Commedia (Buti)/Paradiso/Canto I

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Paradiso
Canto primo

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Paradiso - Proemio Paradiso - Canto II

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CANTO   I.



1La gloria di Colui che tutto move,
     Per l’ Universo penetra e risplende
     In una parte più, e meno altrove.
4Nel Ciel che più della sua luce prende,
     Fu’ io, e vidi cose che ridire
     Nè sa, nè può chi di lassù discende;
7Perchè, appressando sè al suo disire,
     Nostro intelletto si profonda tanto,
     Che drieto la memoria non può ire.
10Veramente quant’io del regno santo
     Nella mia mente potei far tesoro,
     Serà ora materia del mio canto.
13O buono Appollo, a l’ultimo lavoro1
     Fammi del tuo valor sì fatto vaso.2
     Come dimanda dar l’amato alloro.3

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16Insino a qui l’un giugo di Parnaso4
     Assai mi fu; ma or con ambedue
     M’è uopo entrar ne l’aringo rimaso.5
19Entra nel petto mio, e spira tue,
     Sì come quando Marsia traesti
     Della vagina delle membra sue.
22O divina virtù, se mi ti presti
     Tanto, che l’ombra del beato regno
     Segnata nel mio capo manifesti,
25Vedra’mi al piè del tuo diletto legno,
     Venire e coronarmi delle foglie,
     Che la materia e tu mi farai degno.
28Sì rade volte, o Padre, se ne coglie,
     Per triunfare o Cesari o poeta,
     (Colpa e vergogna delle umane voglie)
31Che parturir letizia in su la lieta
     Delfica deità dovria la fronda
     Peneia, quando alcun di sè asseta.
34Poca favilla gran fiamma segonda:6
     Forsi di rieto a me con millior voci7
     Si pregherà, perchè Cirra risponda.
37Surge ai mortali da diverse foci
     La lucerna del mondo; ma da quella,
     Che quattro cerchi iunge con tre croci,
40Con miglior corso, e con migliore stella
     Esce coniunta, e la mondana cera
     Più a suo modo tempera e suggella.
43Fatto avea di là mane, e di qua sera8
     Tal foce quasi, e tutto era lì bianco
     Quello emisperio, e l’altra parte nera,

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46Quando Beatrice in sul sinistro fianco
     Viddi rivolta, e ragguardar nel Sole:
     Aquila sì non si li affisse unquanco.9
49E sì come segondo raggio sole10
     Uscir del primo, e risalire ’n suso,
     Pur come peregrin che tornar vole;
52Così dell’atto suo per gli occhi infuso
     Ne l’imagine mia il mio si fece,
     E fissi gli occhi al Sole oltr’al nostro uso.
55Molto è licito là, che qui non lece
     A le nostre virtù, mercè del loco
     Fatto per proprio della umana spece.
58Io nol soffersi molto, nè si poco,
     Ch’io nol vedesse favillar dintorno,
     Come ferro bollente esce del foco.
61E subito mi parve giorno a giorno
     Essere adiunto, come Quei che pote,
     Avesse ’l Ciel d’un altro sole adorno.
64Beatrice tutta nelle eterne rote
     Fissa colli occhi stava, et io in lei
     Le luci fissi di lassù rimote.
67Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
     Qual si fe Glauco nel gustar de l’erba.
     Che ’l fe consorto in mar de li altri dei.11
70Trasumanar significar per verba
     Non si poria; però l’esemplo basti
     A cui l’esperienzia grazia serba.
73S’io era sol di me quel che creasti
     Novellamente, Amor, che il Ciel governi,
     Tu il sai, che col tuo lume mi levasti.

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76Quando la rota, che tu sempiterni
     Desiderato, a sè mi fece atteso
     Coll’armonia che temperi e discerni,
79Parvemi tanto allor del Cielo acceso
     Dalla fiamma del Sol, che pioggia o fiume
     Lago non fece alcun tanto disteso.12
82La novità del sono e ’l grande lume
     Di lor cagion m’acceser un disio
     Mai non sentito di cotanto acume.
85Onde ella, che vedea me sì com’io,
     A quietarmi l’animo commosso,
     Prima ch’a dimandar, la bocca aprio,
88E cominciò: Tu stesso ti fai grosso
     Col falso imaginar, sì che non vedi
     Ciò che vedresti, se l’avessi scosso.
91Tu non sei in terra sì come tu credi:
     Mai fulgure, fuggendo ’l primo sito,13
     Non corse come tu che ad esso riedi.
94S’io fui del primo dubbio disvestito
     Per le sorrise parolette brevi,
     Dentro ad un nuovo più fui irretito,
97E dissi: Già contento requievi14
     Di grande ammirazion; ma ora ammiro
     Com’io trascenda questi corpi levi.
100Ond’ ella, appresso d’ un pio sospiro,15
     Li occhi drizzò ver me con quel sembiante,
     Che madre fa sovra ’l figliuol deliro,

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103E cominciò: Le cose tutte quante
     Ànno ordine tra loro, e questo è forma,
     Che l’Universo a Dio fa similliante.
106Qui veggion l’alte creature l’ orma
     Dell’eterno valor, lo quale è fine,
     Al quale è fatta la toccata norma.
109Nell’ordine ch’io dico, sono incline16
     Tutte nature per diverse sorti,
     Più al principio loro e men vicine;
112Unde si muoveno a diversi porti
     Per lo gran mar dell’essere, e ciascuna
     Con istinto a lei dato che la porti.
115Questi ne porta il foco in ver la Luna;
     Questi ne’ cuor mortali è promotore;
     Questi la terra in sè stringe e aduna.
118Nè pur le creature, che son fuore
     D’intelligenzia, quest’arco saetta;
     Ma quelle ch’ànno intelletto e amore.
121La providenzia, che cotanto assetta,
     Del suo lume fa il Ciel sempre quieto,
     Nel qual si volge quel ch’à maggior fretta;
124Et ora lì, com’a sito decreto,
     Cen porta la virtù di quella corda,
     Che ciò che scrocca drizza in segno lieto.17
127Ver è, che come forma non s’accorda
     Molte fiate alla intenzion dell’arte,
     Perch’a risponder la materia è sorda;
130Così da questo corso si diparte
     Talor la creatura, che à podere
     Di piegar, così pinta, in altra parte;

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133E sì come veder si può cadere
     Foco di nube, se l’impeto primo
     A terra è torto dal falso piacere.18
136Non dei più ammirar, se bene stimo,
     Per tuo sallir, se non come d’un rivo,
     Se d’alto monte scende giuso ad imo.
139Meraviglia serebbe in te, se privo
     D’impedimento giù ti fussi assiso.
     Come a terra quieto il foco vivo.19
142Quinci rivolse in ver lo Cielo il viso.

  1. v. 13. C. M. Apollo
  2. v. 14. C. A. Fa me del
  3. v. 15. C. M. domanda
  4. v. 16. C. M. giogo
  5. v. 18. C. A. intrar
  6. v. 34. C. M. seconda
  7. v. 35. C. M. forse
  8. v. 43. C. M. Fatto aria
  9. v. 48. C. M. C. A. gli si affisse
  10. v. 49. C. M. secondo
  11. v. 69. C. M. con gli altri
  12. v. 81. fece mai tanto
  13. v. 92. C. A. fuggendo al proprio sito,
  14. v. 97. Requievi; perfetto coniugato alla maniera latina, come audivi, givi, peccavi che scontransi nelle antiche scritture. E.
  15. v. 100. C. M. d’ uno pio
  16. v. 109. C. M. C. A. accline — . Accline o incline, dal singolare acclino a inclino, e questo dall’ acclinis latino. E.
  17. v. 126. C. A. scocca
  18. v. 135. C. A. L’atterra torto C. M. tolto
  19. v. 141. Com’etera quieta in foco

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C O M M E N T O


La gloria di Colui ec. Questo è lo primo canto della terza cantica nel quale lo nostro autore propone la sua materia, invoca e narra; e dividesi tutto principalmente in due parti: imperò che prima propone la materia di che dè trattare et invoca l’aiuto divino, et incomincia a narrare lo sallimento suo al cielo della Luna; nella seconda dimostra lo trasformamento suo e l’ammirazione sua e lo solvimento dei dubi che fece Beatrice a lui, et incominciasi quive: Beatrice tutta ec. La prima, che serà la prima lezione, si divide tutta in quattro parti: imperò che prima propone la sua materia, come detto è; nella seconda invoca l’aiuto divino, et incominciasi quive: O buono Appollo, ec.; nella terza incomincia a narrare la sua fizione, et incominciasi quive: Surge ai mortali ec.: nella quarta parte finge l’aumentazione duplicata dello splendore del Sole, et incominciasi quive: E si come segondo ec. Divisa adunque la lezione, ora è da vedere lo testo coll’esposizioni litterali, allegoriche e morali.

