Cuore infermo/Parte Terza/V

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Parte Terza - V.

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Parte Terza - IV Parte Quarta


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V.


— È permesso di fumare qui? — domandò Mario Revertera a sua figlia.

— Le vostre sigarette, sì.

— La tua casa è troppo solenne, figlia mia; sembra una chiesa.

— Sì, me lo hanno detto — rispose Beatrice, sorridendo.

— Ecco: cerca di cambiare quest’apparenza troppo grave.

— Non vi piace il gusto dell’appartamento?

— È bello, se vuoi; ma troppo bello. Fate conto di dare dei balli quest’anno?

— Credo di sì. Ne ho parlato con Marcello, di sfuggita. Saranno due o tre solamente.

— S’intende. Marcello ha piacere di ricevere?

— Naturalmente; ma non sta molto in casa.

— Me lo hanno detto — soggiunse Revertera, togliendosi la sigaretta di bocca e fissando sua figlia.

— Chi? — chiese costei, alzando il capo dal suo telaino da ricamo.

— La gente che lo vede fuori di casa, che lo incontra dappertutto, fuorchè qui.

— Vi è nel mondo molta gente disoccupata — osservò ella, riprendendo il suo lavoro.

— Molta, mia cara. Gente disoccupata che si diverte ad annoiare il resto della umanità.

— Ed allora a che raccoglierne le voci?

— Non si raccolgono, cara mia; ti entrano a viva [p. 137 modifica]forza nelle orecchie, nel cervello e vi rimangono. Poi le senti ronzare, susurrare, mormorare, anzitutto mormorare...

— L’aria della calunnia, papà?

— Tal quale. Hai ragione di ridere. Ma il fastidio è tale, che si finisce col volere a forza saperne la verità. Temo una cosa, cara Beatrice; che tu sia troppo sorda a queste voci.

— La mia è saggezza; voi me lo avete insegnato.

— Comprendo. Ma infine... le apparenze...

— Grandi parole; non mi piacquero mai.

— Anche questo te l’ho insegnato io. In fondo hai ragione tu.

— Grazie, papà. Fu lieta la vostra permanenza in Sicilia?

— Oh! sì, molto. Ci siamo divertiti un mondo. Sai che abbiamo tanti parenti a Palermo; avevamo riunito un bel circolo. Ci sono state anche le corse. La primavera è stata ridente. Non mi chiedi notizie della tua matrina?

— ... Volevo farlo. Sta bene la marchesa?

— Benissimo. Qualche attacco nervoso ogni tanto; roba da nulla. Ella ritorna in questa settimana. Anche io sarei tornato prima, se non avessi contato sopra un altro mese della vostra permanenza a Parigi.

— Avevamo visto tutto; siamo tornati.

— Molto improvvisamente. Del resto, gli sposi sono capricciosi; non bisogna chieder loro cose ragionevoli.

Beatrice approvò col capo, svolgendo il gomitolo di filo d’oro con cui ricamava... Mario accese un’altra sigaretta. Era venuto là con la intenzione netta e decisa di dir tutto, ma la sorridente apatia di sua figlia lo disarmava. Al postutto, ci doveva essere della esagerazione in quello che aveva inteso.

[p. 138 modifica]— Vi siete divertiti in questa primavera? — chiese, dopo una pausa.

— Abbastanza. Le corse sono state splendide.

— Vi sei andata con tuo marito?

— Sì, ma non insieme. Egli era nel drags con una compagnia di giovanotti; io nella daumont con Amalia Cantelmo.

— State molto poco insieme.

— Con Amalia?

— Con tuo marito.

— Ma no. Mi accompagna qualche volta.

— È troppo poco; anche qui, in casa, avete presto pensato a separare i vostri appartamenti.

— Non è l’uso?

— Cara mia, l’uso è fatto dalla nostra volontà.

— Va bene. Ma sapete che io ho le mie ore stabilite; Marcello rientra molto tardi, alle volte, e mi disturberebbe.

— Infatti, ma...

— Anche in casa nostra vi erano due appartamenti separati, caro papà.

