Cortona convertita/Canto 6

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Canto 6

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Canto 5


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CANTO SESTO.


ARGOMENTO.



Giunto ch’è il Padre al fin di predicare,
     Tutto il Popolo in piazza radunato,
     A proseguir l’esorta nel ben fare,
     E sempre star contro il Demonio armato
     Se vuoi del mal la tentazion schivare:
     Alfin di Cotta, e Stola preparato
     Licenzia il Missionario le persone
     Con la Santa Papal Benedizione.


I.


Correte pure a depredar Cortona,
     O voi, che dell’altrui avidi siete;
     Poichè fuori di quella ogni persona,
     Senza restarvi un cane omai vedete:
     Tutta la gente assai devota, e buona,
     A santa Maria Nuova troverete,
     Nel giorno d’Ognissanti radunata,
     Dal Missionario colassù chiamata.

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II.


Già convertiti avea gli abitatori
     Della Città, del Pian, della Montagna;
     Ogni coscienza avea con i terrori
     Assottigliata come una lasagna;
     E gli parve poter con degni onori
     Al pari andar col gran Scipion di Spagna;
     D’un Masaniello fra i Napoletani,
     O d’un antico Curzio tra i Toscani.

III.


Già della Chiesa, che di sopra ho detto,
     Nella gran piazza il popol radunato,
     Sopra di un palco a questo fine eretto
     Si vide il Gesuita esser montato
     Nel dì prefisso, e con benigno affetto
     Disse, ch’egli ben pronto, e preparato
     Era per terminar la sua Missione
     Con la Santa, e Papal Benedizione.

IV.


Quivi esortò ciascuno a far del bene,
     Sprezzare il Mondo, e le sue pompe vane,
     Vivere in pace, come all’uom conviene,
     Lasciare i vizi, e far Opre Cristiane,
     Serrar l’orecchie al canto di Sirene,
     Non mangiar carne cruda senza pane;
     Con santo zelo a tutti persuadeva,
     E con parole simili diceva.

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V.


Fratelli, oggi la Nave è giunta al Porto,
     La barca si salvò dalle procelle,
     E con fare un tantino il collo torto
     L’anime brutte si son fatte belle;
     Resuscitato è dunque chi fu morto,
     Ogni Caino è diventato Abelle;
     Tutti già negri come Gesuiti,
     Di mente or bianchi, e di cervel puliti.

VI.


Me ne rallegro in nome del Signore,
     E prego il ciel, che così sempre duri.
     Acceso intanto nel divino amore;
     Di restarne abbruciato ognun procuri;
     Acciò nel Mondo incenerito il cuore
     Resti purgato dai pensieri impuri;
     Onde si veda chi d’error fu tinto
     Da Santo poscia in un Altar dipinto.

VII.


Convien le male pratiche fuggire,
     Perchè all’anima dan sempre il tracollo;
     Voi ben sapete, ed io lo posso dire,
     Che fanno l’occasion rompere il collo:
     Chi poi quelle ostinato vuol seguire,
     Corre all’inferno, ed io spedito dollo,
     Perchè, de Philosophica sententia
     Motus est actus entis in potentia.

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VIII.


Non allargate poi tanto la mano
     Al viver licenzioso, ed al peccato,
     Ma con giudizio più maturo, e sano
     Considerate bene il vostro stato:
     Il peccar qualche volta è un atto umano,
     Ma è da demonio l’essere ostinato;
     E quel tornare al vomito sì spesso
     Sempre tien l’uomo a gran perigli appresso.

IX.


Spesso per troppo camminar si suda,
     Per il troppo tirar la corda è rotta,
     Resta in pentola pur la carne cruda
     Per il troppo bollir disfatta, e cotta:
     Troppo accostarsi alla materia nuda
     Suol rovinare ancor la gente dotta;
     E tanto al lardo va la gatta ardita,
     Che lo zampin vi lascia oppur la vita.

X.


Voglio insegnarvi a far la riduzione
     Dal male al manco male, e in tal maniera
     Chi tutto giorno casca in tentazione
     Ne serbi almeno intatta un’ora intiera;
     Per ogni mese un giorno si propone,
     E per un anno un mese poi di fiera;
     Libera sia la piazza dal peccato,
     Per non farlo sì spesso, e a buon mercato.