C. I — v. 1-12. In questi quattro ternari lo nostro autore propone la materia sua, della quale intende di trattare nel suo poema; cioè della gloria che Iddio concede ai virtuosi uomini eletti da lui, poi che sono purgati dei loro peccati, dicendo così: La gloria: gloria, secondo che dicono li autori, è notizia chiara d’alcuna cosa con loda; ma qui usa l’autore quella figura che si chiama emphasis da’ Grammatici, e da’ Retorici si chiama lo colore denominazione, [p. 23 modifica]ponendo la forma per la materia; cioè la gloria per l’opera gloriosa, come se dicesse l’opera gloriosa; cioè nota e chiara e degna di loda, di Colui che lutto move; cioè di Dio lo quale ogni cosa muove et egli sta immobile, elli è primo motore: imperò che muove li agnioli affare 1 le revoluzioni de’cieli, e l’ esercizi a loro commessi; e li cieli coi loro movimenti cagionano giù nel mondo diversi effetti, dunqua Idio è primo motore e prima cagione di tutte le cagioni stando elli immobile, dunqua non vuole dire altro l’altore 2 se non l’opera della chiara notizia di Dio la quale da ogniuno ene lodata: imperò che in tutta la creatura si cognosce distintamente, et in essa loda lo suo creatore: imperò che in essa riluce la notizia della onnipotenzia sua, della infinita sapienzia e della benivolenzia sua. Onde ne le cose materiali che ànno solo essere, come le pietre, si dimostra Iddio da essere lodato e fassi in esse manifesto: imperò ch’egli è quello che à dato loro l’essere che sono, che è cosa molto buona: non avendolo dato loro, non sarebbono; et in quelle che ànno l’essere e lo vivere, come l’erbe e li albori, più si manifesta e dimostra da lodare: imperò ch’à dato loro maggior dono di sua bontà infinita che a coloro ai quali àe dato solo l’essere; et in quelle che ànno essere, vivere e sentire, come sono li vermi, via più si loda e più si manifesta: imperò che in esse si dimostra maggior dono della sua bontà infinita che in quelle che ànno pure essere e vivere; et in quelle che ànno essere, vivere, sentire et immaginare, come sono li animali bruti, ivi più si dimostra da lodare e più si manifesta la sua infinita bontà: imperò che n’ànno più che quelle che ànno solamente essere, vivere e sentire; et in quelle che ànno essere, vivere, sentire, imaginare e ragionare, come sono li omini, via più si dimostra laudabile e più si manifesta che in quelle che ànno essere, vivere, sentire et imaginare: imperò che ànno più della sua bontà, che quelle che ànno lo ragionare; et in quelle che ànno solo essere formale che ànno lo intelletto, come sono li angnioli 3 che si chiamano intelligenzie, via più lo dimostra laudabile e più lo manifesta che in tutte le cose predette che ànno l’essere loro coniunto di forma con materia, e che le cose che sono pura materia, come li elementi, innanti che avessono forma. Ma questa notizia di Dio non è conceduta se non a li angnioli et a li omini, bench’ella si manifesti in tutta la creatura e ch’ella [p. 24 modifica]dimostri la infinita potenzia, sapienzia e bontà di Dio; le quali cose a niuno si manifestano se non a quelle cose che ànno intelletto, come sono gli angnioli, li omini e li dimoni; e però disse l’autore: Per l’ Universo; cioè per tutta la creatura che si chiama universo, perch’ella è una cosa variata in più modi, e però universo viene a dire uno verso in più spezie: la materia è una 4 variata in più spezie per apprensione di nuove forme: li Filosofi distinseno ongni 5 cosa in tre spezie, dicendo che ciò che è o è pura forma come Iddio e li angnioli e l’anime umane; ma Iddio è forma delle forme; o è pura materia come fu lo caos; cioè la produzione indistinta et indivisa 6 delli elementi; o è materia con forma come sono le cose elementate. E tra le cose elementate sono sei gradi, l’uno più nobile che l’altro e continente sotto sè e comprendente l’altro; cioè lo intendere che è lo superiore; cioè lo sesto comprende lo ragionare che è lo quinto, e lo ragionare lo imaginare 7 che è lo quarto, e lo imaginare lo sentire che è lo terzo, e lo sentire lo vivere che è lo sesto 8 e lo vivere l’essere che è lo primo; ma quel di sotto non apprende di quel di sopra, e per queste sei differenzie di cose, come mostrato è di sopra, si cognosce la ineffabile opera d’Iddio chiara e laudabile da ongni creatura, penetra; cioè passa dentro come nelle cose che sono sola materia, ne le quali sta appiattata dentro per l’essere che ànno, conservandole in essere e facendole venire in varie forme quando vuole; et anco si può intendere, penetra; passa dentro in fino al centro della terra dov’ è lo inferno: imperò che quine è la gloriosa opera sua per iustizia, mantenendo in loro la iustizia che punisce ciascheduno, secondo lo suo demerito, quine è la gloriosa opera di Iddio per misericordia, mantenendo li demoni e l’anime dannate in essere che meriterebbono d’essere annichilate, e risplende; cioè appare di fuori, come nelle cose che sono pura forma, più che nelle cose che sono forma con materia, et in quelle che sono materia con forma più che in quelle che fussono pura materia, et anco di queste che sono forma con materia più nelle cose animate che nelle inanimate, et anco tra l’animate più nell’animate d’anima ragionevole che nell’animate d’altra anima, e meno altrove; cioè risplende la gloria d’Iddio, come dimostrato è, perchè meno si manifesta in essa la bontà d’Iddio. Nel Ciel; cioè empireo lo quale è pura luce e amore, come dirà presso al fine di questo poema; e però dice, che; cioè lo quale, più della sua luce prende; cioè piglia: Iddio è vera luce che illumina ogni cosa, e quello cielo à fatto di pura [p. 25 modifica]luce, e però ne piglia più che li altri che sono di luce adiunta a la materia, Fu’ io; cioè fu’ io Dante, e questo si dè intendere ch’elli vi fu intellettualmente; ma non corporalmente; ma finge secondo la lettera ch’elli vi fusse corporalmente: imperò che secondo la figura del Grammatico; cioè sinedoche e lo colore del Rettorico intellezione, lo tutto si può ponere per la parte e quel che è della parte dare al tutto. e vidi cose; cioè io Dante, che; cioè le quali, ridire; cioè raccontare a li altri, Nè sa, nè può chi di lassù discende; questo dice, per accordarsi col detto di san Paolo che dice: Et vidi arcana Dei, quae non licet homini loqui; e rende la cagione quando dice, Perchè; cioè imperò che, appressando; cioè approssimando, Nostro intelletto sè; cioè sè medesimo, al suo disire; cioè al suo desiderio che è lo sommo bene; cioè esso Iddio, si profonda tanto; cioè entra tanto a dentro, Che la memoria non può ire drieto; cioè nello intelletto; nelle quali parole pone questa sentenzia che, quando lo intelletto umano viene al fine desiderato, si mette tanto a dentro in esso che la memoria non può ire tanto a dentro, e così non se ne può arricordare. Veramente quant’ io; cioè quanto io Dante, potei far tesoro del regno santo; cioè del paradiso, Nella mia mente; cioè nella mia memoria, Serà ora materia del mio canto; cioè tanto ne dirò in questa mia cantica, quanto i’ò potuto riponere nella mia memoria; e fatta la proposta della materia, seguita la invocazione.

