Commedia (Buti)/Paradiso/Canto XX

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Paradiso
Canto ventesimo

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Paradiso - Canto XIX Paradiso - Canto XXI
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C A N T O     XX.





1Quando colui, che tutto ’l mondo alluma,
     Dell’emisperio nostro sì discende,
     Che ’l giorno d’ogni parte si consuma.
4Lo Ciel, che sol di lui prima s’accende,
     Subitamente si rifà parvente
     Per molte luci in che una risplende.
7E quest’atto del Ciel mi venne a mente,
     Come ’l segno del mondo e de’ suoi duci
     Nel benedetto rostro fu tacente:
10Però che tutte quelle vive luci,
     Via più lucenti, cominciaron canti1
     Da la mia mente labili e caduci.2
13O dolce Amor, che di riso t’ammanti,
     Quanto parevi ardente in quei favilli,3 4
     Ch’avien spirto sol di pensier santi!
16Possa che i chiari e lucidi lapilli,5
     Und’io viddi ingemmato il sesto lume,
     Puoser silenzio alli angelici squilli,
19Udir mi parve il mormorar d’un fiume,6
     Che scende chiaro giù di pietra in pietra,
     Mostrando l’ubertà del suo cacume.

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22suono al collo della cetra
     Prende sua forma, e siccom’al pertugio
     Della sampogna vento che penetra;
25Così, rimosso d’aspettar indugio,
     Quel mormorar deli aquila salissi
     Su per lo collo, come fusse bugio.
28Fecesi voce quivi, e quindi uscissi
     Per lo suo collo in forma di parole,7
     Qual aspettava ’l cuor, dov’io le scrissi.
31La parte in me, che vede, e pate ’l Sole
     Nell’aquile mortali, incominciommi:
     Or fisamente riguardar si vuole:
34Perchè dei fuochi, ond’io figura fommi,
     Quelli, onde l’occhio in testa mi scintilla,
     Ei di tutti lor gradi son li sommi.
37Colui, che luce in mezzo per pupilla,
     Fu il cantor de lo Spirito Santo,
     Che l’arca traslatò di villa in villa:
40Ora cognosce ’l merto del suo canto,
     In quanto effetto fu del suo consillio,
     Per lo rimunerar, ch’è altrettanto.
43Dei cinque, che mi fan cerchio per cillio,
     Colui, che più al becco mi s’ accosta,8
     La pedonella consolò del fillio:
46Ora cognosce quanto caro costa
     Non seguir Cristo, per l’ esperienzia
     Di questa dolce vita e dell’opposta.
49E quel, che segue in la circunferenzia,
     Di che ragiono, de l’arco superno,
     Morte indugiò per vera penitenzia:

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52Ora cognosce che l’iudicio eterno
     Non si trasmuta, quando degno preco9
     Fa crastino laggiù dell’odierno.
55L’altro, che segue, co le leggi meco
     Sotto buona intenzion, che fe ’l mal frutto,
     Per ceder al pastor si fece Greco:10
58Ora cognosce come ’l mal didutto
     Dal suo bene operar nolli è nocivo,
     Avvegna che sia il mondo indi destrutto.
61E quel, che vedi nell’arco declivo,
     Guiglielmo fu, cui quella terra plora,
     Che piange Carlo e Federico vivo:
64Ora cognosce come s’inamora
     Lo Ciel de l’iusto rege, et al sembiante
     Del suo fulgore il fa vedere ancora.
67Chi crederebbe giù nel mondo errante,11
     Che Rifeo troiano in questo tondo
     Fusse la quinta de le luci sante?
70Ora cognosce assai di quel, che ’l mondo
     Veder non può de la divina grazia,
     Benchè sua vista non discerna ’l fondo.
73Qual loduletta, che in aire si spazia12 13
     Prima cantando, e poi tace contenta
     Per l’ultima letizia, che la sazia;14
76Tal mi sembiò l’imago de la imprenta
     De l’eterno piacere, al cui disio
     Ciascuna cosa, qual’ell’è, diventa.

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79Et avvegna ch’io fossi al dubbiar mio
     Lì quasi vetro a lo color, che ’l veste,
     Tempo tacendo aspettar non patio;
82Ma de la bocca: Che cose son queste?
     Mi pinse co la forza del suo peso;
     Per ch’io di coruscar viddi gran feste.
85Poi appresso coll’occhio più acceso
     Lo benedetto segno mi rispuose,
     Per non tenermi in ammirar sospeso:
88Io veggio che tu credi queste cose,
     Perch’io le dico; ma non vedi come;
     Sì che, se non credute, sono ascose.15
91Fai come quei, che la cosa per nome
     Apprende ben; ma la sua quiditate
     Veder non puote, s’altri non la improme.16
94Regnum Caelorum violenzia pate
     Dal caldo amore e da viva speranza.17
     Che vince la divina voluntate,
97Non a guisa che l’omo all’om sovranza;18
     Ma vince lei, perchè vuole esser vinta,
     E vinta vince con sua benenanza.
100La prima vita del cillio e la quinta
     Ti fan meravigliar, perchè ne vedi19
     La region delli Angeli dipinta.
103Dei corpi suoi non uscir, come credi,
     Gentili; ma Cristiane in ferma fede,
     Quel dei passuri, e quel dei passi piedi.20

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106Chè l’una de l’inferno, u’ non si riode
     Giammai a ben voler, tornò all’ossa;21
     E ciò di viva spene fu mercede:22 23
109Di viva spene, che misse la possa24
     Nei prieghi fatti a Dio per suscitarla,
     Sì che potesse sua vollia esser mossa.
112L’anima gloriosa, onde si parla,
     Tornata nella carne in che fu poco,
     Credette in Lui, che poteva aiutarla;
115E credendo s’accese in tanto fuoco
     Di vero amor, ch’in la morte segonda25
     Fu degna di venire a questo loco.26
118L’altra per grazia, che di sì profonda27
     Fontana stilla, che mai creatura
     Non pinse l’occhio infine a la prima onda,
121Tutto suo amor laggiù puose a drittura;
     Per che di grazia in grazia Iddio li aperse
     L’occhio a la nostra redenzion futura;
124Onde credette in quella, e non sofferse
     Da indi il puzzo più del paganesmo,
     E riprendène le genti perverse.28 29
127Quelle tre donne li fuor per battesmo,
     Che tu vedesti da la destra rota,
     Dinanzi al battizzar più d’un millesmo.
130O predestinazion, quanto remota
     È la radice tua da quelli aspetti,30
     Che la prima cagion non veggion tota!31

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133E voi, mortali, tenetevi stretti
     Ad iudicar: chè noi, che Dio vedemo,
     Non cognosciamo ancor tutti li eletti:
136Et ène dolce così fatto scemo!32 33
     Perchè ’l ben nostro in questo ben s’affina.
     Che quel, che vuole Iddio, e noi volemo.34
139Così da quella imagine divina,
     Per farmi chiara la mia corta vista,
     Data mi fu soave medicina.
142E come a buon cantor buon citarista
     Fa seguitar lo guizzo de la corda,
     In che più di piacer lo canto acquista;
145Sì mentre che parlò, sì mi ricorda,
     Ch’io viddi le due luci benedette,
     Pur come batter d’occhi si concorda,35
148Colle parole muover le fiammette.

