua altezza.
Ioseph.   Voglio che mia risposta ti contenti.
Non dui, ma un solo insomnio è quel del re,
che a Faraon vói Dio si rappresenti.
     Le sette vacche belle apparse a te,
con quelle spiche piene, è una sustanza:
di quel che ha a venir ti fanno fé,

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ché serauno sett’anni d’abundanza.

Le sette magre e quelle spiche vote
di sett’anni di fame fanno instanza.
E l’ordin de la cosa vo’ che note,
come si compirá: tutto 1’ Egitto,
fin che sett’anni il sol volga sue rote,
sera in grande ubertate e gran profitto:
altri sett’anni poi seguiteranno,
che per sterilitá’l faranno afflitto.
E quei di tanta carestia seranno,
che li omin per la fame e pel bramare
la passata abundanza oblieranno;
perché tutta la terra ha a consumare
la fame in quei sett’anni tanto esosi,
e la gran povertá verrá a disfare
la copia grande de li diviziosi.
Questo è l’ordin de li anni c’ha a venire:
sette abundanti e sette carestiosi.
Viene il secondo insomnio ad inferire
fermezza al primo e presto seguirá,
perché il parlar di Dio non pò fallire.
Quel che l’insomnio tuo pretende e dá
credo mo ne sia chiara tua Eccellenza,
e quel che in li anni prossimi será;
ma perché a ciò bisogna provvidenza,
per la tua gloria e pel ben del tuo regno,
umilmente dirò la mia sentenza.
Di un omo industrioso, savio e degno
provvedi, o re, qual tu farai prefetto
sopra tutto l’Egitto e suo contegno.
E questo primo, con iudizio eletto,
faccia altri soprastanti pel paese,
di provincia in provincia, a questo effetto:
che de le entrate che seranno prese
questi sett’anni grassi, si riponga
la quinta parte e questa sia per spese

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     de li sett’anni magri, e si componga

per le cittá i granari et in potere
di Faraone, fin che ’l colmo aggionga.
     Questo sera, signore, un provvedere
a la fame, che Egitto ha a conquassare,
ché noi consumi: e questo è il mio parere.
Faraone.   Di quest’omo, o baroni, che ve n’ pare?
Un tal si pieno del spirto di Dio
credete che potremo mai trovare?
     Sol questo ha satisfatto al mio desio
e al vostro ancora, e per questa ragione
delibero, ch’e’ intenda il voler mio.
     Poi c’ha’ avuto da Dio dimostrazione
di quel che m’hai parlato, Isepe caro,
interpretando tu la mia visione,
     credi che trovar mai possi un tuo paro,
che simile a te sia di sapienza?
Che ’l non si possa certo, io ne son chiaro.
     Vo’ ch’abbi in la mia corte presidenza,
e a quel che la tua bocca ordinerá,
il popul tutto dará obedienza.
     Una sol cosa a me rimanerá,
del regno il trono e la sua maiestate:
il resto tutto tu amministrerá’.
     Una veste regai qua mi portate,
o servi, e sia di bisso splendidissimo,
S
     e una collana d’oro anco recate.
Ioseph, perché io t’ho per prudentissimo,
ecco ch’io ti fo capo e presidente
     sopra tutto l’Egitto, quant’è amplissimo.
E acciò che questo intenda tutta gente,
ecco ch’io te n’investo col mio anello,
     si come in cotal atto è espediente.
Questa veste di bisso, appresso quello,
vestirá tua persona per piú onore,
     ché intenda ognun che un altro me t’appello.

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     E per piú dimostrar ver’ te il mio amore,