Egli la guardò, turbandosi. Vi era una intenzione in quelle parole? A che rievocare quel passato? Beatrice ricamava placidamente, senza osservare l’effetto delle sue parole. Il duca si sentiva agitato. Cercava di sembrare noncurante, leggiero, come al solito; ma non vi riusciva. La vita non è sempre un bel giuoco e pel più profondo egoista vengono momenti in cui convien prenderla sul serio. Anche quel giorno, il caldo di una giornata di luglio lo rendeva singolarmente irritabile: sua figlia lo impazientiva con quella flemma. Avrebbe voluto dirle qualche cosa che le facesse una viva impressione, che sciogliesse un poco di quel ghiaccio roseo che la circondava.

[p. 139 modifica]— Ho visto Marcello tre o quattro volte dopo il mio ritorno — riprese egli, distendendosi sulla poltroncina e contemplando il soffitto — non mi persuado che egli stia bene.

— Non è stato mai ammalato.

— Vogliamo discorrercela da buoni amici, Beatrice? Ci vogliamo parlare francamente, senza tanti complimenti?

— Io posso ascoltare quello che volete.

— Lo so, che sei una donna di spirito. Cara Beatrice, io credo che tuo marito non sia molto felice in casa sua.

— È lui che vi ha detto ciò? — esclamò ella, arrossendo di sdegno.

— Nemmeno per sogno. Vai in collera, ora?

— No; vi sto ad udire con molta attenzione, padre mio.

— Bisogna confessare che abbiamo avuto la mano mal destra nello sceglierti lo sposo. Un carattere, un temperamento opposto al tuo.

— Così è.

— Ti confesso che mi ero accorto di qualche cosa prima del matrimonio. Mi lusingavo che l’amore...

— L’amore?

— Hai ragione sempre, sono idee sciocche. Sai, figliuola, alle volte il sentimentalismo ci vuole. Tu hai un bel carattere, ne convengo. Ma non è quello che può piacere ad un uomo innamorato... ti dispiaccio?

— No, proseguite.

— Poi, i giovani non sono mai scettici sul serio. Fingono di sogghignare di fuori e fantasticano di dentro. Fanno della poesia: è un’assurdità, siamo d’accordo, ma la fanno. Ve ne ha di quelli che vogliono la passione nel matrimonio. O io mi inganno, o Marcello è uno di questi. È vero?

[p. 140 modifica]— Forse; andate pure innanzi.

— Ebbene, cara figliuola, tu sei troppo saggia, troppo seria, troppo riflessiva per un poeta simile. Egli ne soffre assai, te ne sarai accorta. È una follia, lo so. Ma che farci? Non potresti tu, così per contentarlo, volergli un po’ di bene?

— Io gliene voglio.

— Capisco. Un po’ di più o diversamente...

— Siete voi ora che fate della poesia, papà.

Egli arrossì un poco. Sua figlia lo feriva con la medesima sua arma. Si sentiva debole ed indifeso, davanti a quella donna che era la sua immagine.

— Vi sono costretto, giacchè siamo incappati in Marcello Sangiorgio. Egli ti ama molto, Beatrice; tu potresti fare qualche cosa per lui. Infine, dicono che l’amore esista. Sarà bene; ma chi ti conosce, potrebbe dubitarne.

— Eppure, voi trovate buono il mio carattere, papà.

— ... È vero, naturalmente. Ti chieggo di fare un grande sforzo... di vincerlo questo carattere...

— In verità, non vi riconosco più.

— Non mi riconosci, non mi riconosci! Molte cose si dicono, ma poi si finisce per essere uomini come tutti quanti. Sii donna, cara mia. È la parte di voi altre quella di amare.

— Io non posso cangiarmi da quella che sono, papà.

— Non lo puoi o non lo vuoi?

— Forse, non lo posso; certo, non lo voglio.

— Io sono tuo padre; se io te ne pregassi?

— Sarebbe inutile — rispose ella freddamente, abbassando il capo.

Egli comprese quanta ferma risoluzione fosse in queste parole. Perdeva terreno ad ogni frase e se ne indispettiva vivamente.

[p. 141 modifica]— Non posso obbligarti. Voglio solo aggiungerti che questo vostro segreto familiare non è rimasto in casa e che fuori se ne discorre. Si compatisce tuo marito, Beatrice, e questo non può piacere nè a me nè a te.