  1. v. 11. C. A. Vie più lucendo,
  2. v. 12. C. M. C. A. Da mia memoria labili
  3. v. 14. Favillo e favilla, come dimando e dimanda ec. E.
  4. v. 14. C. A. flailli,
  5. v. 16. C. A. i cari e
  6. v. 19. C. A. un mormorar di fiume,
  7. v. 29. C. A. suo becco in
  8. v. 45. C. M. La poverella — C. A. vedovella
  9. v. 53. Preco, siccome prec veniva usato dai Trovadori. E.
  10. v. 57. C. A. Procedere al
  11. v. 67. C. M. Che crederebbe che giù
  12. v. 73. C. M. Qual è la lodaletta che in aere
  13. v. 73. C. A. Quale alodetta che in aria
  14. v. 75. C. A. ultima dolcezza,
  15. v. 90. C. A. se son
  16. v. 93. C. M. C. A. la prome.
  17. v. 95. C. M. Di caldo amor e di
  18. v. 97. C. M. C. A. che uomo a uom
  19. v. 101. C. A. Ti fa
  20. v. 105. Passuri, participio che ben sarebbe avesse dei compagni, i quali alla poesia certamente recherebbero assai buon servigio. E.
  21. v. 107. C. A. a buon
  22. v. 108. C. A. E ciò divina speme fu e mercede:
  23. v. 108. C. M. a viva spene
  24. v. 109. C. A. Divina
  25. v. 116. C. M. che la morte — C. A. che alla
  26. v. 117. C. A. degno di venir a questo gioco.
  27. v. 118. C. M. C. A. da sì
  28. v. 126. Riprendène; ne riprendè, sincope di riprendie, come ave Par. C. xviii. v. 50. E.
  29. v. 126. C. A. E riprendeane
  30. v. 131. C. A. radice sua
  31. v. 132. Tota; tutta, dal latino totus. Il Frezzi usò pure toto, lib. ii. cap. iii. E.
  32. v. 136. Ène vale ne è, e quindi si accenta a differenza di ene per semplice
    è. E.
  33. v. 136. C. A. Ed enne
  34. v. 138. Volemo, cadenza naturale da volere. E.
  35. v. 147. C. A. d’occhio che s’accorda,




c o m m e n t o


Quando colui ec. Questo è il canto xx della terzia cantica, nel quale lo nostro autore finge come la dotta aquila ricominciò a parlare e manifestò a lui alquanti di quelli beati spiriti, che la detta aquila formavano. E dividesi questo canto in due parti principali, imperò che prima l’autore finge come la detta aquila, ritornata a parlare, li dimostrò cose maravigliose, come appare nel testo; nella seconda parte finge come la detta aquila, accorta del suo dubbio, li dichiarò lo dubbio ch’elli avea, et incominciasi quine: Et avvegna ec. La prima, che sarà la prima lezione, si divide in parti sei: imperò che prima l’autore arreca una similitudine, a dimostrare come li parve fatta la detta aquila quando ella ristette di parlare inanti che ricominciasse; nella seconda parte finge come, inanti che la detta aquila parlasse, elli s’accorse che dovea parlare per alcuno [p. 574 modifica]segno, et incominciasi quine: Possa che i chiari ece.; nella terza parte finge com’ella, incominciando a parlare, lo fece attento et incominciòli a dimostrare chi erano quelli beati spiriti che formavano li occhi della detta aquila, e prima quello della pupilla dell’occhio et incominciasi quine: La parte in me che vede ec.; nella quarta parte finge com’ella incominciò a dimostrare di quelli beati spiriti, che erano nel cillio, et incominciasi quine: Dei cinque che mi fan ec.; nella quinta parte finge come la detta aquila li dimostrò altri beati spiriti, oltra quelli che erano detti nel detto arco del cillio, et incominciasi quine: L’altra che segue ec.; nella sesta et ultima parte finge come quella aquila, seguitando lo parlare, li dimostrò uno spirito beato del quale l’autore molto mostrò di meravigliarsi, et incominciasi quine: Chi crederebbe giù ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co l’esposizione litterale, allegorica e morale.

C. XX — v. 1-15. In questi cinque ternari lo nostro autore finge per una similitudiue come li apparve fatta la detta imagine dell’aquila, poi ch’ella tacette. finita la sua diciaria et incominciato a cantare, poi dicendo cosi: Quando colui; cioè lo Sole, che tutto ’l mondo alluma; cioè lo quale illumina tutto ’l mondo, Dell’emisperio nostro sì discende; cioè per sì fatto modo discende del nostro emisperio, cioè de la parte nostra del cielo: già di sopra è dichiarato che cosa sia emisperio, Che ’l giorno d’ogni parte si consuma; cioè viene meno dall’oriente e dall’occidente, e dall’occidente e da settentrione e mezzo di’, Lo Ciel; cioè la parte nostra del cielo, che; cioè lo quale, sol; cioè solamente, di lui; cioè del Sole, prima s’accende; cioè s’illumina, Subitamente si rifà parvente; cioè apparente si fa e dimostrasi, Per molte luci; cioè per molti corpi lucidi, che sono le stelle, in che; cioè nelle quali stelle, una; cioè luce, risplende; come già è stato detto, le stelle non ànno luce da sè; ma sono corpi lucidi e la luce del Sole ferendo in esse le fa risplendere, sicchè una luce riluce in tutte. E quest’atto; che detto è, del Ciel mi venne a mente; cioè a me Dante 1 mi venne a mente questo così fatto, detto del cielo che detto è, che oscura cessandosi lo Sole che è una luce e poi diventa splendido per molte luci, cioè per molte stelle lucide, Come ’l segno del mondo; cioè l’aquila che è segno del mondo, cioè che insegna quel che dovrebbe fare, e de’ suoi duci; cioè del suoi rettori e guidatori, cioè del mondo: imperò che, come l’aquila vola in verso ’l cielo sopra tutti li altri uccelli; così li omini del mondo e li signori doverebbeno volare co la mente in verso Iddio sopra tutte le creature: e come l’aquila ficca lo suo intuito nella spera del Sole; così l’omo dovrebbe lo suo intelletto e lo suo pensieri in Dio, che è [p. 575 modifica]vero Sole; e questo, secondo allegoria e moralità. Secondo la lettera, l’aquila è segno del mondo, perchè è segno dello imperio romano, a cui tutto il mondo ne le cose temporali dè essere obbediente, et è segno de’ duci del mondo: imperò che tutti i signori del mondo debbono seguitare lo imperio di Roma e lui obbedire, e lo imperio di Roma debbe avere solo rispetto a Dio et al suo vicario in terra, cioè al papa, Nel benedetto rostro; cioè nel suo benedetto becco, fu tacente 2; cioè che non parlò più. Et assegna la cagione, per che lo detto atto li venne a mente, dicendo: Però che tutte quelle vive luci; cioè quelli beati spiriti, che si rappresentavano come luci, Via più lucenti; cioè che prima, cominciaron canti; cioè 3 a cantare, Da la mia mente; cioè di me Dante, labili e caduci 4: imperò che nolli ò potuto ritenere nella mente. O dolce Amor; ecco l’autore fa esclamazione a l’amore et a la carità, che quine era e quine si dimostrava, dicendo: O dolce Amor: dolce è la carità tra l’uno prossimo e l’altro, e dolcissimo è l’amore che l’anima porta a Dio, che; cioè lo quale amore, di riso t’ammanti; cioè ti vesti di riso e d’allegrezza: tanta è l’allegrezza tra li beati, quanto è l’amore: imperò che la carità e l’amore è lo bene di vita eterna: l’allegrezza è dimostrativa della carità, è però che s’ammanta d’allegrezza. Quanto parevi ardente; cioè tu amore, quanto parevi fervente, in quei favilli; cioè in quelli beati spirti, che parevano a modo di faville, Ch’avien spirto; cioè li quali avevano spirazione, sol; cioè solamente, di pensier santi; cioè di santi pensieri e non d’altro!