C. I — v. 13-36. In questi otto ternari, posta di sopra la proposizione della materia, lo nostro autore fa la sua invocazione, et a modo poetico invoca Appolline lo quale fu esercitatore della poesi, secondo che dice Orazio nel primo libro che si chiama Poetria: Ne forte pudori Sit tibi Musa lyrae solers, et cantor Apollo. E benchè secondo la lettera invochi Appolline; secondo l’allegoria invoca Iddio: imperò che li Poeti, invocando le grazie e le virtù, le invocano sotto vari nomi, e fingono che quelli siano iddii; ma elli intendono che sia uno Iddio quello, da cui vengnano tutte le grazie; ma chiamallo 9 sotto diversi nomi, secondo che dimandano la grazia a diversi effetti. Et imperò che l’autore abisognava della grazia d’Iddio a compiere questo suo poema, però chiama Appolline che figura la grazia della poesi, e però dice: O buono Appollo; questo secondo Appollo, secondo la poesi, fu figliuolo di Iove, secondo figliuolo di Cielo 10 lo quale ebbe di Latona insieme d’uno parto e Diana: fu un altro Appollo primo, figliuolo di Vulcano e di Minerva. Li Poeti ànno [p. 26 modifica]confusi questi nomi e posto alcuna volta l’uno per l’altro, e posto ancora che ’l Sole, Febo, et Appollo sia uno medesimo, benchè nella geneologia delli iddii si trovino essere stati diversi uomini. Questo Appollo alcuna volta li Poeti presono per lo dio della sapienzia, alcuna volta per lo dio della medicina, alcuna volta per lo dio della divinazione, et alcuna volta per lo Sole. Ora lo nostro autore lo invoca come Iddio della sapienzia, e per lui intese lo Verbo Divino ch’è sapienzia del Padre, e però si dè intendere: O buono Appollo; cioè o vera sapienzia d’Iddio Padre, che se’ lo suo figliuolo, a l’ultimo lavoro; cioè a l’ultima parte del mio poema, cioè alla terza cantica della mia comedia, che è la mia fatica e la mia opera, Fammi sì fatto vaso; cioè fa me sì fatto recettaculo, del tuo valor; cioè della tua grazia, Come dimanda dar l’amato alloro; cioè come digno è che si dia a chi ama l’allorio: l’allorio è arbaro che sempre sta colle follie, et è sempre virente, et è consecrato ad Appolline: imperò che la sapienzia sempre è verzicante, e però si coronano li Poeti di corona d’allorio in segno che la loro scienzia e la loro fama sempre dè essere virente, et anticamente si coronavano d’ellera per la predetta cagione; e però chi ama l’allorio; cioè di essere coronato d’allorio, ama la poesi, e chi ama la poesi conviene che abbia de la sapienzia che è dono di Iddio. Insino a qui; cioè insino a questa terza cantica, l’un giugo di Parnaso; cioè Citeron, ve s’onorava Baco che era lo dio della pratica, et eravi la cita chiamata Nisa, e giù al bosco e a la fonte lo tempio consecrato a Baco, e la città dove era lo studio delle scienzie pratiche, Assai mi fu; cioè a me Dante. Dice l’autore che in fine a questa cantica li è vastato lo studio delle scienzie pratiche a trattare de la materia della prima cantica e della seconda; cioè delle virtù politiche e morali co le quali l’uomo si cessa dal peccato, e va alle virtù purgatorie colle quali si sodisfa a la colpa; e così si viene a lo stato della innocenzia, ve sono le virtù dell’ animo purgato; cioè contemplative a le quali è bisogno la teorica e la pratica: imperò che non bastarebbe pur la pratica; e però ben dice ora: ma or; cioè in questa terza cantica, con ambedue, cioè iughi di Parnaso; cioè Citeron et Elicon, M’è uopo; cioè m’è bisogno a me Dante, entrar ne l’ aringo rimaso: aringo è lo spazio da correre; ma qui si pone per la materia che à a trattare l’autore; cioè la gloria dei beati, quasi dica: Infino a qui abbo trattato la mia materia co le scienzie pratiche; ma da quici inanti m’è mestieri d’usare e le pratiche e le teoriche: imperò che sono cose contemplative et anco attive. Del monte Parnaso e dei suoi iughi e delli studi che sono in esso è stato detto nella cantica seconda, canto xxxi; e niente di meno, perchè di sopra abbiamo detto di Citeron che è uno de’suoi iughi, [p. 27 modifica]diremo anco dell’altro; cioè Elicon, in sul quale è una città chiamata Cirra nella quale si onorava Appollo, et era in essa lo studio delle scenzie contemplative, e però si diceva quello colle consecrato ad Appolline, et anco alla fonte era lo tempio d’Appolline come quello di Baco; e però dice l’autore che ora li è bisogno l’uno e l’altro iugo, intendendo come detto è. Entra nel petto mio; cioè tu, Appollo, dice Dante, e spira tue; cioè soffia nella mia mente e nel mio intelletto tu, Appollo: spirare è occultamente mettere nell’animo; la quale cosa è propria d’Iddio: nessuno può mettere nell’animo occultamente lo buon pensieri, se non Iddio; et adiunge una similitudine; cioè: Sì come; cioè per sì fatto modo come facesti, quando Marsia traesti; cioè quando cavasti quello uomo che ebbe nome Marzia, Della vagina; questo è vocabulo di Grammatica e viene a dire guaina, cioè del buchio 11 suo; e però dice: delle membra sue; lo buchio e la pelle è la guaina delle membra. Qui lo nostro autore tocca la fizione poetica, posta da Ovidio, Metamorfosi libro vi, dicente che Marsia fu uno de’ Satiri lo quale aveva la coda a modo di becco e trovata la ceramella che Pallade avea gittato via, perchè quando la sonò nel convito de l’idii, l’idii incominciorno 12 a ridere, vedendo Pallade gonfiare le gote sonando la ceramella; la qual cosa era vituperabile a Pallade che era iddia della sapienzia; per la qual cosa ella sonando alla palude Tritone, e specchiandosi nell’acqua mentre che sonava vide la sua deformità, et allora la gittò via. Unde Marsia trovatala, la incominciò a sonare; e dilettandosi del suono, incominciòsi a gloriare dicendo ch’elli sonava mellio che Appolline che era maestro del suono della citera, unde Appollo venne a contenzione con lui, ne la quale contenzione Midia re di Frigia, eletto auditore et iudicatore, favoreggiò a Marsia, per la qual cosa Appollo li fece nascere li orecchi de l’asino; ma Pallade e Tinolo, eletti ancora auditori et iudicatori, diedono la sentenzia che Marsia nel suono era vinto da Appolline, unde Appolline lo fece scorticare secondo che era stato ingaggiato, et allora Marsia tanto pianse che diventò fiume. Questa fizione significa che quando lo stolto, significato per Marsia, contende col savio, significato per Appolline, elli è vinto da lui e fa nota la sua stoltia, et elli scorre come fiume co la sua stoltia; ma lo nostro autore, arrecando questo a commendazione della sapienzia, dice che Appolline inspirando suoni nel petto suo, come sonò quando ebbe vittoria di Marsia sicchè lo spolliò del cuoio, la qual cosa arrecando al Verbo Incarnato che è la vera sapienzia si può dire: Entra nel petto mio et inspira [p. 28 modifica]sante e buone inspirazioni sì, come tu ài inspirato quando tu ài cavato Marsia; cioè lo stolto peccatore, che ogni peccatore si può dire stolto della sua stoltia e del suo peccato, nel quale s’era involuto come le membra nella pelle, e per le lagrime della contrizione àilo fatto fiume; cioè che l’ài fatto abondare della tua grazia sì, ch’è stato sofficente a mondare e nettare li altri peccatori colla sua dottrina. O divina virtù; ecco che dichiara quello ch’elli à inteso che dimandi Appolline, quando dice: O divina virtù; cioè io dimando da te, Iddio, la tua virtù; cioè la tua grazia illuminante, cooperante e consumante di te Iddio, se mi ti presti; cioè se tu mi ti concedi, Tanto; cioè in tanta quantità, che l’ombra; cioè l’imaginazione che io m’ò fatto nella mia fantasia, del beato regno; cioè della beatitudine celestiale, Segnata; cioè figurata et immaginata, nel mio capo: nel capo sta l’apprensiva et imaginativa, manifesti; cioè sappi e possa manifestare, come io l’ò imaginata, Vedrà’mi; cioè tu, divina virtù, al piè del tuo diletto legno; cioè dell’alorio detto di sopra, secondo la lettera, Venire; cioè me Dante, e coronarmi delle foglie; cioè coronare me Dante, siccome poeta, delle follie dell’ alorio, come si solliano coronare li altri poeti, in sengno che la fama del poeta sempre è virente come l’allorio, Che; cioè delle quali, tu; cioè divina virtù, senza la quale nessuna buona opera si può fare, e la materia; della quale io tratterò, mi farai degno: imperò che per li poemati composti da’ poeti sono iudicati li poeti dengni dell’onore della poesi, lo quale è significato per l’aiorio. E per questo dà ad intendere ch’elli serà coronato poeta in fama per questa opera; cioè serà reputato poeta, benchè attualmente non pigliasse mai laurea, e questo è secondo la lettera; ma allegoricamente si può sponere: Tu mi vedrai venire a piè del legno de l’obedienzia e coronarmi delle follie sue; cioè delle sue spezie di virtù delle quali tu, Iddio, e la materia 13 che serà della beatitudine celeste, mi farai degno, o Padre; cioè Appollo, secondo la lettera; ma allegoricamente, cioè Iddio, Sì rade volte, se ne coglie; cioè delle follie dell’alorio, secondo la lettera; e delle virtù, secondo l’allegoria, le quali danno vero triunfo, Per triunfare; cioè per fare lo triunfo, o Cesari; cioè ad alcuno imperadore, o poeta; cioè ad alcuno poeta, secondo la lettera e l’allegoria si può intendere d’ogni uomo santo, (Colpa e vergogna; questo viene appositive a quello che è detto, cioè la qual cosa, cioè che rade volte se ne collia delle dette fronde 14, è colpa e vergogna, delle umane voglie; cioè delle umane voluntadi che sono intente alle cose mondane, e none alle virtù) Che parturir letizia dovria; che ben dovrebbe generare letizia, in su la lieta [p. 29 modifica]Delfica Deità; cioè in sulla lieta deità d’Appolline che è adorato in Delfo, secondo la lettera; ma secondo l’allegoria, in Cielo nella corte divina dovrebbe essere letizia, e così è quando uno peccatore torna a penitenzia; ma altramente si può intendere e mellio, cioè che ognuno si dovrebbe rallegrare in Dio quando vede alcuno diventare disideroso de la virtù, e renderne grazie a Dio, quando la fronda Penea; cioè la fronde dell’ alorio; e dice peneia che fu Danne figliuola di Peneo fiume di Grecia, amata da Febo mutata in allorio, come scrive Ovidio, Metamorfosi libro primo, alcun di sè asseta; cioè rende assetato e desideroso di sè alcuno uomo; e secondo l’allegoria, quando la virtù fa alcuno desideroso di sè. Poca favilla gran fiamma segonda; ecco che usa lo colore significazione, per similitudine dicendo che, come da piccola favilla nasce spesse volte uno grande fuoco et una grande fiamma; così dal mio piccolo ingegno nascerà e genererassi uno grande lume e splendore di fama, la qual cosa fia incitamento alli altri di fare mellio di me, vedendo me tanta fama avere acquistato; e però dice: Forsi di rieto a me; cioè di po’ me Dante; cioè ne l’età de’ miei posteri, con millior voci, che non è stata la mia, s’intende, Si pregherà, cioè Appolline per la grazia sua, e però dice, perchè; cioè acciò che, Cirra; come detto è di sopra nella seconda cantica, è una città in su uno dei du’ colli di Parnaso che si chiama Elicon nella quale è onorato Appollo, e giù nel bosco è lo suo tempio; ma qui si pone lo luogo per lo locato; cioè Appollo che è in Cirra, risponda; cioè favoreggi le loro preghiere, e li loro desidèri, sì che io sarò cagione esemplare agli altri che nella poesi s’affatichino e dimandino l’ aiuto d’Appolline et abbianlo pienamente da lui, secondo la lettera; secondo l’allegoria si dè arrecare a la virtù et a Dio, quasi dica: Per esempio di me molti si daranno più fermamente di me alle virtù, et aranno maggiore grado di virtù e saranno più esauditi, et aranno maggior merito in vita eterna. Seguita ora lo principio della narrazione.

