Dal Trentino al Carso/La titanica lotta nel Trentino/La battaglia sulle vette

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La battaglia sulle vette

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LA BATTAGLIA SULLE VETTE.

Vicenza, 14 luglio.


Nulla si muove sulle strade polverose che venano di bianco i freschi prati della conca contornata di monti. Il nemico le vede e le batte, ed esse, deserte, snodano verso i paeselli abbandonati il loro sottile nastro senza vita, sbocconcellato dai colpi, che rasenta rovine di cascinali dalle quali si spande ancora un odore di stalla e di fieno.

Vi sono paesaggi in cui questa solitudine sinistra della battaglia sorprende sempre, e pesa, e affanna, e angoscia, come il segno più evidente di una truce desolazione delle cose. Pare che sulla terra rigogliosa e abbandonata gravi un senso misterioso di accasciamento e di terrore. Tutto è fermo, raccolto, aspettante, spaurito, oppresso.

Solo il fumo si sposta, si agita, corre, torce [p. 65 modifica] qua e là le sue volute, balzando su improvvisamente dagli scoppi in forme grigie, dense, enormi, che si divincolano, si attorcono e si dissipano, con qualche cosa di spettrale, trascinando sulla campagna la loro grande ombra che svanisce. Il fumo degli incendi turbina nei villaggi demoliti, ne empie le stradine morte, ingombre di macerie, e le sue spire diafane si inseguono in fondo ai crocicchi degli angoli franati, animate e fuggenti. Il fumo è la sola cosa che viva, di una vita favolosa ed effimera, e lo sguardo è continuamente chiamato dall’apparizione successiva di nembi che sorgono gesticolanti dalla terra squarciata.

Delle rovine di Asiago e delle rovine di Gallio hanno ricominciato a bruciare sotto le granate incendiarie. Le casette scoronate e bucate dei villaggi che biancheggiano aggruppate in mezzo alle praterie come greggi spauriti, esalano nubi grige che la brezza trasporta e disperde nel sereno. Il rimbombo e l’eco delle cannonate scrosciano con lievi intervalli nella vallata risuonante, e scende dall’alto il fragore uniforme delle granate maggiori che solcano lo spazio col loro strepito cupo di treni in fuga. Da ieri la battaglia è entrata in una nuova fase di attività.


Dopo un rallentamento durato tre giorni, causato dalle nebbie e anche dai preparativi per [p. 66 modifica] un’azione più violenta, il bombardamento ha ripreso con un vigore maggiore. Dall’Adige al Brenta l’attacco italiano non ha avuto mai sosta, ma la sua intensità ha variato. A fasi di assestamento succedevano fasi di impeto, sempre più vigorose, a mano a mano che i mezzi si accumulavano.

La nostra offensiva è paragonabile allo sforzo costante del lottatore che ha avvinghiato l’avversario e che, nella tensione continua dei suoi muscoli, ha ogni tanto uno scatto più vivo, un sussulto più forte, un colpo di spalla più energico. Dalla difesa accanita siamo passati all’attacco a poco a poco, giorno per giorno, irresistibilmente ma gradatamente, e la nostra azione contro le forze enormi che ci erano opposte ha avuto ed ha i caratteri della pressione, non quelli dell’urto. Anche perchè noi risaliamo.

Il nemico, che ci sovrasta, trova ad ogni ripiegamento delle posizioni di maggiore resistenza. Esso, battuto, non precipita: ascende. Assalendoci, calava su di noi; assalito si innalza. La fuga lo rafforza. La ritirata gli dà una linea sempre più breve, sempre più facile, e delle difese sempre più solide. Ci battiamo in un immenso anfiteatro di montagne che dobbiamo scalare.

I nostri soldati arrivano a scalare miracolosamente anche l’inaccessibile, come sulle [p. 67 modifica] dirupate pendici del Monte Corno, alla sinistra, come fra le balze rocciose del Monte Chiesa, alla destra; ma prendervi piede è difficile per fronteggiare contrattacchi che innumerevoli osservatori sovrastanti guidano, e che hanno spesso la violenza meccanica del peso che cade. Ah, se non ci si battesse sempre verso delle cime!