C. XX — v. 16-30. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che la detta aquila incominciò’ a parlare con lui; ma inanti descrive lo modo, col quale s’indusse a parlare di quella materia che aveva vollia d’udire, dicendo così: Possa che i chiari e lucidi lapilli; cioè poi che quelli beati spiriti, che erano come pietre preziose, chiare e splendienti a formare la detta aquila, Und’io; cioè dei quali io Dante, viddi ingemmato; cioè siccome di gemme ornato, il sesto lume; cioè lo sesto pianeto, cioè Iove, Puoser silenzio; cioè puoseno 5 tacimento, alli angelici squilli; cioè ai canti angelici, cioè poichè finittono li canti dolci come quelli delli angeli, che aveano cantato dinanzi, Udir mi parve; cioè a me Dante, il mormorar d’un fiume; cioè lo suono, che fa l’acqua del fiume, Che; cioè lo qual fiume, scende chiaro giù; cioè dall’altezza del monte, di pietra in pietra 6; e per lo perquoter delle pietre fa l’acqua tale mormorio, [p. 576 modifica]Mostrando l’ubertà; cioè l’abbondanzia, del suo cacume; cioè della sua altezza, unde descende; cioè della sua fonte, unde à origine E come suono al collo della cetra: citra è istrumento musico di corde che suona toccandosi le corde co la penna e co la mano: posto la similitudine dello scendere del fiume, pone la similitudine del sonare de la chitarra, dicendo: E come lo suono della chitarra Prende sua forma; cioè 7 suo essere al collo della chitarra, dove tiene lo sonatore le dita de la mano sinistra, stringendo le corde al legno, or coll’uno dito, or coll’altro, et or con più, e siccom’al pertugio; ecco l’altra similitudine, cioè: E siccome al foro, Della sampogna; che è istrumento musico, che si suona col fiato, Prende sua forma; cioè di suono, s’intende, vento che penetra; cioè vento che passa per esso foro, mandatovi soffiando con bocca o gonfiando lo quoio, Cosi; ecco che adatta la similitudine, rimosso d’aspettar indugio; cioè senza indugio, Quel mormorar dell’aquila; della quale è detto che era formata di quelli beati spiriti, salissi; cioè sallitte per sè medesimo, Su per lo collo; cioè dell’aquila detta, come fusse bugio; cioè come se fusse vacuo cannone. Fecesi voce quivi; cioè in quello luogo, cioè nel collo dell’aquila, e quindi; cioè di quel collo, uscissi; cioè la detta voce uscitte di quel collo, Per lo suo collo; cioè dell’aquila, o vero becco dell’aquila, in forma di parole; cioè che ebbe lo detto mormorare forma di parole, Qual; cioè tali parole, chenti, aspettava ’l cuor; cioè di me Dante, dov’io; cioè nel quale cuore io Dante, le scrissi; cioè le dette parole, cioè uscitte parlare della detta aquila, secondo ch’io Dante desiderava d’udire. E qui è da notare che l’autore fa noto al lettore la sua fizione e poesi: imperò che prima, per la prima similitudine dimostra come tutti quelli beati spiriti facevano voce, che s’accordava l’una coll’altra insieme ad esprimere una medesima sentenzia; e però finge un mormorare d’un fiume, dimostrando per questo che quelle anime parlasseno insième e bombizasseno come fanno le lape 8, manifestando l’una a l’altra un medesimo concetto; poi, fingendo che questo concetto venisse al collo dell’aquila e poi al becco, et esprimesse parole, che prese quine forma di parole come al collo della chitarra lo suono et al buco de la sampogna; e dice che uscitte in forma di parole, chenti desiderava lo cuore dove elli le scrisse, che non vuole altro dire che questa è sua fizione: imperò che quello, che egli àe concetto, quel farà che le parole suonino. E niente di meno finge, secondo la lettera, che quelle anime, vedendo in Dio ogni cosa, viddono lo suo desiderio, e però rispuoseno secondo esso, e così la fizione è verisimile. [p. 577 modifica]

C. XX — v. 31-42. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come la detta aquila, parlando, li dimostrò chi erano li spiriti che formavano li suoi occhi, dcendo così: La parte 9; cioè li occhi. e però dice: in me che vede; cioè la quale è in me, unde io veggio, e patè ’l Sole; cioè la quale parte sofferisce di vedere la spera del Sole: diceno li Naturali che l’aquila àe sì acuto vedere, che ella può tenere l’occhio a la spera del Sole, Nell’aquile mortali; cioè in quelle che sono nel mondo, che noi abbiamo per nostra beatitudine vedere continuamente lo Sole di vita eterna, cioè Iesu Cristo glorificato, incominciommi; cioè incominciò a dire la detta aquila a me Dante. Or; cioè avale, fisamente; attentamente, riguardar si vuole; cioè da te Dante. Et assegna la cagione, per che, dicendo: Perchè; cioè imperò che, dei fuochi; cioè di questi splendori, cioè beati spiriti, che sono come fuochi, ond’io; cioè dei quali io aquila, figura fommi: imperò che, come detto è di sopra, formata era di molti beati spiriti la detta aquila, Quelli; cioè beati spiriti, onde l’occhio; cioè dei quali l’occhio formato, in testa mi scintilla; cioè nella testa di me aquila sfavilla, Ei; cioè li sopradetti beati spiriti, che formano li miei occhi, di tutti lor gradi; cioè di tutti li gradi, chè anno li beati spiriti per merito di iustizia, son li sommi; cioè sono 10 li più alti, sicchè li più alti formano li occhi, e li più eccellenti. Colui; cioè quello spirito, che; cioè lo quale, luce in mezzo; cioè risplende in mezzo dell’occhio, per pupilla; cioè in luogo 11 de la luce dell’occhio, che in Grammatica si chiama pupilla, Fu il cantor de lo Spirito Santo; cioè David re e profeta, lo quale fu iusto re e fu profeta, e però lo chiama cantore dello Spirito Santo: imperò che cantava li salmi, che componeva colla citera 12 sua, Che; cioè lo quale, l’arca traslatò; cioè l’arca del patto che servava le taule 13 de la legge, la virga di Moise e lo vasello della manna, la quale si portava inanzi al populo, di villa in villa; cioè di luogo in luogo, come lo popolo si mutava; e di questo fu detto di sopra nella seconda cantica ancora nel canto x. Ora cognosce ’l merto del suo canto; cioè’ lo detto David 14 lo merito del suo canto, In quanto effetto fu; cioè quanto grande fu l’efficacia, del suo consillio; cioè del suo buono consillio ch’elli prese, [p. 578 modifica]quando prese a cantare le cose d’Iddio nei salmi, li quali componeva in lingua ebrea, in rima come ritimi 15; cioè ora cognosce quanto effetto fu lo suo consillio del merito del suo canto, cioè quanto la sua voluntà buona meritò cagionando questo effetto, cioè ch’elli cantasse le cose d’Iddio; e come lo cognosce ecco ’l modo: Per lo rimunerar; cioè per lo premio che ora n’à, ch’è altrettanto; cioè quanto fu lo merito; cioè tanto avale è lo premio, quanto fu lo merito della buona voluntà, sicchè, avendo lo premio, vede quanto fu lo merito del consillio suo, cioè della voluntà sua che indusse quello effetto, cioè di cantare le cose d’Iddio.