questa collana d’oro al col’ ti pongo,
che autoritá ti dia col mio favore.
     Un’altra cosa per piú fama aggiongo:
perché s’intenda la tua prefettura
da tutto Egitto appresso e ancor da longo,
     nel mio carro regai posto in altura
voglio per la cittá vadi girando,
con lieta fronte, nobile e secura;
     e inanzi un banditor vadi gridando
che ciascun s’inginocchi a tua presenza,
tua dignitá ad ognun significando.
     Cosi, ministri mei, con diligenza
fate eseguire questa mia intenzione,
che ogn’om intenda ben la sua eccellenza.
     Or odi, Isepe, io sono il Faraone,
ma per l’Egitto mai né piè né mano
moverá alcuno senza tua visione.
     E voglio, acché ’l tuo nome sia piú piano,
che in lingua egizia nostra sii chiamato
Del mondo salvator, nome soprano.
     E vo’ che di moglier sii accompagnato,
che figliola será del sacerdote,
che ’n la terra del Sol tiene il primato.
     Piglia adunque l’imperio e fa’che note
che intendo ’a la tua gloria, e tu il mio regno
d’affanno e fame e carestia riscote.
Ioseph.   Sacratissimo re, so ben che degno
di tal grado non son, né mia bassezza
presume di mirar tant’alto segno.
     La nova elezion de la tua Altezza
degno forsi mi fa, benché non sia:
questa è sol opra de la tua grandezza.
     Prego l’autor di questa monarchia,
ch’io corrisponde a questo tuo concetto
che di me fai, in grazia sua mi dia.

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Non ho poter né lingua né intelletto,

che grazie mai ti possin riferire:
ma il riferirti grazie fia difetto.
Dio ten guardi, e correggo ora il mio dire,
che tua fortuna aspetti mai da alcuno,
che possa a te sue grazie conferire;
ché i benefici toi, come ciascuno
trapassan di grandezza, cosí ancora
non cercali contracambio da veruno.
Ma quel che la mia mente (qual t’adora)
senza alcun dubbio pò, quel ti presenta,
amore e fede, e quanto un omo onora;
e prima fia dal corpo l’alma spenta,
che la mia devozione e mia virtute
non sia a tua gloria e a tuo voler intenta:
cosí l’eterno Iddio prego mi aiute,
e la mia via governi al cammin retto,
sempre con tua vittoria e tua salute.
Darò principio a questo degno effetto:
et or da te, signor, prendo licenza,
per far l’esecuzion di quel c’hai detto.—
Voi ministri e fratelli, che in presenza
non per famigli séte deputati,
ma per consorti di mia diligenza,
nel disegnato mio pretorio andati,
e li quel che bisogna preparando,
fin ch’ io torni (che presto fia) aspettati.
Voi dui qui vi starete riposando,
fin che nel mio secreto, a me converso,
alcuni mei concetti in alto mando. —
Glorioso fattor de l’universo,
se licito è parlarti da un vii vermo
di terra fatto e di peccati asperso,
se licito è a un mortai debile e infermo
levar li occhi lá su verso il tuo trono
terribile, immutabil, forte e fermo,

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     prego, Signor, mi ascolti, io che sono

fumo, polvere, et ombra che son io,
benigno Signor mio clemente e bono.
     Rapito da la patria e padre mio,
sotterra posto e servo rivenduto,
carcerato com’om perverso e rio,
     qual merito, qual culto hai da me avuto,
che t’ho fatt’io, Signor, che in un momento
mostrar la tua pietade m’hai voluto?
     Fòr d’ogni speme, in carcere, in spavento,
dal fondo di miseria m’hai levato,
e posto in alto e fattomi contento.
     Questo, Signor, da tua bontade è nato,
questa è sol’opra di tua santa mano,
questa è tua provvidenza e non è fato.
     Quanto pò un cor mortai fragile e umano,
tanto, Signor, ringrazio tua clemenza,
prostrato in terra, in atto umile e piano.
     Ben prego, o magno Iddio, la tua potenza,
che poi che a tanta altezza m’hai condutto,
infondi il spirto mio di tua sapienza;
     ché me medesmo in prima e da poi tutto
il populo d’Egitto a me commesso
ben io governi e con onore e frutto.
     Dammi grazia d’indur, ti prego appresso,
iustizia, veritá, pace e abundanza
in questo regno, che niun sia oppresso.
     Sopra tutto mi guarda da arroganza
per questa altezza, dammi umilitade
e dammi in l’amor tuo perseveranza.
     Ma prego, oltra di questo, tua pietade,
che il vecchio padre mio, se ancora è vivo,
conservi in pazienza e sanitade.
     In summa, fa’ che di tua grazia privo
non mi trovi giammai, questo dimando:
e i mei fratelli, se ben m’hanno a schivo,
     benigno Signor mio, ti ricomando.