C. I — v. 37-48. In questi quattro ternari l’autor nostro finge che era da mattina quando si leva lo Sole, quando si trovò con Beatrice per montare suso al primo cielo; cioè al cerchio della Luna, et incomincia la sua narrazione de la materia, incominciando dalla descrizione del tempo, dicendo così: Surge; cioè levasi, ai mortali; cioè a li omini, che tutti sono mortali mentre che viveno nel mondo, da diverse foci; cioè da diversi luoghi e siti ne la parte orientale: imperò che ’l Sole va ogni di’ uno grado del cerchio del zodiaco sotto lo quale fa lo corso suo, non partendosi mai dalla linea elittica che è nel mezzo del zodiaco lo quale è ampio gradi 12, sì che la linea detta è in mezzo di questi gradi, e la lunghezza del secondo zodiaco sono gradi 360. Dunqua 180 mutamenti fa lo Sole [p. 30 modifica]l’anno nell’oriente al suo levare, quando monta dal paralello antartico all’artico, e quando descende dall’artico all’antartico che questo è lo corso suo; unde quando entra in Cancro fa lo suo levare più alto che possa fare, siccome à fatto lo di’ che è scito di Gemini: imperò che quine è lo Tropico estivale, e poi scende a farlo più giù uno grado lo secondo di’, siccome fece lo penultimo di’ che uscitte di Gemini, e così poi per ordine discendendo come àe fatto montando, intanto che previene 15 all’Equatore quando è l’equinozio autunnale quando sono pari li di’ colle notti et esce di Vergine et intra in Libra, e così sempre dilungandosi da esso in fine che viene a l’ultimo grado di Sagittario et al primo di Capricorno, dove è lo Tropico iemale, et allora fa lo suo levare più basso che possa fare e così à fatto lo suo levamento in 180 luogi 16 diversi, e poi incomincia a ritornare in su per li altri dodici segni infino che ritorna a Cancro e fa li suoi levamenti nei luoghi ch’elli à fatto descendendo in giuso, e così ritorna all’Equatore escendo di Pisces et entrando in Ariete dov’è l’equinozio vernale che le notti si pareggiono 17 ai di’, e quindi ritorna montando al Tropico estivale. E perchè ’l Sole quando esce di Vergine et entra in Libra, fa lo corso suo allato all’Equatore come quando esce di Pisces et entra in Ariete; e perchè in quelli due luogi ne’ quali lo zodiaco tocca lo Equatore sono iiii cerchi, trovantisi insieme in uno punto in due luoghi; cioè all’equinozio vernale e autunnale, avviene che in quelli due luoghi sono quattro cerchi coniunti che fanno tre croci; cioè orizzonte obliquo, coluro, equatore e zodiaco. Le croci, che fanno, sono queste: coluro si corica sopra l’orizzonte obliquo, l’equatore sopra lo coluro, e lo zodiaco sopra l’equatore, e così sono tre croci e quattro cierchi e questo si vede nella spera materiale. E per dare ad intendere di qual nascimento di questi intendea, lo dichiara per le parole seguenti: imperò che chi ben ragguarda vede che la foce, che è allato all’Equatore, può essere quando lo Sole è all’uscita di Pisces et a l’entrata d’Aries; e così per opposito può essere quando esce di Vergine et entra in Libra, e così si potrebbe intendere di queste due foci; cioè l’una quando entra in Ariete, e l’altra quando entra in Libra. Ma perchè s’intenda pur di quella, che è quando lo Sole entra in Ariete, però adiunge le parole che seguitano: La lucerna del mondo; cioè lo Sole lo quale illumina tutto lo mondo, e però lo chiama l’autore, lucerna del mondo; ma dice, coniunta: imperò che vene alcuno tempo dell’anno inanti al nascimento del Sole et allora si chiama Lucifero, et alcuna volta va dopo lo Sole et allora si [p. 31 modifica]chiama Esperius, et alcuna volta va coniunta con Sole, secondo lo sito del suo epiciclo nel quale ella fa lo suo giro, e però dice coniunta: imperò che allora non va inanti, nè seguita; ma nasce insieme col Sole, e però dice l’Astrolago18 che li pianeti che ànno epiciclo alcuna volta sono retrogradi, alcuna volta progressivi, et alcuna volta stazionari. Allora è stazionario lo pianeto, perchè mellio fa a noi allora Venus: imperò che l’è nel montamento, e così è anco quando lo Sole entra in Libra; ma migliore stella si dice Venus quando è Lucifer, che quando è Esperus. Surge ai mortali; cioè a l’omini spezialmente, perchè Iddio per cagione de li omini fece ogni cosa, da diverse foci; cioè da 15019, come detto è, o non 180 come dice lo computo, ma da quella; cioè foce esce alcuno tempo dell’anno, cioè di mazzo20 la Luna del mondo, cioè lo Sole, Che; cioè la foce coniunta, Con miglior corso; questo dichiara ch’elli intendesse che ’l Sole era allora in Ariete, nel quale quando lo Sole è, esce con miglior corso: imperò che ascendente esce allora producibile di tutti i frutti terrestri; la qual cosa non è quando lo Sole esce di Virgine et entra in Libra: imperò che allora è descendente e finitivo di tutti, Esce coniunta con migliore stella; cioè che allora la stella Diana esce dell’oriente coniunta con lo Sole; la quale Venere è migliore a dare influenzia giù nel mondo d’amore, di dolcezza e benignità che tutte l’altre, e la mondana cera; questo imprende21 la natura creata del mondo, che è fatta come cera a ricevere la influenzia del cielo, come la cera la impressione del suggello, Più a suo modo; dice della lucerna del mondo, cioè del tempo della primavera quando la natura è disposta a generare e ricevere la influenzia del Sole, tempera; sì che non risista co la disproporzione, e suggella; cioè mettevi la sua impressione più a suo modo che non fa nelli altri tempi. Tal foce quasi; questa dizione quasi è posta per mancare, e vuole dare ad intendere che non era a punto quando lo Sole entra in Ariete; ma un poco più oltra, Fatto avea di là; cioè in quello emisperio, dove io fui con Beatrice, mane; cioè mattina, e di qua; cioè nel nostro emisperio, sera: imperò che, quando è di’ da l’altro emisperio, è notte dal22 nostro, e tutto era lì; cioè in quel luogo di verso l’oriente23 di quello emisperio, Quell’emisperio; cioè quello emisperio era fatto di là, bianco; in verso l’oriente suo, e l’altra parte; cioè del detto emisperio altro che ne l’oriente, nera; cioè era fatta in quel tempo, cioè, Quando Beatrice; cioè la santa [p. 32 modifica]Teologia, in sul sinistro fianco; ben dice in sul sinistro fianco: imperò che a chi sta nell’altro emisperio verso l’oriente volto, la spera del Sole li viene da sinistra, come a noi nel nostro emisperio da destra. Viddi rivolta; cioè io Dante, e ragguardar nel Sole; cioè coi suoi occhi che sono partiti 24 da quello splendore, Aquila sì non si li affisse unquanco; cioè non mai si fermò per sì fatto modo l’aquila co gli occhi suoi, che sono potenti di recevere lo splendore del Sole, come 25 si fermò Beatrice al Sole; et è qui quello colore che si chiama imago. Questo è secondo la lettera: secondo l’allegoria è ch’ella s’affisse a ragguardare lo Sole di vita eterna, per mostrarlo a l’autore e ai suoi lettori: molto si fermano li Teologi nella luce divina, per poterla comprendere quanto licito è.

C. I — v. 49-63. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come, seguitando lo sguardo di Beatrice, elli defisse li occhi nella rota del Sole e vidde due Soli, dicendo così: E sì come; qui una similitudine fa, et è colore che si chiama similitudo; cioè come lo raggio si riflette da luogo dove percuote in su unde esce; così l’atto fisso di Beatrice di ragguardare lo Sole fisamente intrò nella mia imaginazione e fece me disponere similmente a defigere li miei occhi nel Sole come faceva ella; e però dice: E sì come segondo raggio sole Uscir del primo; cioè raggio diflettendosi in su; e però dice, e risalire ’n suso; unde è disceso, Pur come peregrin; ecco che fa un’altra similitudine: lo peregrin che à desiderio di ritornare alla sua patria sempre va e non sta contento in fin che non è tornato alla patria sua; così lo raggio solare che descende giuso, perchè la natura sua è di stare in alto, come è giunto a luogo che non può passare si riflette in su per tornare al sito suo, così, come peregrin; cioè come straniero, che tornar vole; alla patria sua, Così; che adatta la similitudine, si fece il mio; cioè l’atto di me Dante, del suo atto; cioè di Beatrice, per gli occhi infuso: cioè messo per li occhi miei, Ne l’imagine mia; cioè dentro nella mia imaginazione; cioè come io viddi fare a lei, cioè a Beatrice, cioè guardare fisamente co li occhi suoi il Sole; così imaginai di fare io, e questo è secondo la lettera; ma secondo l’allegoria intende che, ragguardando collo intelletto suo quando studiava la Teologia, quanto li Teologi 26 fisamente miseno li occhi dello intelletto e della ragione sua in Dio che è vero Sole, venne a lui imaginazione di fare lo simile, come noi quando veggiamo colli occhi corporali fare alcuno atto che ci piaccia c’ingegniamo di fare quel medesimo; e però adiunge: E fissi 27; cioè fermai io Dante, gli occhi; cioè corporali, secondo la lettera; ma [p. 33 modifica]mentali, secondo l’allegoria, al Sole: materiale secondo la lettera; ma a Dio che è vero Sole, secondo l’allegoria, oltr’ al nostro uso; cioè oltre all’uso di noi uomini, lo vedere dei quali è terminato sì che non si può estendere oltra li suoi termini, se non è colla grazia di Dio. Alcuna volta Iddio concede grazia a l’ omo di vedere delle cose sue più che non è conceduto a l’umana natura; et ora usa la figura antipofora, e tollie del dubio che altri potrebbe muovere; cioè come potessi ragguardare lo Sole che nessuno lo può ragguardare che non acciechi. Risponde: Molto è licito là; cioè in quella altezza nella quale io era: imperò che io era nel paradiso terresto che è in sulla cima del monte del purgatorio, secondo la lettera; ma secondo l’allegoria era inalzato già con la mente venuta già a lo stato della innocenzia a considerare la beatitudine di vita eterna, e però ben dice che molto è licito a coloro che sono in sì fatto stato, che non è licito a coloro che non vi sono, e però dice, che; cioè lo quale, molto qui; cioè in questo mondo; e dèsi avere rispetto che l’autore disse qui; dimostrando questo mondo dove noi siamo, dove elli scrisse quello che finge di là aver veduto, e però s’intende secondo la lettera che, qui; dove io ti scrivo quello ch’io viddi, non lece; cioè non è licito; e secondo l’allegoria che non è licito a chi è peccatore e vizioso: molte grandi cose d’Iddio veggiono li santi che non le possono vedere li peccatori, A le nostre virtù; corporali, secondo la lettera; alle nostre virtù mentali, secondo l’allegoria, mercè del loco; cioè per grazia del luogo, cioè di paradiso terrestro, Fatto per proprio; cioè luogo, della umana spece; Iddio fece quel luogo spezialmente alla natura umana, acciò che quine abitasse a tempo in stato d’innocenzia, e poi quando fosse piaciuto a Dio l’arebbe tramutato quinde alla sua beatitudine. E secondo l’allegoria si può dire che per grazia dello stato della innocenzia, che Iddio propriamente ordinò a l’uomo e non alli altri animali, molte cose li sono licite quando si conserva in sì fatto stato, che non sono licite a chi non v’è. Io; dice Dante, nol soffersi molto; cioè molto tempo non sostenni di ragguardare lo Sole, nè sì poco; cioè ancora non sostenni di raguardarlo sì poco, Ch’io nol vedesse favillar dintorno; cioè lo Sole nella sua rotondità viddi gittare raggi d’intorno e scintillare, come scintilla lo ferro rovente quando è battuto dal fabro col martello, Come ferro bollente esce del foco; sfavillando. Secondo la lettera non può molto l’occhio umano sostenere la ruota del Sole e se punto la pate, parli vedere ch’ella giri e che gitti fiaccule d’intorno, e così dice che parve a lui; ma secondo l’allegoria dice che non può lo intelletto umano sostenere a defigersi nella meditazione delle cose divine, e se vi si mette e duri un poco vede favillare la sua grande luce; cioè vede dimostrarsi delle sue [p. 34 modifica]veritadi molte faville, cioè molte revelazioni e colorazioni che riluceno nello intelletto come la favilla a l’occhio corporale. E subito mi parve; cioè a me Dante, giorno Essere adiunto a giorno; cioè essere duplicato lo splendore del di’, come Quei che pote; cioè come Iddio che può, Avesse ’l Ciel d’un altro sole adorno; cioè come se Iddio avesse adornato lo cielo d’un altro sole, oltra a quello che v’era; et è quello colore, che si chiama similitudo. E per questo vuole l’autore dare ad intendere ch’elli era già incominciato a levare suso in alto; e benchè nel testo non l’abbia detto, noi dobbiamo considerare che lo nostro autore finge che come lo Sole venne et apparitte nell’oriente, elli incominciò a levarsi del paradiso terrestro dove stette tanto che passò lo di’, del quale à fatto menzione nell’ultimo canto della seconda cantica, quando dice: E più corrusco, e con più lenti passi Teneva ’l Sole il cerchio del merigge, Che qua e là, come la spera, fassi. E per quello che à detto in questo primo canto della terza cantica dove àe descritto lo nascimento del Sole, anco vi stette la notte, e poi venendo l’orto del Sole incominciò a sallire. E per questo dà ad intendere che quando venne la grazia di Dio illuminante, elli s’incominciò a levare e diventò splendido come ’l Sole, e però ora quando dice che li parve vedere lo Cielo adorno di due Soli, vuole che s’intenda che dal Sole che significa la grazia illuminante d’iddio elli fu sì illuminato, ch’elli fu fatto splendiente come lo Sole, secondo che dice la Santa Scrittura: Fulgebunt iusti tanquam sol; e però à elli detto che li parve giorno essere adiunto a giorno, come se Iddio avesse fatto due soli. E qui finisce la prima lezione del primo canto, seguita la seconda.