Una gran parte della forza nemica contro di noi è dovuta a questa fatale conformazione del terreno, sulla quale l’Austria aveva fatto i suoi calcoli. E fra le mille prove della preparazione meticolosa della guerra d’invasione all’Italia, basterebbe quella della usurpazione della Cima Undici e la Cima Dodici, di quei «quattro sassi» come si disse da noi bonariamente cedendo, che sono le sommità dominanti del terreno, gli immani castelli di roccia che comandano tutta la regione, gli osservatori che scorgono ogni nostra mossa. Salire, salire sempre, salire per aspre balze tormentate e rotte, salire faticosamente per passaggi obbligati, angusti e micidiali, salire combattendo, con il nemico sopra: ecco la necessità inesorabile della nostra guerra.

L’offensiva nostra è tenace, incessante, risoluta, ma l’avanzata non può essere che faticosa e lenta. La guerra è però su tutte le fronti, si incatena, e dobbiamo apprezzarla nei risultati generali. I progressi trionfali delle armate russe sono un po’ vittoria nostra, come i successi franco-inglesi sono un po’ vittoria russa. Nella [p. 68 modifica]collaborazione degli Alleati spetta a noi in questo momento il duro compito di trattenere il massimo delle forze austriache contro di noi. Ci riusciamo. Contribuiamo così potentemente a indebolire le difese dei Carpazi, come se i nostri eserciti manovrassero in Bucovina o in Transilvania.


È sulla nostra destra che la battaglia si accanisce ora con maggiore violenza, contro quella catena di montagne che salgono a scala dalla Conca di Asiago fra il vallone del Nos e quello del Galmarara, montagne allineate a barriera, che formano un costone unico dai fianchi boscosi, il profilo del quale s’incurva a cèntina da vetta a vetta.

Sull’Interrotto, il primo monte, la cui spalla scivola giù verso le case di Asiago, le nubi folte delle nostre granate hanno nella luce del meriggio un colore rossiccio, ardente, affocato. Esse annebbiano il vecchio fortilizio, trasformato da tanti anni in caserma, che scompare e riappare, massiccio e basso come un gran dado oscuro posato sopra un ripiano del monte. Più indietro, sul Mosciagh selvoso, la seconda montagna che sembra guardare verso Asiago da sopra alla testa dell’Interrotto, le esplosioni sono soffocate dal bosco e mettono una bruma fra gli alberi.

È difficile battere con esattezza posizioni [p. 69 modifica] celate da foreste. Avanti ai loro trinceramenti gli austriaci hanno denudato i tronchi in basso, hanno tagliato i rami più vicini al suolo per aprirsi un campo di tiro, ma hanno lasciate intatte le chiome degli alberi; l’ombrosa vôlta di fronde si chiude su di loro e li cela alle esplorazioni aeree e alla vigilanza degli osservatorî. Spesso l’artiglieria non ha altra guida che le perlustrazioni delle nostre pattuglie. Si crede di avere sconvolto dei trinceramenti, di aver distrutto dei reticolati, e le fanterie, strisciando avanti, trovano gli ostacoli intatti.

Si ricorre ai tubi esplosivi, alle mine aeree, alle bombarde, alle tenaglie, e in molti punti la nostra linea si porta così a contatto col nemico, salendo fra gli sterpi e fra gli scogli coperti di musco, nella foresta oscura. I soldati passano curvi e rapidi da un riparo all’altro, fra i tronchi, sorreggendo delle pesanti pietre sulle spalle, e a furia di sassi e di zolle si creano dei piccoli ripari a semicerchio, appoggiati ai fusti che da una parte e dall’altra le pallottole feriscono, graffiano, cincischiano.

In ogni riparo, due, tre soldati si rannicchiano, sparando fra gl’interstizi. Le successive linee di attacco rimangono segnate da queste minuscole e rudimentali ridotte, che portano impresso il segno dei corpi accoccolati sopra strati di fronde, in uno scintillamento di bossoli. Delle granate a mano inesplose, dalle forme strane, [p. 70 modifica] alcune simili alle antiche mazze della guerra medioevale, munite di lunghi manichi di cartone indurito o di legno, o attaccate a bacchette di ferro, giacciono qua e là, mezzo infisse nell’erba. Di notte, le foreste sono tutte illuminate dai razzi come da un perenne e festoso fuoco di bengala.