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SCENA VII

Nilotico solo.

     Non so qual piú laudare, o la prudenza

di Ioseph Salvator, nostro prefetto,
oppur la sua benigna provvidenza.
     Quand’io considro che con l’intelletto
elio antivide allor la carestia,
che non ce n’era un minimo sospetto,
     dico che la prudenza sola sia
da ammirare in costui; quando poi vedo
come gli ha provveduto e per qual via,
     allor la provvidenza prima credo
che sia da commendare: e questo il sente
tutto l’Egitto, et io per me il concedo.
     Qual seria stato mai si diligente
come costui, che tanto grano avesse
raccolto in benefício de la gente?
     Nove anni sono a punto che concesse
a lui re Faraon la prefettura
e tutto il regno in le sue man commesse:
     di questi nove, sette ha posto cura
in far munizion tal di frumento,
che render non si pò conto o misura.
     Questi altri dui, che è stato il mancamento
di gran sopra la terra, e lui il disparte,
in modo che ciascun n’ha supplimento;
     e in questo usa tal prudenza et arte,
che cinque altri anni magri e carestiosi,
c’hanno a venir, ne aranno la sua parte.
     Tanto sono i granar diviziosi,
che a gente esterna ancor supplir porranno:
questi omini son pur maravigliosi!

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     Per trar l’Egitto di miseria e affanno

Dio ci mandò questo gentil soccorso,
si come stimo, et ora è giá il nono anno.
     Qualunque a lui per grazia fa ricorso
non torna in vano, et io l’ho ben provato.
Ma voglio andare al destinato corso,
     a far quel che da lui mi è comandato.

SCENA Vili

Iacob, Ruben con li altri fratelli.

Iacob.   Figlioli mei, vedete in quanti affanni

ci tien la carestia, con quanti stenti
per fame abbiam passati giá dui anni!
     Et oltra il danno e li altri mancamenti,
senza dubio ne segue ancor vergogna,
     ché parem poco accorti e negligenti
(et è pur vero, senza dir menzogna),
essendo tutti sani e ben gagliardi,
     a non far provvigion, quando bisogna.
Si vói che abbiamo i debiti riguardi,
e però ognun di voi si metta in ponto,
     perché non siate a quel ch’io dico tardi.
Ho inteso certa nova in questo ponto
che in Egitto è frumento in abundanza,
     e con denar ne vendeno a bon conto.
Procurate d’andar con ogni instanza
voi diece ne l’Egitto a comperarne,
     e con prestezza, senza far piú stanza;
ché meglio è con disagio colá andarne,
che veder voi con me, vecchio meschino,
     per fame, de la vita al fin disfarne.
Con me rimanerá sol Beniamino,
però che ancor d’etade è garzonetto,
     che alcun mal non patisse pel cammino.
P. Collen uccio, Opere -11. 15

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Ruben.   Non solamente è onesto il tuo precetto,

o caro padre, ma ancor necessario,
e da mandarlo subito ad effetto:
     cosí dal tuo parer punto non vario
e il simil dicon questi mei fratelli,
ché alcun non è che sia al tuo dir contrario;
     però senza dir altro, anch’io con elli
il cammin verso Egitto prenderemo
con la moneta e con nostri asinelli.
     D’una sol cosa ben ti pregheremo,
che stii di bona voglia e vivi lieto,
ché sani (io spero in Dio) ritorneremo.
     Ma acciò che noi ne andiam col cor quieto,
la tua benedizione santa e pia
donaci, padre, al modo consueto.
Iacob.   Dio vivo e vero sopra questa mia
mano dal cielo infonda il suo splendore,
e Lui vi benedica e Lui vi dia
     il cammin vostro prospero e favore,
tal che possiate nel vostro ritorno
riportar grazia con guadagno e onore:
     parerá (a me che aspetto) un anno il giorno!
  (partiti che sono li figlioli, Iacob lamentasi solo):
     Oh d’umana miseria instabil stato!
Oh dura dei mortai condizione,
che mai possa posar chi al mondo è nato!
     Mai mancan casi, mai nòve cagione,
mai diversi accidenti, che ci dánno
fatica al corpo e a l’alma passione.
     Non fu mai la mia vita altro che affanno,
da poi che ’n questa luce fui produtto;
mai fui senza lamento e senza danno.
     Or vedi in qual miseria io son condutto:
vecchio, affamato, con si gran famiglia,
dui anni stato son senza alcun frutto.