Beatrice tutta ec. Questa è la seconda lezione del canto primo nella quale l’autore nostro, continuando la sua narrazione, finge com’elli trasmutato de la sua condizione prima in condizione purissima sì, che come beatificato e glorioso montava suso col corpo con agevilezza senza impedimento, si meraviglia; e senza dimandare Beatrice della cagione, ella accorgendosi del suo meravigliare vedendo lo suo pensieri li risponde dichiarando come questo sia. E dividesi questa lezione in parti sette: imperò che prima finge com’elli si sentitte trasmutato; nella seconda finge come li venne disiderio di sapere che era lo suono che sentia, e lo lume ch’elli vedeva, che prima noll’aveva sentito nè veduto, et incominciasi quine: S’io era sol di me ec.; nella terza finge come Beatrice lo dichiarò del suo dubbio, et incominciasi quine: Ond’ella ec.; nella quarta finge come elli intrò per quella dichiaragione in un altro dubbio, e come ne dimandò Beatrice, e Beatrice lo incominciò a dichiarare ancora, et incominciasi quine: S’io fui del primo ec.; nella quinta finge com’ella seguita la detta dichiaragione seconda [p. 35 modifica]incominciata di sopra, et incominciasi quine: Nell’ordine ec.: nella sesta parte deduce lo detto generale a suo proposito, et incominciasi quine: Et ora lì ec.; nella settima et ultima conferma la sua dichiaragione, conchiudendo con esemplo, o vero similitudine contraria, et incominciasi quine: Non dei più ec. Divisa la lezione, ora è da vedere l’esposizione litterale, allegorica o vero morale col suo testo.

C. I — v. 64-72. In questi tre ternari lo nostro autore finge com’elli si sentì trasmutato, dicendo: Beatrice tutta: imperò che non intendeva ad altro, però dice tutta, nell’eterne rote; cioè de’cieli li quali rotano sempre, e roteranno e gireranno quanto a Dio piacerà; e puossi dire che eterne si pongna impropriamente in questa parte; cioè sempiterne, Fissa; cioè fermata, colli occhi; cioè suoi, stava: li occhi de Beatrice sono li occhi de’ Teologi che l’ànno composta, e li occhi sono l’intelletti allegorici e litterali, li quali stanno tutti fermati nelle cose celesti, e massimamente in quella parte che allora studiava Dante, et io; cioè Dante, fissi; cioè fermai, in lei; cioè in Beatrice, Le luci; cioè de li occhi miei, rimote di lassù; cioè levate dal ragguardamento dei cieli. E per questo vuole dire ch’elli levò lo ragguardamento della mente dai cieli et arrecollo alla santa Teologia; cioè in quella parte dove è, nella città delle cose celesti, fermai la ragione e lo intelletto. Nel suo aspetto; cioè di Beatrice, cioè studiandola e contemplandola in quella parte ove ella tratta delle cose celesti: anco Dante, secondo che infinge, non si era accorto ch’elli fusse trasumanato, ben ch’elli avesse veduto duplicare lo splendore del Sole, e di ciò si fusse accorto; ma ragguardando nella santa Teologia fisamente colla ragione e collo intelletto, vedendosi intendere quelle cose che innanzi che fusse in sì fatto stato non intendea, s’accorse che era trasumanato quanto a l’anima sì, come si dè intendere secondo l’allegorico intelletto e sì come dimostra lo testo; ma secondo la lettera, per farla verisimile, finge anco secondo lo corpo, tal dentro mi fei; cioè io Dante ne l’anima mia; ecco che dimostra che fu mentale, Qual si fe Glauco; cioè quello pescatore, nel gustar de l’erba; cioè nell’assaggiare e mangiar l’erba, Che ’l; cioè la quale erba lui, fe consorto in mar de li altri dei: imperò che diventò pescio marino et iddio marino. Narra Ovidio, libro xiii Metamorfosi, che Glauco pescatore, figliuolo d’Antedone: con ciò sia cosa che avesse preso bellissimi pesci e volessili portare alla città, riposandosi un poco in fine che le reti asciugasseno, li puose in sull’erba, et allora quelli pesci per vigore e per lo toccamento dell’erba ritornati in vita saltòno in mare; la qual cosa Glauco vedente pensò quello ch’era; cioè che per virtù dell’erba ciò fusse avvenuto e volentelo provare prese di quella erba e mangiòne, et alienato allora della mente, dello [p. 36 modifica]scoglio si gittò in mare e diventò iddio marino. E questo esemplo àe indutto l’autore, a dimostrare com’elli fu trasformato, secondo l’anima, dell’umanità alla divinità accordandosi con Boezio nel quarto libro della Filosofica Consolazione, dove pone Boezio che tutti buoni fussono iddii, dicendo così: Memento enim illius corollarii, quod paulo ante prœcipuum dedi, ac sic collige: Cum ipsum bonum beatitudo sit, bonos omnes eo ipso quod boni sunt, fieri beatos liquet; sed qui beati sunt, deos esse convenit. E per tanto elli, che era venuto allo stato della innocenzia, era trasformato in Dio; ma come si debbia intendere che l’omo si trasformi in Dio lo dimostra Boezio nella sua opera, libro terzo, prosa decima, quando dice: Omnis igitur beatus Deus; sed natura quidem unus, participatione vero nihil prohibet esse quam plurimos.— Trasumanar; cioè passare dall’umanità a più alto grado, che non può essere se none Iddio: imperò che nulla natura è più nobile dell’umana se non la divina; benchè l’angelica sia avale superiore, di po’ l’ iudicio serà equale, come dice lo maestro delle sentenzie nella seconda distinzione, Non si poria; cioè non si potrebbe, significar per verba; cioè dimostrare per parole, e però io ò dato l’esemplo di Glauco, però l’esemplo; ch’i’ò dato di Glauco; e ben dice esemplo: imperò che esemplo è colore retorico, come dice Tullio: Exemplum est alicuius facti vel dicti prœteriti cum certi auctoris nomine prœposito — , basti; a dichiarare come da umanità si monta a divinità, A cui; cioè a colui al quale, grazia; cioè divina, serba l’esperienza; cioè ch’elli ne vegga l’esperienzia in sè: imperò che ai beati che ànno l’esperienzia di ciò non è bisogno di dirlo; ma coloro che non sono anco venuti alla beatitudine; ma bene sono delli eletti, se voliano sapere come si trasumana, notino l’esemplo di Glauco, che con parole io Dante non lo potrei loro dire sì, che perfettamente s’intendesse; ma l’esemplo dato dimostra che trasumanare è montare dall’umanità alla divinità, siccome Glauco di pescatore diventò iddio marino gustando l’erba che avea quella virtù, così l’anima umana gustando le cose divine diventa divina. In questa fizione à volsuto dimostrare l’autore nostro in sè come li santi omini che sono nel mondo si trasumanano per grazia, stando in vita contemplativa che sono quanto a l’anima risplendenti come è lo Sole nel cospetto di Dio; e così per opposito si dè intendere che li omini scelerati che sono rifiutati da Dio si disumanano e diventano bestie varie, secondo vari vizi, come dice ancora Boezio nel predetto luogo nel libro terzo, e diventano sozzi et oscuri quanto all’anima, come è lo dimonio, stando in questa vita.