C. XX — v. 43-54. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come la detta aquila, continuando lo parlare, li dimostra e manifestali li altri beati spiriti che stanno in forma de’ suoi occhi, ponendo che siano cinque; et in questa parte fa menzione di due, cioè di Traiano imperadore e del re Ezechia, dicendo così: Dei cinque; cioè beati spiriti, che mi fan; cioè li quali fanno a me aquila, cerchio per cillio; cioè fanno cerchio, cioè stanno in cerchio, e fanno a me cillio, Colui, che più al becco mi s’accosta; cioè quello beato spirito, che è allato al mio becco, La pedonella 16; cioè la madre vedova 17, consolò del fillio: imperò che li diede lo suo figliuolo proprio in scambio del suo, ch’era stato morto da lui. Questo fu Traiano imperadore, che diede lo suo figliuolo, che avea morto lo figliuolo de la vedova che la notricava, a la vedova in scambio del suo morto, acciò che la notricasse; siccome fu detto di sopra nella seconda cantica del canto x, di costui dirà l’autore di sotto come fu salvato: imperò che morì pagano, dicendo che, per li preghi di santo Gregorio, Iddio lo fece ritornare in vita e cognobbe la vera fede e morì cristiano, e per questo modo dice che fu salvo. Ora cognosce; cioè lo detto Traiano, che è a la beatitudine di vita eterna, quanto caro costa Non seguir Cristo: imperò che vede che ne perde la beatitudine di vita eterna, la quale elli sa quello che è, perch’elli l’àe; e però dice: per l’esperienzia; cioè per la prova, Di questa dolce vita 18; ch’elli prova, e dell’opposta; cioè e della contraria, la quale provò ancora quando moritte la prima volta infidele, che vidde le pene infernali. E quel, che segue; cioè quello beato spirito, che seguita, in la circunferenzia; cioè nel giro d’intorno all’occhio, cioè di sopra, che i volgari chiamano cillio; mala Grammatica 19 lo chiama sopracillio: imperò che cillio è propriamente dove sono le [p. 579 modifica]lappole: imperò che sempre si muove, Di che; cioè della quale circunferenzia, ragiono; cioè io aquila, cioè de l’arco superno; ecco che dichiara di qual circunferenzia intende, cioè dell’arco di sopra dal cillio; e così appare manifestamente quello che òne detto, Morte indugiò per vera penitenzia; questo fu Ezechia re di Iuda. Lo popolo d’Iddio aveva partito lo regno in due regni; l’uno si chiamava re di Ierusalem 20, e l’altro si chiamava re di Iuda. Avvenne che uno re dei pagani assediò Ierusalem, dove stavano amenduni questi re; et Iddio vendicò lo popolo suo e misse in esterminio tutto l’esercito e lo re 21, benchè solo lo re scampò con diece 22 suoi baroni; ma fu ucciso poi da’suoi, sicchè Ezechia ne montò in tanta superbia che Iddio li mandò profeta Isaia, che li dicesse che acconciasse li fatti suoi ch’elli dovea morire della infermità ch’elli aveva, che avea uno apostema nel capo e perciò febricitava. Unde converso a la parete, pianse lo suo peccato amaramente, pregando Iddio che li desse indugio a la morte sua, tanto che avesse qualche figliuolo. Unde lo profeta tornò a lui e disse: Perchè ài avuto contrizione del tuo peccato, Iddio t’à perdonato e prolungato la vita tua 15 anni; et in segno di ciò lo Sole tornerà adrieto 15 gradi che era già a l’occidente, e così fu. E però dice l’autore le parole scritte, cioè: Morte indugiò per vera penitenzia; imperò che li fu prorogata la vita 15 anni, e fu re iusto e di santa vita. Ora; che è in paradiso, cognosce che l’iudicio eterno Non si trasmuta, cioè ora, che è Ezechia a vita beata, cognosce che Iddio non muta lo suo eterno iudicio, benchè a lui trasmutasse lo termino 23 della vita: imperò che ab eterno Iddio aveva ordinato, come avvenne, quando degno preco 24 Fa crastino; cioè fa dimane, laggiù; cioè nel mondo, dell’odierno; cioè di quello che debbe essere oggi. Benchè Iddio indugi sua sentenzia per li preghi de’iusti omini, non passa però che non si faccia quello che Iddio àe ordinato, eziandio che si rivocasse al tutto quello che dovea essere: imperò che la revocazione sarebbe quanto a noi; ma non quanto a Dio: imperò che Iddio aveva veduto ab eterno che tale effetto, secondo lo corso del cielo, dovea venire; e contra tale effetto si doveva pregare e che per li devoti e degni preghi tale effetto si dovea revocare che non fusse, e fusse quello che Iddio avea ordinato per quelli iusti e pietosi preghi.

C. XX — v. 55-66. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come la detta aquila continuò ancora lo suo parlare, dimo[p. 580 modifica]dimostrandoli altri beati spiriti principi e signori, dicendo: L’altro; cioè beato spirito, che segue; cioè lo quale seguita nell’ordine del cillio 25, co le leggi meco; cioè accompagnato dalle leggi e dal mio segno; e per questo dimostra che fu imperadore, in quanto dice che aveva le leggi e la insegna dell’aquila; e questo fu Costantino imperadore che, convertito a la fede 26, lasciò Roma al sommo pastore et andossene a Costantinopoli, perchè la Chiesa fusse maggiore, e però dice l’autore: Sotto buona intenzion: imperò che buona fu la intenzione sua, per fare onore e grandezza a la Chiesa di Roma, che fe ’l mal frutto; cioè la quale buona intenzione fece ’l mal frutto: imperò che ne seguì male; imperò che, mentre che la Chiesa fu povera, li prelati d’essa furono santi e buoni: come diventò ricca, li prelati diventoruo viziosi; e però disse l’autore di sopra nella prima cantica del canto xix Ahi, Costantin, di quanto mal fu maire, Non la tua conversion; ma quella dote Che da te prese il primo ricco patre; e di questa istoria anco è fatto menzione 27 in questa terza cantica nel vi canto; cioè: Poscia che Costantin l’aquila volse, e finge l’autore che questo dica la detta aquila, Per ceder; cioè per dar luogo, al pastor; cioè al sommo pontifice, si fece Greco: imperò che andò a stare in Grecia a Bisanzio, che poi si chiamò Costantinopuli dal suo nome. Ora; cioè avale, che è ne la beatitudine, cognosce; lo detto Costantino, come ’l mal didutto; cioè disceso, Dal suo bene operar nolli è nocivo; anco li è iovato che, benchè li prelati abbiano da la dote de la Chiesa presa cagione di vivere lussuriosamente, la intenzione di Costantino non fu questa, ma fu per torre loro la necessità del mendicare sicchè avessono ad intendere al divino culto et a la santa Teologia sì, che potessono ammaestrare lo popolo 28; e questa buona intenzione Iddio accettò. Avvegna che sia il mondo indi destrutto: imperò che per questa ricchezza della santa Chiesa sono divisi li sommi pontifici da l’imperadori, e fatto parte della Chiesa e de lo imperio guelfa e ghibellina, sicchè la cristianità n’è divisa e venuta in grandi guerre 29. E quel; cioè beato spirito, che vedi; cioè lo quale tu, Dante, vedi, nell’arco declivo; cioè nell’arco che inchina in giù del cillio dall’altro lato, che è lo quarto dei cinque beati spiriti che finge che fussono nell’arco, del cillio, sicchè bene debbe [p. 581 modifica]declinare: imperò che non ve ne rimane se non uno, Guiglielmo fu; questo fu re di Sicilia e ressela sotto grande iustizia, e fu iustissimo signore. Questo Guiglielmo fu descendente di Ruberto Guiscàrdo disceso dei duca 30 dei Normandi e fu figliuolo di Ruggeri figliuolo dell’altro Ruggeri, che fu figliuolo di Ruberto Guiscardo suddetto, et ebbe una sua suore lo detto Guiglielmo chiamata Gostanza la quale fece monaca violentemente; et avendo 42 anni fu cavata del munisterio e data per donna a lo imperadore Arrigo di Soave, e nacquene lo imperadore Federigo padre del re Manfredi, che fu re di Sicilia per eredità di questa sua aula. E, dopo Guiglielmo, prese lo reame di Sicilia Tancredi nipote di Ruberto Guiscardo, nato della suore e di Lignamonte principe d’Antiocia; lo quale Tancredi fu prima duca di Taranto, cui; cioè lo quale Guiglielmo, quella terra; cioè l’isula di Sicilia, plora; cioèò piange, perchè fu ai Siciliani buono rettore, Che; cioè la quale Sicilia, piange Carlo; cioè lo primo re Carlo, che fu duca d’Angiò e conte di Provenza, e poi re di Pullia e di Ierusalem e di Sicilia, e Federico vivo; cioè Federico di Ragona che fu anco re di Sicilia: imperò che questi furno buoni et iusti regi, secondo gli altri che seguitorno poi: o voltiamo intendere che pianga per le tribulazioni che ebbe ai loro tempi, che anco nel 1300 non erano smaltite. Ora cognosce; cioè lo detto re Guiglielmo, come s’inamora Lo Ciel de l’iusto rege: imperò che in cielo è beato per la sua iustizia, et al sembiante; cioè et a la dimostrazione, Del suo fulgore; cioè dello splendore, ch’elli mostra ora, il fa vedere ancora; cioè quanto s’innamora de l’iusto rege.