— Me ne duole per voi.

— Non vedi tu che tuo marito fugge la casa? Egli esce il mattino per ritirarsi la sera, anzi la notte, ad ora avanzata; non ti accompagna, non cura di venir teco, passa le giornate senza vederti, gli sei fatta estranea: non è vero tutto questo?

— È vero.

— Non te ne senti offesa, almeno nella vanità? Io non ci capisco più niente. Voi altre donne, se non avete l’amore, avete almeno l’amor proprio.

— Io non penso a questo.

— Benissimo. Allora non ti deve importare il capriccio di tuo marito; un capriccio che sta per diventare una passione.

— Quale capriccio? — chiese ella, alzando gli occhi in volto a suo padre.

— Per la D’Aragona. La vedova di Gigino, una donna seducente. Hai dovuto vederla qualche volta. Tuo marito è sempre là da mattina a sera.

— Come lo sapete?

— Lo so di certo e ti basti. Il suo coupè è sempre fermo davanti al palazzo di Lalla D’Aragona. Egli va a dimenticarti colà. A te questo non importa. Ma vi è dell’altro. Ogni mattina tuo marito riceve una lettera, carattere femminile, daivisa poetic...

— Sarà dunque la contessa D’Aragona che gli scrive.

— È un’altra. La contessa ha il suo stemma. Ma non scrive mai. Egli non risponde a queste lettere, ma passa tutto il tempo presso quella donna piena di fascino.

[p. 142 modifica]— Forse quella compagnia lo diletta. Dicono che la contessa abbia molto spirito.

— Non si tratta di spirito, si tratta di cuore. Te lo ripeto, non si resta molto tempo presso la D’Aragona, senza amarla. È proprio lei la donna moderna, la donna appassionata, strana, forse superficiale, delicata, ammalata, nervosa, capricciosa, dalle apparenze varie che tutte seducono; la donna fatta per piacere alla inquieta e raffinata gioventù moderna.

— Piace anche a voi una tale donna?

— Questo non serve. Marcello ci si perde. Una prova: voi andate a Sorrento, a villa Sangiorgio, per la villeggiatura?

— Certo.

— Ebbene, la D’Aragona ha comperato villa Torraca, che è vicino alla vostra.

— Sarà stato un caso.

— Non è un caso. Io conosco il cuore umano, Beatrice, e talvolta non mi consolo di questa scienza. Se la contessa vuol partire per un paese qualunque, Marcello la seguirà.

— Non credo.

— Lo farà. Sarà uno scandalo orribile. Diventeremo molto ridicoli.

— Se avviene, bisognerà rassegnarsi.

— Come rassegnarsi?

— Dite che questa donna è tanto bella, tanto amabile! Che posso io fare contro lei? Nulla. Mio marito non mi ama più. È anche inutile che io mi dia la pena d’amarlo.

— Tu non hai il cuore di tua madre, Beatrice — disse il padre, ma subito tremò per la incauta e trista parola.

— Io lo spero — diss’ella con voce profonda.

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Mario Revertera passeggiava, irrequietissimo, nel salotto. Egli, l’ironico spettatore dei drammi umani, nel risveglio della sua coscienza, diventava attore di un dramma. Era trascinato da una corrente irresistibile, dove si annegava il suo freddo sarcasmo. Beatrice col capo appoggiato alla mano, pensava, si raccoglieva, forse. Non chiedeva a sè stessa se era giusto di parlare, di parlare per la prima e l’ultima volta a suo padre, del passato. Sapeva di essere nella giustizia. Cercava l’equità delle parole.

— Potete udirmi a vostra volta, padre mio?

— Sono ai tuoi ordini.

— Grazie. Sapete voi di quale malattia è morta mia madre, donna Luisa Revertera?

— ... Io... io non so bene... il dolore di quella morte improvvisa... — rispose egli, balbettando, impallidendo.