C. I — v. 73-84. In questi quattro ternari lo nostro autore finge com’elli fu levato dal lume dello Spirito Santo, fu ratto dalla [p. 37 modifica]dolcezza del canto ch’elli sentì e dal grande lume ch’elli vidde, e come li venne grande disiderio di sapere la cagione del suono e del lume, dicendo cosi: Amor, che governi il Ciel; questo è lo Spirito Santo al quale l’autore parla, e lui chiama manifestando la sua trasformazione la quale si fece dallo Spirito Santo lo quale col suo lume ci trasforma, e tutto lo cielo governa: imperò che ogni cielo si muove intorno a Dio sì come l’amante intorno alla cosa amata, e questo amore, per lo quale le cose si muoveno, da lui; cioè dallo Spirito Santo, è creato e da lui è inspirato. Parla ora l’autore sì come tornato al mondo quando elli scrisse questo, e però dice: S’io; cioè Dante, era quel sol; cioè allora che io ebbi questa meditazione, che; cioè lo quale sole, Tu creasti Novellamente, di me; cioè quando tu mi trasformasti di fuori prima e poi lo sentitti d’entro; cioè che prima sopravenne la Grazia Divina in me e poi la sentitti, Tu il sai; cioè tu, Spirito Santo, che col tuo lume; cioè imperò che col tuo lume, mi levasti; tu, Santo Spirito, quasi dica: Se io era fatto Sole, e se io fui levato quando ebbi questa fantasia; la qual cosa mostra che fusse per quello che io udii e viddi e che dichiarò poi Beatrice, tu, Santo Spirito, lo sai che ne fusti operatore col lume tuo che mettesti nella mia mente; e questo dice perchè così credo che fusse in lui, o se non fu, elli lo finse, perchè così adivene ai santi uomini quando sono rapiti nelle loro contemplazioni. Et ora dice che, poi ch’elli fu così trasumanato e levato come àe detto di sopra, elli fu ratto da una dolcezza di suono ch’elli uditte da Dio. Quando la rota; cioè la cumulazione e la revoluzione di tutta la natura, non che dei Cieli, che; cioè la quale, tu Desiderato; cioè Spirito Santo amato, come dice lo Filosofo, sempiterni; cioè in sempiterno fa’ girare, a sè; cioè a sè rota raguardare e considerare, mi fece atteso; cioè me Dante, Coll’ armonia; cioè col dolce canto, che; cioè la quale armonia, temperi; cioè reduci a temperamento, e discerni; cioè e dividi, e benchè secondo la lettera dica de la revoluzione dei Cieli, allegoricamente si può intendere di tutta la natura naturata. Diceno li Filosofi che li Cieli tutti si girano dal primo mobile in giù, e questi sono nove; cioè lo primo mobile e l’ottava spera e li sette pianeti, et ànno vari movimenti e differenti intanto che’l primo è più veloce che nessuno altro, et in ventiquattro ore fa la sua revoluzione da oriente ad occidente, e da occidente a oriente; e l’ottava spera è tardissima tanto che in cento anni va un grado che sono 360 gradi, dunqua in 36 milliaia d’anni fa la sua revoluzione e falla per contrario al primo mobile, cioè da l’occidente in verso l’oriente e così fanno li pianeti; ma non sono sì tardi nel suo movimento e però si spacciano più tosto: ecco Saturno fa lo suo giro in trenta anni, Iove in 22 anni, [p. 38 modifica]Marte in anni 12, lo Sole in uno anno e sei ore, Venus e Mercurio in altrettanto quanto ’l Sole, la Luna in meno d’uno mese, cioè in 27 di’ et ore otto. E queste differenzie tutte àe ordinato Iddio, e secondo questi movimenti generano vari suoni secondo che dice Macrobio, Super somnio Scipionis; e tutti questi suoni fanno una dolce melodia, et a similitudine di questo suono àe trovato la musica li strumenti di nove corde siccome sono nove Cieli che si muoveno. E muove Macrobio uno dubio, dicendo che se questi così grandi corpi suonano, come non s’ odono da noi? A che risponde che l’ obietto dei sentimenti conviene essere contemperato alle potenzie sensitive, altrementi non operano li sentimenti; e però come, quando lo suono è sì piano che non si contempera all’audito non s’ode, così quando è troppo alto, e dà esemplo del circulo, e però l’autore n’à fatto menzione. E seguita: Quando io uditti quel dolce suono, Parventi allor; cioè allora parve a me Dante, tanto del Cielo; cioè sì grande spazio del Cielo, acceso Dalla fiamma del Sol o Della fiamma del Sol; e così dimostra lo grande splendore ch’era in Cielo e ch’elli vidde, che pioggia o fiume; cioè nel mondo, Lago non fece alcun tanto disteso; quanto quella parte del Cielo accesa era. E questo spazio del Cielo acceso che li parve vedere fu lo corpo della Luna, la quale non à splendore da sè; ma è ricettivo dello splendore del Sole e però sempre la metà del globo è risplendente: imperò che sempre li razzi 28 del Sole illuminano la metà: imperò che sempre per diritto nella sua metà percuoteno, se non quando la terra si oppone in mezzo che può essere ogni sei mesi, cioè due volte l’anno quando la Luna è piena in cauda, o vero in capite draconis, et allora si fa l’eclissi lunare, in parte o in tutto se adiviene che l’ombra della terra l’occupi tutta. E la cagione, per che a noi appare alcuna volta cornuta, alcuna volta sottile, alcuna volta gibbosa, e alcuna volta tutta la faccia illuminata che è la metà, è per lo sito in che ella è, nel quale l’aspetto nostro non può essere mezzo tra lei e lo Sole: imperò che quando può essere mezzo la veggiamo tutta; ma quando è sopra l’un de’ capi, la veggiamo in tre differenzie, o cornuta o mezza, che dicono li Astrologhi sottile, o gibbosa secondo che si dilunga o vero s’approssima al Sole. Ma finge l’autore che la vedesse piana a modo d’un lago: imperò che li corpi sperici grandi a la vista paiano piani, e massimamente quando si vedono da lungi in alto; ma quando di pari paiano lunghi, e però pare schiacciata come una focaccia a noi quando la veggiamo tonda in alto, e però bene la somiglia l’autore con eccesso nella grandessa della sua [p. 39 modifica]stensione ad uno lago: imperò che, La novità del sono; ch’io Dante avea udito, che fu l’armonia dei giri de’ corpi celesti, e ’l grande lume; che m’apparve nel Cielo che fu lo corpo della Luna: imperò che mai non aveva sentito sì dolce suono, nè veduto sì grande lume, Di lor cagion; cioè sapere, m’acceser; cioè accesono a me Dante, un disio; cioè uno desiderio, Mai non sentito; più da me, di cotanto acume; cioè di tanto pungimento quanto fu quello. Lo ferro acuto più punge che l’ottuso, e però l’acume si pone per la punzione e per la simulazione l’acume, e così dimostra l’autore che li venisse grande vollia, anco grandissima: imperò che mai non l’ebbe sì grande di sapere la cagione di quel suono sì dolce, e di quello lume sì grande; le quali cagioni sono state manifestate da me: imperò che del suono è stato detto ch’era cagione lo rotamento dei Cieli, li quali nel suo girare e nel toccamento che fanno l’uno co l’altro generano sì dolce armonia; e della fiamma era cagione lo globo lunare lo quale elli vedea essere illuminato tutta la sua metà dai raggi solari, e però àe ditto che li parea che sì grande parte del Cielo ardesse accesa della fiamma del Sole, che mai pioggia o fiume non fece lago tanto steso. E qui si può dubitare che cagione è che li corpi grandi celesti tondi appaiano piani, quando sono oppositi ai nostri occhi, e quando sono giù sotto noi, come la terra, ci appaiano lunghi? Et anco si può dubitare: con ciò sia cosa che la virtù visiva 29 sia sita e che siano sì da lungi, che tanto non si stenda, come si possano vedere? Al primo si può rispondere che i raggi visuali da lungi si riflettino sì debilemente per la distanzia, che benchè l’uno si distenda più dell’altro non rappresenta quella differenzia; al secondo si può rispondere che li raggi, benchè si dilatino, vanno ritti e non si possano piegare in giuso, nè non si possano tanto dilatare che 30 comprendano tutto lo corpo della terra, nè per lungezza 31, nè per largezza, e però veggiamo pur la sua linea lunga; al terzo si dè rispondere che è per Virtù Divina che à voluto che noi veggiamo la bellezza della natura creata, acciò che n’abbiamo contentamento et incitamento a volere andare lassù, come dice questo autore: Chiamavi il Cielo e intorno vi si gira, Mostrandovi le sue bellezze eterne, E l’occhio vostro pur a terra mira.

C. I — v. 85-93. In questi tre ternari lo nostro autore finge come Beatrice cognobbe, senza manifestare, lo suo fervente desiderio, e però con brevi parole li dichiarò le cagioni del canto e dello lume che sentitte in Cielo, dicendo così: Onde ella; cioè vidde, und’ella; cioè Beatrice, che; cioè la quale, vedea me sì com’io; cioè per quel modo che io veggo me medesimo, aprio la bocca; cioè [p. 40 modifica]sua, A quietarmi; cioè a farmi riposare, l’animo; cioè mio, commosso; dice Dante di sè, Prima ch’a dimandar; cioè me Dante quel ch’io avea, E cominciò; cioè Beatrice a parlare: Tu stesso ti fai grosso Col falso imaginar; quasi dica: Tu vuoi sapere le cagioni del suono che odi, e del gran lume che vedi; delle quali cose le cagioni ti sono non note, perchè tu imagini quel che non è: tu imagini d’essere in terra, e però non vedi che sia cagione del suono e del lume: e tu non se’ in terra; ma se’ montato suso presso al cielo della Luna. E, se questo avessi imaginato che è vero, non ti sarebbono state ignote le cagioni del suono e del lume: imperò che da te stesso aresti pensato che la cagione del suono è lo rotamento dei Cieli, e la cagione del lume è lo corpo della Luna; e però dice: sì che non vedi; cioè tu, Dante, Ciò che vedresti; tu, Dante, se l’avessi scosso; cioè essere in terra. Ma fulgure, fuggendo ’l primo sito; cioè lo primo suo luogo, nella quale figura che è la seconda regione dell’ aire infino al principio della terza, come è stato dimostrato nel processo della seconda cantica, lo movimento del quale è violento: imperò che fulgore è vapore secco acceso, e la natura del fuoco è montare, e niente di meno per lo forte impeto che à dalle nebbie, o vero nugoli che si stringono insieme e premello 32 fuora in giuso, viene in verso la terra così velocemente, e però facendo similitudine dal descendimento del lampo al montamento di Dante nella velocità, dice: Non corse; cioè lo fulgore e lo lampo, partendosi dal luogo dove prima si genera e dall’altezza dove la natura del fuoco dè stare e l’altezza 33, non si può fuggire se non si viene a basso; e però dice lo testo, fuggendo ’l primo sito, s’intende, venendo in giù non andò mai tanto veloce, come tu; cioè Dante corri, cioè velocemente monti, che ad esso; cioè al tuo primo sito, riedi; cioè torni. Et in questo parlar si comprende che ’l montamento dell’autore, figurato da lui, fu secondo la mente e non secondo lo corpo: imperò che lo sito dell’anima umana è in cielo, e lo sito del corpo è in terra; unde dicendo che Dante torni al primo suo sito, cioè al primo suo luogo dovuto a lui per natura: imperò che sito è luogo dovuto alla cosa per natura, s’intende 34, secondo l’anima che si può levare in alto infine a Dio, dove è lo primo suo sito, e levasi in uno atamo tanto presta 35, che mai non fu cosa che montasse tanto presta: lo pensieri umano vola in uno istante in ogni lato. E per questo ch’è detto sono chiare le cagioni del suono e del lume.