C. XX — v. 67-78. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come la detta aquila, continuando lo suo parlare, disse del quinto beato spirito, che era in quel cillio, cose meravilliose; fece fine al suo ragionamento, quanto a la narrazione dei beati che quine sono da essere nominati, dicendo così: Chi crederebbe giù 31; e dichiara di qual giù intenda, dicendo: nel mondo errante; cioè nel mondo che corre per tempo et erra e debbe avere fine; e questo dice a differenzia dello inferno che è mondo che non corre: imperò che non debbe avere fine, cioè questo che io dirò ora, dice l’aquila, Che Rifeo troiano; questi fu di Troia uomo iustissimo, secondo che dice Virgilio nel secondo de l’Eneide: Cadit et Ripheus, iustissimus unus Qui fuit in Teucris et servantissimus aequi. Diis aliter visum ec. — in questo tondo; cioè del mio cillio, Fusse la quinta de le luci sante! E con ammirazione proferisce questo: imperò che fu pagano, e non [p. 582 modifica]ebbe notizia della fede cristiana; e però dice: Chi crederebbe 32; cioè che fusse in paradiso e fusse lo quinto spirito di quelli che figurano lo cillio dell’aquila, che sono nominati di sopra: cioè Traiano imperadore, Ezechia re di Iuda, Costantino imperadore, Guiglielmo re di Sicilia e Rifeo troiano! Ora; cioè avale, che è in questa beatitudine, cognosce assai di quel, che ’l mondo; cioè lo detto Rifeo cognosce assai di quel, che gli omini del mondo non possano cognoscere della divina grazia, che si dà come Iddio la vuole dare, et a cui la vuole dare; e però adiunge: Veder non può: cioè lo mondo de la divina grazia; la quale si dà. come a Dio piace. Benchè sua vista; cioè avvegna Iddio che la sua vista, cioè di Rifeo, non di scorna ’l fondo: imperò che, benchè Rifeo ne cognosca assai de la divina grazia, non ne vede però ciò che n’è: imperò che anco n’è più che non vede, come apparrà di sotto. E qui pone fine l’autore al parlamento dell’aquila, ponendo una similitudine, dicendo: Qual loduletta; questo è uno uccello piccolo, che si chiama lodula 33, che in aire si spazia; cioè la quale si trastulla per l’aire. Prima cantando; cioè prima che va cantando, quando incomincia a volare, e poi tace contenta; cioè del suo canto la detta lodola. Per l’ultima letizia; cioè del suo canto, che la sazia; cioè la quale letizia l’à saziata, cioè la detta lodula. Ecco che adatta la similitudine, dicendo: Tal mi sembiò; cioè sì fatta mi parve, l’imago de la imprenta; cioè l’imagine de la figurata aquila, che Iddio la figurava come si figura una figura d’una forma, imprimendola ne la cera, o in altra cosa ricettevile di quella, De l’eterno piacere; cioè d’Iddio, che è eterno piacerti, al cui disio; cioè al desiderio e volontà del quale Iddio, Ciascuna cosa, qual’ell’è, diventa; cioè ogni cosa diventa tale, quale ella è nel piacere d’Iddio: imperò che ogni cosa è fatta da Dio tale, quale elli la vuole; unde santo Augustino: Tales nos amat Deus, quales faeti sumus dono eius; non quales sumus nostro merito; e santo Prospero: Tales a Domino, quales formamur, amamur; Non quales nostro existimus merito. E questo dice l’autore, per togliere dubbio al lettore di quel che àe detto; cioè che la detta aquila, finita la sua orazione, cantò; e, poi finito lo canto, si tacque rimanendo contenta di quello canto ch’avea fatto al piacere d’Iddio. E qui finisce la prima lezione del canto xx, et incominciasi la seconda.

Et avvegna ch’io fossi ec. Questa è la seconda lezione del canto xx, nella quale lo nostro autore finge come la detta aquila ritornò a parlare solvendoli due dubbi, che nascevono 34 delle cose dette [p. 583 modifica]di sopra. E dividesi questa lezione in parti sei: imperò che prima finge com’elli, non patendo dimoranza al suo dubbio, disse alcuna parola, e come la detta aquila s’apparecchiò a rispondere; nella seconda finge come la detta aquila incominciò a proponere alcune proposizioni vere, le quali saranno via a le dichiaragioni dei dubbi, et incominciasi quine: Io veggio, ec.; nella terza parte finge come la detta aquila tocca li due dubbi et incomincia a solvere l’uno, et incominciasi quine: La prima vita ec.; nella quarta parte finge come compiuto di solvere lo primo incominciato, solve l’altro, et incominciasi quine: L’altra per grazia ec.; ne la quinta parte finge come, perchè s’apparteneva a la materia dichiarata, intrò nella dubitazione della predestiuazione, et incominciasi quine: O predestinazion, quanto remota ec.; nella sesta et ultima parte finge come, finito lo parlare della detta aquila, vidde alcuno segno lare a quelli due spiriti dei quali erano stati li due dubbi, et incominciasi quine: Così da quella ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo coll’esposizioni letterali, allegoriche e morali.