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XI.


Cosi, chi nel mal far dal ben declina,
     Torna dal caso obliquo, al caso retto,
     E coniugato colla sua rovina
     Lascia tutto il preterito imperfetto:
     Con modo, e tempo sua natura inclina
     Al bene oprare, ed al futuro eletto;
     Habitus bonae et malae qualitatis
     Actibus fieri solet frequentatis
.

XII.


Dei più gravi peccati una radice
     L’interesse fu sempre, e l’avarizia;
     Che poi fomenta in gente peccatrice
     Di S. Paol la febbre, e la malizia;
     Questo peccato in voi riprender lice,
     Che più d’ogni altro il cuor vi macchia, o vizia;
     E alle frodi, all’usure, alla rapina,
     Per la roba non sua ciascuno inclina.

XIII.


Oh maledetto, e perfido interesse,
     Che dalle brache uscito de’ Giudei,
     E tra i Cristiani entrato in forme espresse,
     Questi peggiori fai de’ Farisei!
     Sono prerogative a te concesse
     In ogni Foro riportar trofei;
     Madonna Astrea tien sol per tuo decoro
     Nelle bilancie sue le stelle d’oro.

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XIV.


Nel Mondo il tuo, e il mio introducesti,
     Ogni arte, e profession falsificasti;
     Tu nelle corti il turciman facesti,
     A rovescio ogni legge interpetrasti,
     A procelle di mar l’uomo esponesti,
     E dei sbirri la razza propagasti;
     Alla coscienza poi si mal ridotta
     La corazza mettesti, e ’l petto a botta.

XV.


Ma perchè son gli estremi ognor viziosi,
     L’esser prodigo ancora è molto male:
     Oh quanti giovanacci scandalosi
     Mandano larghe spese all’ospedale!
   „ Chi ’l suo scialacqua in modi licenziosi,
     Di vacchetta diviene uno stivale;
     Ridotto poi come candela al verde
     Senza lume rimane, e sempre perde.

XVI.


Bisogna dunque i vizj omai lasciare,
     Che all’anima vi son tante catene,
     Per farla dentro dell’inferno stare
     Sempre legata in sempiterne pene.
     Molto conviene a ciaschedun sudare
     Nel negoziare i suoi talenti in bene:
     Solo chi s’affatica, vien premiato,
     E la mercede aspetta un che ha zappato.

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XVII.


Voi, Padri, e Madri, buon esempio date;
     Ed obbedir voi figli a lor dovete:
     Voi Bacchettoni sempre Iddio pregate
     Per tutti i peccatori che sapete;
     Dagli occhi altrui festuche non cavate
     Pria delle travi che nei vostri avete,
     E tutti unitamente, e di buon cuore
     Ubbidite il Curato, e il Confessore.

XVIII.


Al vostro Monsignor tanto garbato
     Portate ogni rispetto, e riverenza,
     Perchè stimato egli è per un Prelato
     Di buona pasta, e dolce di coscienza;
     Chi fin’ora se n’è scandalizzato
     Per l’avvenir sopporti con pazienza;
     Che finalmente poi non ha il meschino
     Altro peccato, ch’esser femminino.

XIX.


Di questo suo parlar fu poi concetto
     Fatto da molti, che dicesse male:
     Altri disser, che bene avesse detto
     Senza toccar tal punto principale;
     Per inferirne che il Pastor predetto
     Non fosse al Gregge suo di genio eguale;
     Ma sol per differenza fu mostrato
     Un Popol matto, e un Prete spiritato.

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XX.


È necessario, egli dicera ancora,
     Sbandir dal vostro cor odio, e vendetta;
     Se poi volete che il nemico muoia,
     Vi posso dir, che chi la fa l’aspetta.
     Col perdonar l’offese Iddio s’onora,
     E l’esempio di Cristo a ciò vi alletta;
     E perchè questo a Dio cotanto piace,
     Gridi dunque ciascun, viva la pace.

XXI.


Quindi alcuni da lui furon chiamati
     Ad alta voce, com’è appunto usanza
     Farsi nelle rassegne de’ soldati,
     Quando son posti tutti in ordinanza;
     Coi lor nemici rappacificati
     Furo alla sua molto importuna istanza;
     E per chi perdonava in cortesia:
     Fece a ciascuno dir l’Ave Maria.