C. I — v. 94-108. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come, avuta la dichiaragione dello dubio detto di sopra; cioè che [p. 41 modifica]era, la cagione del suono e del grande lume, la quale li fu fatta da Beatrice in poche parole, dicendoli sorridendo; cioè ch’elli non era in terra, com’elli credea; ma era inalzato suso al cielo della Luna; per la qual cosa cognobbe le cagioni che prima non cognosceva. Ora elli si trovò preso da uno nuovo dubio; cioè com’elli, che era corpo grave, potesse montare e passare li corpi leggeri; cioè la spera dell’aire e quella del fuoco, e venuto al globo de la Luna, dicendo: S’io; cioè se io Dante, fui disvestito; cioè spolliato, del primo dubbio; cioè che era la cagione del suono e del lume, Per le sorrise parolette brevi; cioè per le parole di Beatrice, le quali disse brevemente sorridendo della simplicità e glossezza 36 del falso pensieri di Dante, che si credea essere in terra et elli era montato suso al globo della Luna, e però sentia lo suono de’ Cieli e vedeva lo grande lume del corpo lunare, Dentro ad un nuovo; cioè dubbio, più fui irretito; cioè preso et impacciato io Dante, come è presa et impacciata la fiera dentro alla rete, o l’uccello; et ecco che muove lo dubbio: E dissi; cioè Dante a Beatrice: Già contento requievi; cioè io Dante, già contento del mio dubio, requievi; cioè mi sono riposato nel mio pensieri e nella mia mente, Di grande ammirazion; si dè rendere a quello contento, quasi dicesse: Io m’era già riposato contento di quelle grandi meraviglie, ch’io mi facea prima, del suono e del lume, ma ora ammiro; cioè mi maraviglio io Dante, Com’ io trascenda; cioè com’io trapassi montando, questi corpi levi; cioè dell’aire primo, poi de l’etere, poi del fuoco: con ciò sia cosa ch’io sia corporale e sia grave, e di natura delle cose gravi è lo scendere e non lo montare, e però me ne maraviglio. Et aggiugne ora la risposta di Beatrice, dicendo: Ond’ella; cioè onde ella, cioè per la qual cosa ella, cioè Beatrice, appresso d’un pio sospiro; quasi dica: Prima sospirò pietosamente avendo compassione all’errore di Dante et alla sua ignoranzia, come la madre inverso del figliuolo quando dice le coso stolte, Li occhi; cioè suoi 37 Beatrice, drizzò ver me; cioè in verso me Dante; e questo dirizzare delli occhi fu dare ad intendere lo intelletto letterale et allegorico della Santa Scrittura alla mente di Dante, con quel sembiante; cioè con quello atto, cioè turbato un poco, Che; cioè lo quale, madre fa sovra ’l figliuol deliro; cioè stolto: delirare è dal solco della verità uscire, come esce lo bue del solco quando impazza e non è obbediente al giogo. Et aggiunge la dichiaragione ch’elli finge che facesse Beatrice, la quale fece elli e cavolla della Santa Scrittura, e però finge che la faccia Beatrice, dicendo: E cominciò; cioè Beatrice: Le cose tutte quante; parla Beatrice [p. 42 modifica]secondo la fizione dell’autore, ponendo questa ragione delle cose ragionevoli e naturali: Niuno savio si dè maravigliare, e lo tuo montare è ragionevole e naturale, dunqua tu, Dante, che dei essere savio, non te ne dei maravigliare. La maggiore è vera: imperò che solo le cose, delle quali le cagioni sono ignote, adduceno maraviglia; le cagioni delle cose della natura e che sono ragionevoli non sono ignote ai savi, dunqua non se ne dè lo savio meravigliare. Che la minore sia vera; cioè che ’l montar di Dante sia naturale e ragionevole, si proverà nel testo; dunqua seguita la conclusione, e tiene l’autore questo ordine: imperò che propone la prova della minore con uno argomento, rimovendo tutte obiezioni e quello fortificando, et al fine pone la conclusione del primo silogismo, e ponsi quine presso alla fine del canto, cioè Non dei più ammirar. Quella, dove pone l’argomento a provare la minore, si divide in tre parli: imperò che prima pone la maggiore, quando dice: Le cose tutte; nella seconda pone la minore, quando dice: Nell’ordine ch’io dico; nella terza pone la conclusione, quando dice: Et ora lì. Dice dunqua così: Cioè e le cose che Iddio à create, Anno ordine tra loro; cioè sono ordinate insieme ciascuna nel suo essere: ordine è disposizione delle cose pari e dispari, ciascheduna nel suo luogo da essere allogata secondo la sua natura, e questo: cioè ordine, è forma: forma è quello che dà essere alla cosa, Che; cioè la quale forma che Dio à posto e dato a le cose, fa l’Universo; cioè tutta la creatura, a Dio similliante; tutta la creatura à Iddio produtta a similitudine di sè; unde dice Boezio nel iii libro, Filosofica Consolazione: Tu cuncta superno Ducis ab exemplo, pulcrum pulcherrimus ipse Mundum mente gerens, similique in imagine formans, Perfectasque iubens perfectum absolvere partes. — Qui; cioè in questo ordine, veggion l’alte creature; cioè li angiuli e li omini d’alto intelletto, l’orma; cioè lo vestigio e lo segno, Dell’eterno valor; cioè dell’eterna potenzia, sapienzia e clemenzia d’Iddio, che à potuto, saputo e volsuto fare tutte le cose con tanto ordine, lo quale; cioè valore, è fine; Dio è fine d’ogni cosa, com’ è elli principio d’ogni cosa, Al quale; cioè fine, è fatta la toccata norma; cioè la regola e l’ordine detto di sopra. Per questo dimostra l’autore che come Iddio è principio di tutte le cose; così conviene essere fine di tutte le cose; e per questo fu necessario essere ordine nelle cose, per lo quale ordine le cose produtte dal suo principio ritornasseno in esso siccome in suo fine, e questo non potrebbe essere se l’ordine dato da Dio nolle ripiegasse e riducesse ad esso, e questo può essere manifesto a chi considera sottilmente le cose della natura, sì come per grazia d’esemplo Iddio produsse la terra di niente nella sua grandezza e nella sua gravità, acciò che tenesse la parte ima. E così quando a lui piacerà [p. 43 modifica]si risolverà in niente e tornerà al suo principio, e così produsse lo corpo umano di terra, et in terra torna; e creò l’anima senza mezzo, e così a lui senza mezzo ritorna se si conserva nell’ordine a lei da lui imposto, e così di tutte l’altre cose.

C. I — v. 109-123. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come Beatrice seguitando la sua ragione, posta la maggior proposizione del suo argomento, sobiunge la minore dicendo così: Nell’ordine; cioè lo quale Iddio puose a tutte le cose create, ch’io; cioè lo quale io Beatrice, dico, sono incline; cioè inclinate 38, Tutte nature; cioè tutte spezie della natura naturata, per diverse sorti; cioè per diverse vie le quali la providenzia di Dio provide, e’l fatto 39 arreca poi ad esecuzione; e questa produzione ad esecuzione chiama l’autore sorte, che viene a dire tanto quanto fato; cioè ventura, Più al principio loro e men vicine; cioè secondo che sono più vicine, cioè prossimane o meno al lor principio; cioè Iddio che è principio di tutta la creatura. Unde; cioè per la qual cosa, si muoveno a diversi porti; cioè a diversi fini, Per lo gran mar dell’essere; cioè per la grande profondità che ànno le cose create nel suo essere, e ciascuna; cioè cosa si muove, Con istinto; cioè con naturale inclinazione, a lei dato; cioè alla cosa, che la porti; cioè la quale inclinazione porti la cosa 40 al suo fine. Questi; lo istinto, cioè l’inclinazione, ne porta il foco in ver la Luna: imperò che è di materiale 41 inclinazione delle cose leggeri lo montare, e lo fuoco è leggieri, e però sempre va in su in fine al sito suo. Questi; cioè lo istinto e la naturale inclinazione, ne’ cuor mortali; cioè de l’uomini, è promotore; cioè a fargli tornare a Dio. Questi; cioè istinto et inclinazione naturale, stringe e 42 aduna la terra in sè; che altrementi si 43 riscalderebbe. Et adiugne che non solamente questo istinto muove le creature che sono senza intelletto; ma eziandio quelle che sono con intelletto e con amore come sono li angioli e li uomini, e però dice: Nè pur; cioè nè solamente, quest’arco; cioè la providenzia d’Iddio che è l’arco, e la corda di sì fatto arco è l’ordine fatale che fa venire nel suo fine tutte le cose con questo istinto naturale 44: e come l’arco colla sua saetta punge; così questo punge la cosa creata che intenda nel suo fine, saetta le creature che son fuore D’intelligenzia; come sono le cose inanimate e li animali vegetabili offensibili 45 e imaginabili, Ma quelle; cioè cose, ch’ànno intelletto e amore; come sono li angioli e li omini. La providenzia; cioè divina, che; cioè la quale, cotanto assetta; cioè ordina tanto quanto è la creatura, cioè lo mondo tutto [p. 44 modifica]e l’altre cose create, fa sempre il Ciel quieto; cioè riposato e contento lo cielo empireo, nel quale è Iddio e la sua celeste corte, Del suo lume; cioè del suo splendore: tutti li beati si contentano del lume 46 divino, Nel qual; cioè cielo empireo, si volge quel; cioè cielo, ch’à maggior fretta; cioè lo primo mobile, che si muove più veloce che li altri cieli è contenuto dal cielo empireo et in esso si muove e gira, e lo cielo empireo sta immobile e riposato. Et ad evidenzia di quel che l’autore nostro dice è da considerare che ogni cosa che à essere, à forma: imperò che la forma è quella che dà essere alla cosa, et ogni forma è seguitata da qualche inclinazione; e perchè la forma è in due maniere; cioè o naturale o appresa, così è anco la inclinazione; cioè o naturale o animale. La inclinazione naturale seguita la forma naturale, e la inclinazione animale seguita la forma appresa; et ogni inclinazione sempre inclina a perfezione di quella cosa della quale è. Et imperò che la prima perfezione della cosa che à forma naturale è l’essere, però l’appetito di ciascuna cosa naturale è ad avere lo suo essere, se è senza esso, o a conservarlo s’ella l’à. La inclinazione 47 seguitante la forma naturale se non è differente dalla naturale; ma la seguitante la forma appresa, sì; e quella che seguita la forma appresa è d’avere alcuna perfezione di fuora, o vero la virtù di fuora conservare non per mezzo delle cagioni estrinseche, e questa può essere in due modi secondo che è l’apprensione del conveniente o vero del fugibile, senza comperazione sì come è nei bruti animali. E questa così fatta inclinazione sempre è nelle cose convenienti alla natura et alcuna apprensione è con comparazione, e questa è apprensione intellettiva, e l’appetito 48 naturale seguita questa apprensione; lo quale appetito è la volontà e però si chiama quella inclinazione, che seguita tale apprensione, inclinazione animale razionale. E però che quello che secondo sè è conveniente a la natura, per alcuna cosa adiunta può, essere disconveniente, di quinde è che l’apprensione comperata razionale quello che è conveniente alla natura e nel quale inclina l’appetito naturale 49 apprende sì come disconveniente per alcuna cosa adiunta, a la quale fa comperazione quale fia meglio; e però l’appetito razionale, inclina e seguita l’apprensione sua contra l’appetito naturale, et alcuna volta si fa per lo contrario quando l’apprensione comperativa non facesse vera comparazione et in essa s’ingannasse sì, come alcuna volta apprende l’uomo che sia meglio conservare l’essere corporale che l’animale, et in quello inclina l’appetito razionale ingannato. [p. 45 modifica]