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     Di’ che a la fame possi poner briglia!

Di’ che col ventre quando tu hai contesa,
vaglin conforti o prieghi o dar consiglia!
     S’io vo’ contra la fame far difesa,
vedi quel mi bisogna sopportare,
oltra quel (che non curo) de la spesa.
     Diece figlioli mi convien mandare
per stran’ paesi et io rimango incerto,
se sani e salvi m’hanno a ritornare.
     Hanno a passar per selve e per diserto,
con fatica e periculo, tra gente
a chi ’l vero è nascosto, il falso è aperto.
     Ogni pensier sinistro ora ho in la mente,
imaginando pur sempre il peggiore,
né posso quanto basti esser prudente;
     ché, come padre, sempre sto in timore
di casi avversi, súbiti, imprevisti,
che dán, se ben non vengono, dolore.
     Questa è legge de’ padri, d’aver misti
con un sol dolce mille amari e avere,
se vivono, molt’anni oscuri e tristi.
     Eterno Padre, il nostro provvedere
è dubio, incerto e fragil, chè non hanno
i miseri mortai possa e sapere.
     Supplisci, o grand’iddio, dove non sanno,
tu drizza il lor cammin, tu li governa,
non per meriti mei, che ciò non danno,
     ma per la tua bontá summa et eterna!

SCENA IX

Iuda, il Peregrino, Asser, Simeone e fratelli.

     lllDA. Dio ti salvi, fratello, e ti dia pace!

Sebben sei carco, ascolta, ti preghiamo:
fermati un poco e dinne, se ’l ti piace.

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     Noi siamo forestieri e veniamo

da paesi lontan per comperare
del grano: dinne dove andar debiamo.
Peregrino.   Al dritto andate senza mai voltare,
ché sopra un tribunal voi vederete
il presidente che vi pò aiutare.
     Lui ’l gran dispensa, e se dinari avete,
perch’è signor benigno, certo io tengo
che vi dará del gran quanto vorrete.
     Anch’io per tal cagione ora ne vengo,
e fui presto espedito e ben trattato:
se volete altro, dite, io mi ritengo.
Iuda.   Non altro giá, fratei; sii ringraziato.
Vattene in pace et abbi pazienza,
se il tuo cammino alquanto abbiam tardato.
Asser.   Colá mi par veder la residenza.
Quel che alto siede, credo sia il prefetto:
par molto grazioso in la presenza.
     Ascoltate, fratelli, ora il mio detto:
Ruben, che è il piú vecchio, abbia a parlare,
e lui per nostro capo qui sia eletto.
     E’ parmi che no’ abbiam tutti a adorare
il presidente, come si conviene,
poi pel nostro bisogno supplicare.
Simeone.   Assér pel mio parere ha detto bene.
Andiam, va’ via, Rubén, ché ’l dá audienza,
e nel parlare il debito stil tiene,
     con ogni umilitade e reverenza.

SCENA X

Ruben, Ioseph, Nabuch.

Ruben.   La patria nostra ha fame e carestia;

però da te, signor, noi qui veniamo
per implorare la tua cortesia.

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     Et in terra prostrati ti adoriamo,