XXII.


Diceva poi: orsù diletti in Cristo,
     In tuono state con le vostre cose;
     Penso che in buon si sia cangiato il tristo
     Cor già compunto; punto, eco rispose:
     Or se volete far del Cielo acquisto,
     E far di Cristo le vostr’alme spose,
     Digiunerete questo sacro Avvento,
     E da quei monti eco rispose, vento.

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XXIII.


Ma de’ peccati già da voi commessi,
     Per la mia parte assicurar vi posso
     Essere stati a voi tutti rimessi;
     Ed io son quel che me li presi addosso,
     Sopra le spalle mie; acciò che di essi
     Non dubitiate averne a roder l’osso,
     E qual bestia da soma, e da vettura
     Gli porterò fino alla sepoltura.

XXIV.


Così tutti contriti, e ben disposti,
     Finalmente vi voglio benedire:
     Il Santo Legno adunque a voi s’accosti,
     Mentre con esso in man comincio a dire;
     Ch’egli vi scampi da far conto d’osti,
     Da vetturini, e lor creanze, ed ire,
     Da parola di sbirro, e mala femmina,
     Da chi riporta, e che zizzanie semina.

XXV.


Io prego ancora il Ciel, che in ogni loco
     Vi liberi dall’acqua che vi anneghi,
     Di Sant’Antonio dall’ardente fuoco,
     Dalla mano di sbirro, che vi leghi,
     Da fare in corda con le braccia il gioco,
     Da crudo ferro, che a voi il collo seghi,
     Da quel che fu di Romolo germano;
     E dal telaio di Mastro Bastiano.

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XXVI.


Vi mantenga per sempre l’abbondanza
     Di grano, vino, frutti, e d’ogni cosa;
     Dentro, e fuori vi accresca ogni sostanza,
     E la Città non sia mai penuriosa;
     D’olio per unger non vi sia mancanza,
     Sia per rinfresco la campagna acquosa,
     Ma dove il grano seminato cresce
     Non vi saltin ranocchie, e nuoti il pesce.

XXVII.


L’orzo vi cresca, con la fava dura
     Per mantener moltiplicata gente;
     Con la saggina alla progenie oscura
     Dia faglioli, piselli, ceci, e lente,
     Spinaci, ed altri erbaggi da pastura;
     D’asini, porci, e buoi proveda il dente;
     E d’ogni cibo vi contenti appieno,
     Rape, ghiande, castagne, paglia, e fieno.

XXVIII.


I vostri colombai, e le galline
     Non possino giammai esser soggetti,
     Nè ve li mangin mai volpi, o faine;
     Faccian le grosse troie assai porchetti,
     Le pecore agnelletti; e vitelline
     Le vacche, vostre mogli tra i diletti
     Ogni quaranta dì, come conigli,
     Vi partoriscan sei, o sette figli.

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XXIX.


Voglio lasciarvi, perchè ho già finito.
     Pregate Iddio per me con divozione;
     E se udirete mai, ch’io sia basito,
     Ditemi in carità cento corone:
     Ora mostrate tutti il cor contrito,
     Che voglio darvi la Benedizione:
     Dio vi conservi, e sia conforme io dico,
     In Nome Santo; amen, vi benedico.

XXX.


Così questa Mission fu terminata
     Con tanta fama del buon Gesuita.
     Non fu però di lunga, e gran durata
     La conversione, e mutazion di vita:
     Fu la mente d’ognuno al Cielo alzata
     Qual fiamma appunto dalla paglia uscita,
     E come fa un baleno a notte oscura,
     O moto repentin, che poco dura.

XXXI.


Perchè ben presto del ben far la via
     Lasciar si vide, e si mutò casacca:
     Ritornavan le Donne in beccherìa,
     E con il toro ritornò la vacca,
     Il verro con la troja, e chi si sia
     Alla coscienza sua levò la biacca;
     Parendo a tutti d’aver fatto assai,
     Ricominciorno a far peggio che mai.

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XXXII.