C. XX — v. 79-87. In questi tre ternari lo nostro autore finge come, commosso per le cose dette di sopra dalla detta aquila da due dubbi; li quali dubbi erano noti a li detti beati spiriti che erano nella detta aquila, non potette tacere che elli non mostrasse ammirazione sopra li detti due dubbi, dicendo così: Et avvegna; ecco che fa nel suo parlare avversazione, dicendo: Ben ch’io; cioè Dante, fossi al dubbiar mio; cioè a li due dubbi, ch’io aveva, Lì; cioè in quel luogo, quasi vetro; ecco che fa una similitudine, cioè che come nel vetro si vede lo colore, di che è dipinto di fuori; così si vedeano in me li miei dubbi, che io aveva d’entro, da quelli beati spiriti: imperò che vedevano in Dio lo mio concetto d’entro; e però dice che, benchè elli fusse inanti a quelli beati spiriti quanto al suo dubbio, come è lo vetro, a lo color che ’l veste; cioè a qualunqua colore veste lo vetro di fuora o bianco, o nero, o qualunqua si sia, ch’ello dimostra incontenente; così dimostrai io li miei dubbi. Tempo tacendo aspettar non patio; cioè lo mio dubbiare sì era grave, che non patio d’aspettar tempo tacendo. Ma de la bocca; cioè mia di me Dante, Che cose son queste? cioè le quali io odo e veggo? Mi pinse; cioè pinse a me Dante lo mio dubbiare le parole dette di sopra, cioè: Che cose son queste? co la forza del suo peso; cioè co la forza de la sua gravezza, cioè sì m’erano gravi li miei dubbi che io non potei tacere ch’io non dicesse: Che cose son queste? et aspettare la soluzione della detta aquila. Per ch’io; cioè per la qual cosa, cioè per lo mio dire, io Dante, di coruscar; cioè di risplendere in quella aquila, viddi gran feste; cioè grandi letizie. Già è stato detto che le beate anime dimostrano letizia col fiammeggiare. Poi [p. 584 modifica]appresso; cioè dopo la corruscazione, coll’occhio più acceso; cioè la detta aquila coll’occhio suo più acceso, che prima, Lo benedetto segno; cioè l’aquila predetta, mi rispuose; cioè rispuose a me Dante. Per non tenermi in ammirar sospeso; cioè per non tenermi più in dubbio per lo quale io mi maravigliava, come appare nelle parole dette, cioè: Che cose son queste? Aveva detto la detta aquila che li beati spiriti, che l’uno, era lo primo allato al becco nel cillio dell’occhio, era Traiano imperadore, et ora appresso disse che lo quinto era Rifeo traiano; et amenduni costoro furno infideli, e però si meravigliava l’autore come fusseno salvati. E però diceva: Che cose son queste? Seguita.

C. XX — v. 88-99. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come la detta aquila incominciò a dimostrare a l’autore alcune proposizioni verissime, che saranno dichiaragione ai dubbi. E prima dimostra a lui com’ella vede lo suo dubbio in generale, dicendo così: Io; cioè aquila santa, veggio, che tu; cioè Dante, credi queste cose; cioè quelle, che io t’òne detto di Traiano e di Rifeo, Perch’io; cioè perchè io aquila, le dico; cioè a te, ma non vedi come; cioè non vedi come sia vero quello che io dico, Sì che, se non credute; cioè da te, sono ascose; cioè 35 non sono note a te, se non per lo credere. Fai; cioè tu, Dante, come quei; cioè come fa colui, che la cosa per nome Apprende ben; cioè sae bene come si chiama la cosa per suo nome, ma la sua quiditate 36; cioè la sua essenzia, Veder non puote; cioè colui, che cognosce la cosa per nome, s’altri; cioè se altri, non la improme; cioè non gliele manifesta. Et ora adiunge una proposizione mirabile e quella dichiara come si debba intendere, dicendo: Regnum Caelorum; questo dice l’autore in Grammatica 37, che viene a dire: Lo reame del Cielo, violenzia pate; cioè che gli è fatto forza et è acquistato per forza da queste due virtù; cioè: Dal caldo amore; cioè d’ardente carità, e da viva speranza; cioè da speranza ferma che l’omo abbia in Dio, la quale speranza non sia deficiente, Che; cioè la quale ardente carità e la quale viva speranza, vince la divina voluntate; ecco grande parola, cioè che la voluntà divina sia vinta, e così quella di sopra che l’regno del cielo sia violentato; ma elli dichiara come si dè intendere, quando dice: Non a guisa; cioè non a quel modo lo regno del cielo pate violenzia, nè la divina [p. 585 modifica]voluntà è vinta, che l’omo; cioè che l’uno omo, sovranza; cioè soprasta, all’om; cioè all’altro uomo: però che quine è impossibilità et impotenzia da la parte di colui che è vinto, e potenzia da la parte di colui che vince; e questo non è in Dio nè in el suo regno. Ma vince lei; cioè lo caldo amore e la viva speranza vince la divina voluntà, perchè vuole esser vinta; e questo esser vinta procede da infinita bontà: imperò che tanto è la bontà infinita d’Iddio, ch’ella vuole che la sua voluntà sia vinta da la virtù e da la bontà; e però dice: E vinta; cioè la divina voluntà, vince; cioè tutte l’altro cose, con sua benenanza; cioè co la sua bontà: la sua bontà è infinita et avanza tutte le cose, e per la sua bontà vuole quello che vuole la virtù e lo bene operare. E questo, che dice qui l’autore, si debbe notare 38 con una distinzione; cioè che due sono le voluntà in Dio; l’una è assoluta, e questa mai non si vince; ma ella vince tutto; l’altra è condizionata, cioè che Iddio vuole che, se tu se’ infidele, sii dannato; ma potrà tanto amore in Dio essere in te e sì viva speranza, e in altre parti che Iddio vorrà che quella prima voluntà non si tollia, ch’ella sta pur ferma, che ogni infidele è dannato; ma vuole Iddio che si trovi modo che si torni all’ordine che non sia infidele; ma diventa fidele, e così sta sempre ferma la volontà d’Iddio assoluta e condizionata. Ma l’autore parla secondo lo largo parlare delli omini, e dichiaralo sì bene, che a nessuno debbe essere dubbio, sicchè non intenda con sano intendimento quello che l’autore dice. Et usa l’autore in queste parole: E vinta vince, colore rettorico che si chiama traslazione per litem et contrarietates, quando lo supposito contradice al verbo, come appare nel predetto detto, cioè che vinta vince con sua benenanza. Seguita.