C. I — v. 124-135. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Beatrice, continuando lo suo ragionare, puose la conclusione del suo argomento come se argomentasse così: Tutta la creatura è fatta da Dio con ordine, e ciascuna cosa secondo lo suo ordine inclina al suo fine, dunqua noi secondo l’ ordine dell’umana natura che è fatta secondo l’anima a questo fine che ritorni a Dio unde viene, andiamo in su a Dio naturalmente e ragionevolemente colla inclinazione animale razionale, secondo la mente quanto alla verità et allegoria; e secondo lo corpo quanto a la fizione figurato glorificato; e solve alcuna obiezione che si potrebbe fare. Dice dunqua così: Et ora; cioè et avale, ; cioè al cielo empireo, ch’è quieto, com’a sito; cioè come a luogo, decreto: cioè ordinato per nostro fine, cioè del nostro movimento 50, secondo istinto naturale e animale, Cen porta; cioè ne porta noi secondo l’anima, si dè intendere, e non secondo lo corpo, la virtù di quella corda; cioè la virtù della inclinazione, Che; cioè la quale inclinazione, ciò che scrocca: cioè ogni cosa che spinge, come spinge la corda la saetta, drizza; cioè fa drittamente andare, in segno lieto; cioè ferire e finire nel bene che è lieto segno: imperò che ogni inclinazione inclina lo suo sobietto nella sua salute, e nel suo bene. Et ora solve uno dubbio che nasce da quello che detto è; cioè se la inclinazione inclina lo suo subietto nel suo bene, dunqua ogni 51 uomo, secondo la sua inclinazione doverebbe andare nel suo bene che è Iddio, dunqua niuno uomo si dannerebbe mai. A che finge l’autore che Beatrice risponda, et è antipofora quando si risponde all’obiezione che si potrebbe fare benchè non si faccia, dicendo che da questa inclinazione naturale et animale razionale si diparte alcuna volta la creatura ragionevole che à libertà d’arbitrio, ingannandosi con la sua falsa estimazione. Et adiungne, a dimostrare questo, una similitudine dell’arte e dello artificiato, dicendo che non sempre l’artificiato risponde alla intenzione dell’arte; cioè dell’artifice che usa l’arte: imperò che la materia non serà disposta a ricevere la forma che l’arte vi vorrà mettere, sì come appare in questo esemplo: se la terra non si 52 bene menata, mai lo vagellaio 53 non potrà fare lo suo vagello, e così se lo subietto della inclinazione non si disposto a ricevere la inclinazione, giammai non inclinerà al fine a che lo inclina la sua inclinazione; e però dice: Ver è; cioè vero è, che come forma non s’accorda Molte fiate alla intenzion dell’arte: imperò che l’arte vorrà fare una 54 cosa, [p. 46 modifica]e verranne fatta un’altra; et assegna la cagione: Perch’a risponder; cioè perchè ad obedire alla intenzione dell’arte, la materia è sorda; cioè è inetta e sconcia. Cosi; ecco che adatta la similitudine, da questo corso; cioè da la inclinazione naturale e animale razionale dell’omo, che è 55 di montare suso a Dio, Talor; cioè alcuna volta, la creatura; cioè ragionevole, si diparte, che à podere; cioè la qual creatura à potenzia, Di piegar, Talor; cioè alcuna volta, così; cioè per sì fatto modo, pinta, in altra parte; cioè pinta in altro fine della sua sensualità, e questo non può fare se non l’uomo che à libertà d’arbitrio, che può seguitare la sensualità e la ragione, e se seguita la ragione 56 va e sallie in alto; ma se seguita la sensualità contra la ragione, fallisce e va a basso 57. E però per la libertà dell’arbitrio è avverata un’altra similitudine dicendo che, sì come si può veder cadere fuoco di nube, ch’è contra natura: imperò che natura del fuoco è di montare, e niente di meno si vede per accidente cadere; così l’anima umana pinta in altre parte, tal volta si diparte da questo corso; cioè da questa inclinazione, che à secondo natura e secondo ragione, di montare suso a Dio; e però si dè ordinare lo parlare in questa forma, e dèsi replicare: E da questo corso si diparte Talor la creatura, dicendosi; cioè: Così, pigliando quello che è detto; cioè, da questo corso si diparte Talor la creatura, che à podere Di piegar; come si può vedere cadere fuoco di nube che è contra la naturale inclinazione; et adiunge: se l’impeto primo; cioè naturale et animale razionale, A terra; cioè alle cose terrene, è torto; cioè è inclinato e levato dal montar suso, dal falso piacere; cioè dalle cose del mondo; e chiama primo impeto lo 58 naturale et animale razionale; et adiunge la similitudine: sì come si può veder cadere Foco di nube; la qual cosa alcuna volta e bene spesso, quando piove, avviene: e sì come addiviene, perchè è fatto forza alla inclinazione naturale dell’accidente 59; così a la naturale et animale razionale inclinazione che prima occorre, è fatto forza, torta dalle cose mondane col loro piacere alla terra.

C. I — v. 136-142. In questi due ternari et uno versetto lo nostro autore finge come Beatrice puose la conclusione del principal silogismo, e pone lo passamento di questa materia ad altra, dicendo così: Poi che così è, che delle cose naturali e ragionevoli lo savio omo non si dè meravigliare e lo montare dell’anima umana a Dio 60; [p. 47 modifica]e però dice, considerato quel ch’è detto: Non dei; cioè tu, Dante, più ammirar; cioè più meravilliarti, Per tuo sallir; cioè per lo tuo montare, che secondo la lettera sarebbe corporale, perch’elli àe finto lo corpo essere stato glorificato; ma secondo l’allegoria e la verità si dè intendere 61 della mente, e quella intese che per grazia fusse trasumanata e fatta divina, cioè intenta alle cose divine, se bene stimo; cioè se ben penso et iudico io Beatrice, se non come d’un rivo; cioè ti dovresti meravilliare tu, Dante 62, Se d’alto monte scende giuso ad imo; naturale e ragionevile è a l’acqua discendere a basso perchè è grave e flussibile, e però di questo lo savio non si meraviglia; e così tu, Dante, non ti dei meravigliare più del tuo sallir corporale secondo la lettera, e mentale secondo l’allegoria: imperò che è naturale e razionale, perchè lo corpo glorificato à leggerezza, e la mente è leggeri, sicchè la inclinazione naturale et animale razionale bene lo dè inclinare a sallire. Et adiunge a confermamento di questo lo contrario affirmando, dicendo: Meraviglia serebbe in te; cioè Dante, se privo; cioè privato, D’impedimento; cioè d’impaccio, giù; cioè alle cose terreni 63, ti fussi assiso; cioè fermato col corpo e colla mente, intendendo, come detto è, Come a terra quieto il foco vivo; cioè come sarebbe maraviglia vedere lo fuoco vivo; cioè lo fuoco acceso in fiamma, fermarsi giù in terra e non estendere la lingua sua in alto; o vogliamo intendere del fuoco 64 in spera sua che sarebbe meraviglia che fusse giù alla terra: con ciò sia cosa che sia contra la sua natura. Quinci; cioè di po’ queste parole, rivolse in ver lo Cielo il viso; cioè suo Beatrice, e ragguardò lo Cielo. E qui finisce lo canto primo, et incomincia lo secondo.

  1. Affare; a fare, perchè talora la particella di termine di moto a si congiunge con esso verbo infinito, come assapare; a sapere. E.
  2. Altore; autore, cangiato l’u in l. E.
  3. Angnioli: agnoli, angeli. Nelle scritture antiche vedesi di frequente in certe parole intrammesso l’n, a mo’ de’ Trovadori: perocchè, pronunziando, se ne sente il suono, come ongni, pongno ec. E.
  4. C. M. una cosa
  5. C. M. ogni
  6. C. M. indiversa dalli
  7. C. M. quinto; lo inmaginare che è ’l quarto con lo
  8. C. M. è ’l secondo col vivere
  9. Chiamallo; chiamano quello: avvegna che i padri nostri, congiungendo alla terza persona plurale il pronome lo, la, mutassero per certa dolcezza in l la n. E.
  10. C. M. di Cellio lo quale Appolline Iove preditto ebbi
  11. C. M. bucchio
  12. Incominciorno; sincopalo da incominciarono, voce regolare; ma oggi rifiutata. E.
  13. C. M. tu Dio con la materia che sarà
  14. C. M. dette foglie
  15. C. M. perviene
  16. Luogi, fognata l’ h sì come in pelagi, teologi ec. E.
  17. Pareggiono; verbo della prima foggiato sulla seconda congiugazione. E.
  18. Astrolago; astrologo mutato in a l’ o, come in filosafo per filosofo. E.
  19. C. M. da clxxx o vero da clxxxij come dice
  20. Mazzo; Maggio, col mutamento del g in z, come in razzo per raggio. E. — C. M. dell’ anno il Sole cioè di marzo, la quale foce congiunta Con
  21. C. M. per questo intende
  22. C. M. nel nostro.
  23. C. M. verso oriente
  24. C. M. sono patienti di quello
  25. come-aggiunto dal Cod. Magliab. E.
  26. C. M. li Filosofi
  27. Fissi; perfetto irregolare dall’infinito figgere o figere. E.
  28. Razzi; raggi, scambiato in z il g, come in mazzo, maggio. E.
  29. C. M. visuale sia stiata e che tanto siano
  30. C. M. che non
  31. Lungezza, largezza; fognata l’ h sì come in teologi, vageggiatori. E.
  32. Premello; premenlo, raddoppiato l’ l per grazia di eufonia E.
  33. C. M. all’ altezza,
  34. C. M. s’ intende che
  35. C. M. presto,
  36. Glossezza; grossezza, come si pronunzia specialmente dal popolo pisano, il quale muta facilmente codeste due lettere liquide. E.
  37. C. M. cioè di
  38. C. M. naturalmente, Tutte
  39. C. M. il fato
  40. C M. cosa di natura al
  41. C. M. di naturale inclinazione delle cose leggieri è lo montare,
  42. C. M. e raduna
  43. C. M. si risolverebbe e spargerebbesi. Et
  44. C. M. naturale et animale:
  45. C. M. o sensibili et
  46. C. M. dello splendore
  47. C. M. La inclinazione animale seguitante
  48. C. M. l’ appetito razionale seguita
  49. C. M. ragionevole
  50. C. M. montamento,
  51. C. M. niun’uomo,
  52. Si; truovasi nelle persone singolari del presente congiuntivo presso gli antichi questa piegatura primigenia dal latino sim, sis, sit. Vedi più innanzi canto viii, v. 146. « Tal che si nato a cingersi la spada ». E.
  53. C. M. vangeliaro
  54. C. M. alcuna cosa,
  55. C. M. che dè montare
  56. C. M. la ragione non falla, et allora sallire in alto;
  57. C. M. basso per la libertà de l’ arbitrio. Et arreca un’ altra
  58. C. M. lo istinto naturale et animale, razionale, o vero inclinazione, che alcuna volta s’ inganna per lo piacere delle cose mondane. Et adiunge
  59. C. M. dallo accidente;
  60. C. M. a Dio è cosa naturale e ragionevile, come provato è per lo testo; donqua tu, Dante, non ti dei meravilliare del tuo levamento mentale a Dio; e però dice,
  61. C. M. si de’ intendere del montare della
  62. C. M. Dante, d’ uno rio: rivo, o rio, è acqua piccola che esce di vena e corre giù de’ monti, Se d’ alto
  63. Terreni; al plurale feminile, come fini, leggieri dal singolare fine, leggiere. E.
  64. C. M. del fuoco naturale che è nella spera

Note

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