Come di faggio, o pur di quercia annosa,
     O vecchio ulivo antiche scorze, e dure,
     O d’altra pianta, o d’arbore frondosa
     Taglia, o recide raffilata scure,
     Fresca sotto la terra e vigorosa
     Resta sol d’essi la radice; eppure
     Questa l’umor natìo nutrendo pasce,
     Verde germoglia, e l’albero rinasce.

XXXIII.


Tal è col vizio appunto la coscienza,
     In grosse piante videsi indurita,
     E con l’accetta della penitenza
     Atterrata restò dal Gesuita:
     Ma poi successe alla di lui partenza
     Presto ritorno alla viziosa vita;
     E del peccato la radice stessa,
     Come un pin con le foglie, già rimessa.

XXXIV.


Per allettar con ciarle, e suoni, e canti,
     Con scherzi, e motti, e favole giocose,
     I Ciarlatani, e simili birbanti,
     Vennero a trattener le genti oziose:
     Non mancarono ancor mani zelanti,
     Che hanno fin sulle dita unghie pietose,
     Che il palco poi di tavole composto
     Portaro a casa ov’è tuttor riposto.

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XXXV.


Così finita è questa bella istoria
     Di sciocca gente a cui ho dato il sale:
     Così della Missione ogni memoria
     Fece tosto svanire il Carnevale;
     E un’opra buffa in cosi bella gloria
     Del Gesuita si mostrò rivale;
     E come Siena in un dettato nota,
     Fecero tutti come il Padre Rota.

XXXVI.


Or se si trova alcuno a cui dispiaccia
     Questo mio stil che fere ovunque tocca;
     E che di gran satirico la taccia
     Mi voglia dare, oppur di rima sciocca,
     Dietro mi dia di naso, e poscia a faccia
     Venga a quattr’occhi, e tratteremo a bocca;
     Che spesso ancora a ritrovar si vanno
     Gli uomini, che di naso alfin si danno.

XXXVII.


So molto ben, che per cervel balzano
     Giudicato mi tiene in sua sentenza;
     Ma se mi dà da galantuom la mano,
     Ceder gli voglio in ciò la precedenza;
     E se non è d’ingegno grossolano
     M’impresti il libro della sua coscienza;
     In cui de’ fatti suoi fatto un raccolto,
     Io gli prometto d’impararci molto.

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XXXVIII.


Il far del dir fu sempre il fondamento,
     Cosa detta non è che non sia fatta,
     Del Poeta la lingua è uno strumento,
     Che qual pennello di color s’imbratta;
     E qual pittore a disegnare intento,
     Ciò che ode, e vede, con figura tratta;
     La tela colorita ognun che vede,
     Immagine del vero esser la crede.

XXXIX.


Ho detto male, è ver, di chi l’ha fatto,
     Ma doppio mal fece chi il fece, e il disse;
     Chi i propri errori palesò fu matto;
     Pazzo chi lo permise, e chi lo scrisse;
     Mal si riduce una potenza all’atto
     Per chi buon fine avanti non prescrisse:
     Ma per Macchiavellistica dottrina,
     Chi mal fa dica ben, che l’indovina.

XL.


Il vero scrissi appunto, e solo in parte
     Innestar vi volgi io qualche fioretto,
     Che dei Pittori, e de’ poeti è l’arte,
     Il fingere oltre il vero ogni soggetto:
     Quindi la verità ben si comparte
     Fra le bugie con lepido concetto:
     Contrario appresso il suo contrario rende
     Quello più chiaro, e fa che più risplende.

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XLI.


Se poi scherzi ridicoli trovate,
     Che son capricci d’un allegro cuore,
     Voi che leggete i versi miei sappiate
     Gustare in quelli il critico sapore:
     Son le vivande con il sal più grate,
     Carne con salsa, e pesce con savore;
     Ed ognun, che ha piacer a rime, o prose,
     Ha caro ancor averle assai graziose.

XLII.


Ma tempo è omai di dar fine al mio Canto,
     E dar licenza a voi che m’ascoltate:
     Scusami per pietade o Padre santo,
     Di tue glorie da me sì mal cantate,
     E se poco ne dissi; voi frattanto,
     Cari Merlotti miei, pur mi scusate,
     Se nel mettere in carta il fatto vostro
     Scriver non seppi con migliore inchiostro.


Fine dell'ultimo Canto