C. XX — v. 100-117. In questi sei ternari lo nostro autore finge come la detta aquila solve li suoi dubbi, toccandoli prima. Dice cosi: La prima vita; cioè l’anima prima che io ti nominai, che fu Traiano imperadore, del cillio; cioè mio, e la quinta; cioè vita, che fu Rifeo troiano che io dissi essere a me per cillio, Ti fan meravigliar; cioè fanno meravigliare te Dante, perchè ne vedi; ecco la cagione, per che tu ne vedi di questi due beati spiriti, La region delli Angeli; cioè lo cielo, che è regione deputata a li Angeli, dipinta; cioè adornata di loro. Dei corpi suoi non uscir; cioè le dette due anime, come credi; cioè, tu Dante, Gentili; cioè pagani 39 et infideli, ma Cristiane; uscitteno dei loro corpi, in ferma fede; cioè cristiana, Quel; cioè Rifeo troiano, dei passuri; cioè dei piedi di Cristo, che dovevano essere chiavati in su la croce per redenzione dell’umana [p. 586 modifica]natura, sicchè 40 Rifeo credette in Cristo venturo, cioè che dovevvenire, e quel dei passi piedi; cioè e Traiano imperadore ebbe fermi fede di Cristo che avea sostenuto; e però dice ch’elli uscitte cristiano del suo corpo, in ferma fede dei passi piedi; cioè dei piedi di Cristo che aveano sostenuto pena, chiavati in su la croce per nostra redenzione. Rifeo fu inanzi che Cristo sostenesse pena, per più di mille anni; Traiano fu po’ che Cristo sostenne pena, per cento anni. Et adiunge lo modo, acciò che si mostri ragionevole et iusta la loro salute, dicendo: Chè l’una; cioè imperò che l’ una, cioè delle dette due anime, cioè quella di Traiano, de l’inferno; cioè del luogo dello inferno, ù; cioè nel quale inferno, non si riede; cioè non si torna, Giammai a ben voler; imperò che chi è ne lo inferno mai non vuole se non male, tornò all’ossa; imperò che risuscitò. E ciò; cioè e quello risorgere in carne, di viva spene fu mercede; cioè fu merito di viva speranza, che Traiano ebbe in Dio sempre che lo illuminerebbe de la sua fede e di quello che ‘fusse sua salute, e questa speranza non perdette mai, anco sempre fu viva; e replica, dicendo: Di viva spene; cioè fu merito, che; cioè la quale speranza, misse la possa; cioè la potenzia, Nei prieghi; cioè di santo Gregorio, fatti a Dio: imperò che pregò per lui, come fu detto di sopra nella seconda cantica nel canto x, per suscitarla; cioè la detta anima, Sì che potesse sua vollia; cioè di Traiano, esser mossa; cioè dal paganesimo al culto divino et a la fede di Cristo. E questo finge l’autore che dicesse la detta aquila, per dimostrare che nessuno si può salvare per proprio merito, benchè lo merito altrui possa aiutare, pur vi si richiede lo proprio merito lo quale l’autore dimostra che fusse detto dall’aquila, che fusse lo merito de la viva speranza che ebbe in Dio; e questo aiutò lo merito di santo Gregorio, come appare nel testo. L’anima gloriosa; cioè di Traiano, onde; cioè de la quale, si parla; cioè ora da me aquila, Tornata nella carne; cioè risuscitata 41, in che; cioè nella qual carne, fu poco: imperò che poco vi stette, Credette in Lui; cioè in colui, cioè in Cristo, che; cioè lo quale Cristo, poteva aiutarla; come elli l’aiutò. E credendo s’accese in tanto fuoco; cioè in tanto ardore di carità d’Iddio e del prossimo, et iustizia; e però dice: Di vero amore: vero amore è quello d’iddio e del prossimo e de le virtù, ch’in; cioè che ne la morte segonda; cioè poi, quando l’altra volta l’anima si partì dal corpo, Fu degna di venire a questo loco; cioè fu degna l’anima di Traiano di venire a questo grado di beatitudine, lo quale si rappresenta in questo pianeto. per lo modo che è stato detto di sopra. Seguita. [p. 587 modifica]

C. XX — v. 118-129. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come, continuando lo parlare, la detta aquila li dice lo modo come si salvò iustamente l’altra anima; cioè Rifeo troiano, poi che àe dichiarato lo modo de la prima, dicendo così: L’altra; cioè beata vita, che è Rifeo troiano, per grazia; cioè divina, che; cioè la qual grazia, di sì profonda Fontana stilla; cioè esce di sì profonda fontana, che è la providenzia d’Iddio che predestina chi ella vuole a salute, e predestina chi vuole a dannazione, che mai creatura Non pinse l’occhio; cioè non fu mai creatura, che pingesse l’occhio suo nè della ragione nè de lo intelletto, infine a la prima onda; cioè a quella di sopra, non ch’elli vegga quella di sotto; cioè non fu mai niuno che vedesse le ragioni da presso, non che quelle da lunga. Tutto suo amor; cioè Rifeo per la grazia della divina providenzia, che lo predestinò a beatitudine, tutto lo suo amore, laggiù; cioè nel mondo, puose a drittura; cioè a diritura di iustizia. Per che; cioè per la qual cosa, di grazia in grazia: Iddio manda la grazia illuminante per sua providenzia, che viene da la sua infinita bontà; e, dopo quella, illuminata la volontà umana, vuole e desidera lo bene et Iddio l’aiuta ad averlo, e così dona la grazia cooperante, e così l’una grazia dopo l’altra infine che si viene a la perficiente e consumante, Iddio li aperse L’occhio; cioè de lo intelletto a Rifeo troiano, a la nostra redenzion futura; cioè a la redenzion, che Iddio dovea fare de l’umana generazione per lo suo Figliuolo umanato. Questa è fizione del nostro autore, come lo lettore intelligente può comprendere, che di questo non c’è alcuna prova; cioè che Rifeo troiano sia salvo; ma piacque a lui, per le parole che furno dette di lui da Virgilio, come è stato detto di sopra, di fingere che li fusse mostrato nel detto luogo et adducere le cagioni che potrebbono essere state iustamente effettive della sua salute, per mostrare come si potrebbe salvare uno che fusse in sì fatto caso, se a Dio piacesse servando l’ordine della iustizia divina, che sempre è accompagnata dalla misericordia; e per dire ancora della predestinazione d’Iddio, che è alta e profonda materia, sicchè nessuna cosa de la santa Teologia rimagna non toccata da lui. Onde credette; cioè per la qual cosa Rifeo illuminato 42, come detto è, credette et ebbe la nostra fede, in quella; cioè nella nostra redenzion futura, e non sofferse Da indi; cioè da quindi innanti lo detto Rifeo, il puzzo più del paganesmo; cioè non sostenne d’essere più pagano et infidele; e notevilmente disse il puzzo: imperò che ogni pagano pute, e [p. 588 modifica]questa è cosa che manifestamente si vede: imperò che, accostandosi uno cristiano ad uno infidele, sente da quello procedere uno grande puzzo di Iezo che non si sente dal cristiano: imperò che la carne sua è mondata per la passione di Cristo, e quella del pagano è infetta: imperò che ’l cristiano si lava ne la fonte del battesimo che lava insieme la carne e l’anima. E riprendène; cioè del paganesmo Rifeo, le genti perverse; cioè le genti rivolte da Dio al dimonio. Quelle tre donne; cioè fede, speranza e carità, li fuor per battesmo; cioè a Rifeo, Che tu vedesti; cioè le quali tu, Dante, vedesti, da la destra rota; cioè del carro figurato ne la cantica seconda nel canto xxxii, Dinanzi al battizzar; cioè inanti li funno per battesimo, che li omini si battezzasseno, più d’un millesmo; come detto fu, inanzi fu Rifeo che Cristo fusse nel mondo per più di mille anni, sicchè allora che vivea, finge l’autore che si facesse cristiano per lo modo che detto è di sopra. Seguita.