si come a la tua altezza è condecente:
per grazia ascolta quel che dimandiamo.
     Ognun di noi portato ha di presente
alcun dinar per comperar del grano;
che ’l possiam far preghiamo ti contente.
     Padre, mogli, figlioi, di qui lontano,
e gran famiglia abbiam, condutta a morte
per fame, se ’l pregar nostro fia vano.
Ioseph.   Vostra venuta in qua non so che porte.
Voglio saper da voi la veritade,
di qual paese séte e di qual sorte.
Ruben.   Noi siam di Canaan, per povertade
di pan cacciati, acciò che tu ne die
del gran per dinar nostri e per pietade.
Ioseph.   Voi séte esploratori, e séte spie,
che le piú debil parte del paese
volete investigar per queste vie!
Ruben.   Non è cosí, signor nostro cortese:
noi siamo servi toi, che siam venuti
per poter con dinar farci le spese.
     E veniamo, acciò che tu ne aiuti,
e siam gente di pace e siamo nati
tutti d’un padre, e voglio che reputi
     che toi famigli semo, dedicati
sempre a servire, e non per machinare
cosa mal fatta: e questo certo abbiati.
Ioseph.   Anzi séte venuti per spiare
che loco è per l’Egitto mal fornito,
e il tutto a casa vostra po’ avvisare!
Ruben.   Signor, il vero è questo c’hai sentito.
Dodeci servi toi per certo semo,
tutti fratelli e uno n’è smarrito.
     Un altro, ch’è il piú minimo, tenemo
appresso il padre nostro, che in la terra
di Canaán giá vecchio ancora avemo.

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Ioseph.   Il mio iudicio verso voi non erra!

Séte spioni, ma l’esperienza
io ne farò, ché quella il ver disserra.
     Io dico adunque, e giuro qui in presenza,
per la salute del re Faraone,
che non arete del partir licenza,
     fin che ’l fratei, di chi tu fai menzione,
minor di tutti, qui non sia menato,
sol per veder se il vostro dir consone.
     Et un di voi per questo sia mandato,
che qui il conduca; il resto vi starete
ne la prigione, fin ch’el sia tornato.
     Cosi vedrò se il vero detto arete:
e se noi menerá, per la salute
di Faraone, i’ giur’ che spie voi séte.
     Quest’è la mia intenzion senza dispute.
Menateli in prigione e li staranno
finché la mia sentenza non si mute.
Nabuc.   Lassa di questo a noi, signor, l’affanno,
ché in la prigione i metterem si stretti,
che ancor con l’ali giá non fuggiranno,
     né si trarran di li, se noi commetti.

SCENA XI

Ioseph solo.

     Non posso piú le lacrime tenere,

né posso simular mia passione,
che portata l’ho pur piú del dovere.
     La provvidenza tua come dispone
le cose umane, o grande eterno Dio,
con summa sapienza e con ragione!
     Adesso mi rammenta il somnio mio,
che son ventitré anni ch’io sommai,
ch’altri allor non l’intese, né ancor io.

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     Da l’ora in qua ch’io fui venduto, mai

piú intesi di mio padre, e cosí ancora
de’inei fratelli, poi ch’io li lassai.
     Ora ho inteso di tutti ino in un’ora,
e son venuti diece ad adorarmi,
che mi fèn servo: e cosí Dio lavora!
     Io vedo che non san raffigurarmi,
et io conosco che son mei fratelli,
ma non vo’ però ancora palesarmi.
     Voglio ben provvedere che ancor elli
possin presto portar per nutrimento
del grano a casa, acciò che n’abbin quelli
     che con mio padre aspettano in tormento;
ma voglio con cautela ancor vedere
che venga qua per mio contentamento
     11 minimo fratei, qual ebbe a avere
da la mia madre propria il padre mio:
io dico Beniamin, ch’è il mio piacere.
     Allor sará contento il mio desio.

SCENA XII

Ioseph con Nabuch servo.

Ioseph.   Vien qua, Nabuch, attendi a quel ch’io dico:

guarda che pur un punto tu non lassi
di quel ch’ordinerò, se sei mio amico.
     Voglio che quelli ebrei tu li rilassi
e li conduchi a me, fin ch’io li parli,
e tu vien seguitando li soi passi.
     Poi li ho parlato, voglio licenziarli;
ma voglio ritenerne di lor uno,
che Simeon si chiama, e poi lassarli.
     Empi di grano il sacco ben d’ognuno,
e quel denaro che t’arán contato,
rimettilo nel sacco di ciascuno.