— Io lo so. Ella è morta di una malattia di cuore. Nessuno sapeva che l’avesse, ella non ne disse niente a nessuno. Mancò accanto a lei la persona amante che indovina, che presente il male; e la povera donna lo portava con sè, in ogni palpito del suo cuore infermo. Non v’irritate, padre mio. Abbiate pazienza; anche io ne ho avuta e molta, con chi non mi ha risparmiato la verità. Lasciate che io vi finisca la piccola storia di mamma mia. Ebbene, quel povero cuore infermo, che batteva così irregolarmente, che si gonfiava di sangue o rimaneva immobile per momenti, quel cuore infermo amava fervidamente, con tutte le sue forze, con una devozione cieca ed ostinata. Noi due non ne sappiamo nulla, padre mio; ma l’amore esiste e mia madre lo sapeva. Lo sconfinato suo amore non fu inteso, non fu ricambiato, o per poco: ell’era timida, sommessa e poco [p. 144 modifica]espansiva. Tutto chiudeva in quel cuore che era la sua vita e la sua morte. Pare che allora vi fosse ancora qualche giovane scettico che non credeva alla passione nel matrimonio. In un modo o nell’altro, donna Luisa Revertera non ebbe fortuna. Ella amava e taceva, era inquieta e taceva, era gelosa e taceva; il cuore le diceva: io sono infermo, io non posso sopportare tutto questo, io ne morirò — ed ella soffocava anche questa voce, camminando al suo destino, chiudendo gli occhi per non vedere la via. Vi pare una storia inverosimile? È vera invece. La notte talvolta, quando le ansietà si accumulavano, il palpito del cuore diventava precipitoso, il respiro si affannava, il volto diventava terreo, le mani si gonfiavano: ella ha dovuto molto soffrire. Dicono che accogliesse molto bene la donna per cui era tradita, che la baciasse anche. Lo credo. Ma mia madre è morta molto giovane, molto giovane, in una notte di maggio.

Egli non seppe pronunciare una parola. D’un tratto sua figlia gli parve cresciuta davanti a lui, divenuta colossale, divenuta la sua coscienza giudicatrice, senza rimproveri, ma senza misericordia. La fissava interrogandola ancora con lo sguardo. Non era tutto, doveva dirgli ancora altro.

— Queste malattie del cuore si ereditano, come la tisi e la follia — riprese ella, lentamente.

E rimase assorbita nel suo pensiero.


— Ebbene, padre mio, io non voglio avere il cuore di mia madre, non voglio morire come lei. Io desidero di vivere lungamente. Così come vivo, la vita mi piace. Mi spaventa l’idea della morte, della tomba, del buio, del freddo. Voglio vivere, lo ripeto. Ho rivestita, da [p. 145 modifica]fanciulla questa parvenza che tutti dicono indifferenza, e ne ho tanto avuto bisogno, che è divenuta il mio carattere. Tanto meglio. Chiamatelo egoismo. Non lo nego; ma io so che voi non potete chiamarlo così. Io non farò un passo, un gesto per abbandonare la mia salvaguardia; io non intendo i sacrifizi, le abnegazioni. Voi lo avete detto: io non ho il cuore di mia madre. Fosse anche vero che nessun legame vi sia fra il cuore fisico ed il morale! Se il germe del male è in me, non io volonterosa gli darò la facoltà di scoppiare; io non amerò, io non sarò inquieta, ansiosa, gelosa, io non soffocherò i miei dolori ed i miei lamenti. Se la cattiva fortuna ha voluto che io sposassi Marcello Sangiorgio, uomo di me innamorato, io vincerò la cattiva fortuna. Se egli cerca fuori di casa altre consolazioni, non posso dolermene. Nè voi chiedetemi altro, nè costringetemi a ripetere quanto ho detto, perchè questo mi turba. Fo di tutto per creare intorno a me la quiete; non vogliate distruggerla. Per lasciarmi vivere, lasciatemi tranquilla.

Rimasero silenziosi. Il viso pallido di Beatrice riprendeva il colorito roseo; il padre la fissò in volto lungamente, ansiosamente.

— Tu hai ben detto — egli mormorò con voce tremante. — Il Signore ti dia lunga vita.

— Grazie, padre mio.

Egli uscì. Ella restò immobile un momento, poi avvolse il gomitolo, appuntò l’ago sul ricamo, coprì tutto con la tovaglia di tela e andò a riporre il telaio al suo posto.