C. XX — v. 130-138 In questi tre ternari lo nostro autore finge che la detta aquila per le cose dette di sopra ponesse una esclamazione a la predestinazione d’Iddio, quasi meravigliandosi, dicendo così: O predestinazion; predestinazione è quando Iddio prevede che alcuno sia salvato, che non può essere che non sia; e prescienzia è quando Iddio provede che uno debbe essere perduto. E perchè l’autore parla qui de’ salvati, però dice: predestinazione e non prescienzia— , quanto remota È la radice tua; cioè la cagione tua: perchè Iddio voglia colui salvato, e quell’altro dannato, nessuno lo sa, da quelli aspetti; cioè da quelli intelletti, Che la prima cagion non veggion tota; cioè li quali non vedono tutto Iddio che è prima cagione, e niuna creatura è che perfettamente e pienamente vegga Iddio! E voi, mortali; ecco che ammonisce li omini, dicendo: E voi omini, che siete mortali, tenetevi stretti Ad iudicar; cioè non volliate iudicare: Tale è degno dello inferno, e tale del paradiso, chè; cioè imperò che, noi; cioè beati spiriti, che Dio vedemo; cioè li quali veggiamo Iddio, lo quale chi vede, vede ogni cosa che è possibile a vedere, dèsi intendere, Non cognosciamo ancor tutti li eletti; cioè non sappiamo ancora ogni uno che debbe essere salvato. Et ène dolce così fatto scemo; cioè et è dolce a noi avere questa ignoranzia; et assegna la cagione; Perchè ’l ben nostro; cioè di no’ beati, in questo ben s’affina; cioè in questo bene à sua perfezione, cioè: Che quel, che vuole Iddio; cioè tutto ciò, che vuole Iddio, e noi volemo; cioè e noi vogliamo: in questo sta la perfezione dei beati che elli volgliano ciò che vuole Iddio. Seguita.

C. XX — v. 139-148. In questi tre ternari et uno versetto lo nostro autore finge come si compiesse lo parlamento della detta aquila; e come quelli due beati spiriti, dei quali fu parlato di sopra, [p. 589 modifica]diedono grande splendore mentre che fu parlato di loro, dicendo così: Così; cioè come è detto disopra, da quella imagine divina; cioè da quella aquila, ne la quale erano li beati spiriti, che sono divini, Per farmi chiara; cioè per far chiara a me Dante, la mia corta vista; cioè lo mio intelletto, che era corto a comprendere le sentenzie dette di sopra della predestinazione d’Iddio, Data mi fu soave medicina; cioè dilettevole e non aspra. E come a buon cantor; ecco che, per dare mellio ad intendere, arreca la similitudine, buon citarista; cioè buono sonatore di chitarra, Fa seguitar lo guizzo de la corda; cioè fa accordare lo suono della corda ch’elli tocca, e come la tocca così guizza, In che; cioè nel quale accordare, più di piacer lo canto acquista: imperò che tanto piace lo canto, quanto s’accorda col suono, Sì mentre; cioè per sì fatto modo mentre, che parlò; la detta aquila, sì mi ricorda; cioè sì ricorda a me Dante: e questo è affirmativo, Ch’io viddi; cioè io Dante, le due luci benedette; cioè Traiano imperadore e Rifeo troiano, Pur come batter d’occhi si concorda; ecco che arreca una similitudine, cioè come amenduni li occhi de l’omo s’accordano a battere ad una ora, Colle parole; cioè dell’aquila, muover le fiammette 43; cioè loro e scintillare: imperò che erano contente che si manifestasse di loro la gloria d’Iddio, che riluceva in loro. E qui finisce lo canto xx, et incominciasi lo canto xxi.

Note

  1. C. M. Dante viene alla mente questo così fatto allo che detto è, che
  2. Fu tacente, ecco il verbo nella sua forma logica; cioè nella copula e nell’attributo. E.
  3. C. M. cioè comincionno canti a laude di Dio, Dalla
  4. C. M. caduci; cioè dimentichi della mente mia, sicchè io non li òe potuto ritenere. O dolce
  5. C. M. puoseno silenzio,
  6. C. M. in pietra; ecco che dimostra come scendino li fiumi de’ monti dell’ una pietra in su l’altra; e per questo fanno suono, per lo percuotere
  7. C. M. cioè suo tenere; imperocchè quine tiene lo sonatore
  8. Lape, l’ ape, congiunto l’ articolo al nome. E.
  9. La parte; cioè del corpo in me figurato che vede, cioè che à la virtù visiva, e parte del sole, Nell’ aquile mortali;
  10. C. M. sono in superlativo grado quelli che figurano li occhi. Colui;
  11. C. M. in luogo della pupilla della luce
  12. C. M. con la citara sua, et ivi egli predicea le cose che doveano essere, come lo inspirava lo Spirito Santo. Che
  13. Taule; tavole, come faula per favola e più sotto aula per avola, esemplando i Provenzali che pure aveano taula, faula ec. E.
  14. C. M. David cognosce ora, che è nella batitudine, lo merito
  15. C. M. ritimi, cioè in versi senza rime, cioè
  16. Pedonella riporta il nostro Codice e poiria valere femina popolare. E.
  17. C. M. vedova, donna di bassa condizione, consolò
  18. C. M. vita; cioè beata, la quale ora prova
  19. Grammatica; letteratura. E.
  20. C. M. re d’Israel, e l’altro
  21. C. M. lo re, sicchè lo re fuggitte con x suoi baroni, fu poi ucciso da’ suoi,
  22. Diece, seguendo il decem latino. E.
  23. Termino; termine, a doppia desinenza, come pomo, pome; vaso, vase ec. E.
  24. C. M. preco ; cioè degnamente et iustamente fatto, Fa
  25. C. M. del cillio allato all’occhio, co le
  26. C. M. a la fede da papa Silvestro, lasciò
  27. C. M. menzione nella seconda cantica nel canto vi, e finge l’autore che questo dica l’aquila preditta per esser scusato egli, Per ceder;
  28. Pongasi mente come il nostro Commentatore sciolga da maestro una quistione, che pure a’ nostri giorni sembra intricatissima. E.
  29. C. M. guerre; e però ben dice che’l mondo per quelle n’è guasto. E quel;
  30. Duca, adoperato colla medesima desinenza in ambi i numeri, come altrove papa. E.
  31. C. M. giù; cioè quale omo mortale crederebbe quello che dirò ora; e
  32. C. M. crederebbe; nel mondo che Rifeo gentile e non battezzato fusse in paradiso
  33. C. M. lodula: ma l’autore pone lo diminutivo, a dimostrare la sua parvità, che
  34. C. M. nascevano
  35. C. M. cioè sicchè sono ascose a le Dante, se non credute; cioè se non per lo credere; cioè tu credi queste cose, perchè te l’abbo dette; ma come siano t’è ascoso: imperocchè lo vedi lo modo. Fai;
  36. San Tommaso esponendo il libro d’Aristotile intorno alla Generazione e Corruzione, così dice: Quid quid est; idest quiditas, seu specics - Ed altrove: Quiditates rerum non sunt aliud a rebust nisi per accidens. E.
  37. In Grammatica; in latino, secondo la lingua latina. E.
  38. C. M. notare che la volontà di Dio non si muta mai, e ciò si dimostra con questa distinzione;
  39. C. M. pagane
  40. C. M. Rifeo finge l’autore che si salvasse, perchè credette
  41. C. M. risuscitata in carne per lo merito dell’orazione di santo Gregorio, in che;
  42. C. M. illuminato dalla grazia divina credette et ebbe la fede d’esser salvato nel Figliuolo di Dio, ch’egli manderebbe a fare la redenzione umana quando gli piacesse, in quella;
  43. C. M. fiammette; cioè di battere le loro fiamme e splendori; e questo era segno che erano contente
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