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     Fallo in secreto, e fa’ che li sia dato

e vino e pane da mangiar per via:
con questo, io li darò poi commiato.
     Menali adunque a la presenza mia,
ch’io tornerò a sedere in tribunale.
Fa’ che quel che t’ho detto fatto sia,
     si che non vadi cosa alcuna a male.
(Ioseph seguita):
Come ogni cosa il tempo al fin discopre!
     e’ par che questo avvenga per natura,
che asconder non si pò le male opre.
Parlano i mei fratelli a la secura
     tra loro in lingua ebrea, e tengon certo
che non sia intesa sua loquela oscura:
non san ch’io son ebreo, non manco esperto
     di loro in quella lingua, in qual son nato,
e quel che tra lor dicon mi è scoperto.
Ma voglio stare ancor cosí celato,
     ché meglio intenderò sua intenzione.
Ecco che giá ne vengon qua da lato:
voglio che sappin la mia opinione.

SCENA XIII

Ioseph, Iuda, Ruben e Simeone con li altri sette fratelli.

Ioseph.   Udite, cananei, quel che dico io:

ho fatto sopra voi novo proposto,
e questo faccio perché temo Iddio.
     Se voi farete quel ch’io ho disposto,
voi viverete: or state adunque attenti,
perché dal iusto mai non mi discosto.
     Se séte omin di pace, incontinenti
un di voi sia ligato qui in prigione
e li altri a casa tornin coi frumenti.

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     Questo vo’ per ostaggio, ad intenzione

che ’l minimo fratei qua mi menate,
per veder se l’è ver vostro sermone
     qual detto avete, e acché non moriate,
questa mia intenzion voi qua intendete:
con questo patto io vo’ che vi partiate.
Iuda.   Meritamente, se ’l ver dir volete,
questa calamitade ora ne avviene
per quel peccato grande che sapete;
     ché al fratei nostro demmo tante pene,
ch’essendo angustiato, sue preghiere
non ascoltammo. Or con iustizia viene
     questa tribulazion, perché son vere
le iustizie di Dio, qual se ben lente
al venir sono, son però severe.
Ruben.   Non vel diss’io? non vel tenete a mente,
quand’io dicea: — Non fate tal peccato
contra’l pover fanciullo, ch’è innocente—?
     Or di tal colpa Dio si è ricordato:
non mel credeste allora, adesso el vòle
che ’l sangue suo da noi gli sia pagato.
Ioseph.   (Io non posso ascoltar queste parole,
se ben costor non credon ch’io li intenda,
e ricordar tal cose pur mi dòle.
     Par che a guardarli piú il dolor s’accenda;
però sfogarmi voglio qui in disparte
di lacrimar, prima che lor mi renda.)
     Or tirate costui, ch’è qui da parte,
ligatel bene e in career lo menate,
ben custodito con ingegno et arte.
     Voi altri a casa vostra ora ne andate:
il gran che a tórre avete, io ho ordinato
che in Canaan ancor portar possiate.
     lllDA. Signor prefetto, sempre sii laudato!
Noi faremo ogni sforzo d’eseguire
quel che n’ha la tua Altezza comandato.

[p. 234 modifica]
Simeone.   Fratelli mei, voi séte per partire,

et io solo rimango imprigionato,
e a me per tutti voi convien patire.
     Voi sapete, fratei, che anch’io son nato
di quel padre, che voi: me poverello!
prego mi abbiate per ricomandato.
     Io non fu’ a vostre voglie mai ribello:
non vi scordi di me, ma qui menate
Beniamino, il minimo fratello.
     Mio padre da mia parte salutate,
che so ch’el averá per me dolore:
dolci fratelli, non m’abbandonate!
     La mia cara mogliere per mio amore
confortarete piú che voi porrete,
ché questa doglia a lei passerá ’l core.
     I figlioletti mei voi basarete
teneramente, e mia benedizione
(poi che far noi poss’io) voi li darete.
     E se accadesse in questa mia prigione
(come porria avvenir ben facilmente,
per mala cura o per troppa passione)
     ch’io mi morissi, prego vi stia a mente
i mei dolci figlioi, che vostri sono:
non li dimenticate per niente.
     11 cor mi schioppa, poi ch’io v’abbandono:
qui son lassato e piú non posso dire.
Se mai v’offesi, chiedovi perdono.
     Vogliate voi, fratei, per me supplire;
andate in pace e grazia Dio vi done
de l’andar salvi, e presto rivenire.
     In surama abbiate a me compassione!