Gli austriaci aspettano l’assalto che si inerpica, protetti da trincee profonde, perfette, blindate, ben nascoste, fornite di rifugi, collegate con camminamenti a zig-zag, difese da reticolati inverosimili, dei quali i paletti sono nascosti con fogliami sapientemente disposti. Ben sovente tutto questo è un lavoro preparato da masse di prigionieri russi, un’opera degli schiavi. La mano russa si rivela dalla perfetta lavorazione del legname.

Nei blindamenti e nei rifugi sotterranei si ritrova infatti la costruzione dell’isba. Sono dei veri edifici di legno sepolti, con le pareti fatte di travi sapientemente incastrati l’uno nell’altro. Hanno la solidità e la comodità di lavori permanenti. Si direbbe che gli austriaci si disponessero a dimorare degli anni in ogni posizione.

Anche nell’offensiva si radicavano così ad ogni sbalzo. Si seppellivano subito nelle più estreme linee di attacco. Non arrivavano in un punto senza smuovere subito della terra e iniziare delle fortificazioni. [p. 71 modifica]

Sul legno fresco delle costruzioni il nemico ha lasciato delle scritte, più o meno ingiuriose per noi, nelle quali la parola «porco» ricorre con una frequenza impressionante. Quale differenza con le scritte che lasciano i nostri soldati sulle posizioni dove la lotta è più accanita! Sono quasi sempre piene di sentimento e di nobiltà, anonimi gridi di fierezza, «Di qui non si passa» — ho visto scritto ai lapis sopra una pietra macchiata di sangue, e vicino alle parole il puerile disegno di un leone. Il «qui» era scritto «cui», il leone pareva un gatto, ma vi era tanta grandezza d’anima in quei segni ingenui, tanta solennità di pensiero, che, dopo un primo sorriso, veniva voglia di salutare la pietra che portava forse il testamento di un eroe.

Più aspro il combattimento è oltre il Mosciagh, contro la terza vetta, lo Zebio. L’importanza dello Zebio dipende forse dal fatto che questa cima comanda due valichi che uniscono la Valle di Nos alla Valle Galmarara. La difesa austriaca fa dello Zebio un pernio. La lotta, che si svolge nel più folto della foresta, non si segue che per lo strepito e per le notizie che il telefono trasmette.

È una piccola battaglia a sè. La montagna ne sembra scossa. Nel crepitìo scrosciante delle fucilate si riconoscono dai colpi i calibri [p. 72 modifica] delle cannonate, le esplosioni delle bombe, gli scoppi delle mine aeree, le detonazioni delle granate a mano. Vi è un’ala destra, un centro, un’ala sinistra. A periodi di calma relativa seguono momenti di esasperazione. «La destra avanza!...» «Le casere sono prese!...» «Un contrattacco al centro!...» «Lotta di granate a mano a sinistra!...» Nelle tende dei comandi, fra le boscaglie, queste voci passano. Entro le pieghe più profonde del terreno il fumo cola e si distende come una bruma, nella quale gli alberi finiscono per non mostrare che le cime, simili a isolotti verdi. Sullo Zebio si avanza a palmo a palmo, ma lunghe soste si avranno nella faticosa conquista.

Più a nord si combatte al di sopra della zona boscosa, per rocce bianche tutte stratificate a tavoloni, nei cui crepacci s’inerpica il rododendro e il pino nano. I monti hanno lassù fianchi precipitosi, pareti a picco, balze dirupate, vette nude e feroci. Vi sono passi che non lasciano spazio a più di un uomo per volta, e verso i quali l’attacco si inerpica. Gli alpini investono il Monte Chiesa, e sull’orlo estremo dell’Altipiano, al bordo dell’abisso, sono arrivati ad aggrapparsi al Passo dell’Agnella.

Questo passo e un canalone il quale sovrasta il Civaron, che nella valle del Chiesa solleva la sua cima boscosa e aguzza. Nelle frane [p. 73 modifica] del canalone un sentiero scosceso è tracciato in mille serpeggiamenti. Il Passo dell’Agnella offre un congiungimento fra le truppe che operano sull’Altipiano e quelle che attaccano il Civaron. Lo abbiamo strappato al nemico, ma questo tiene ancora uno dei pilastri della spaccatura. Si cerca di scalzarlo via anche da lì, di sradicarlo completamente dalle vicinanze del passo.

I grossi calibri scagliano tutto intorno macigni, sassi, schegge di roccia, come il colpo di martello fa sprizzar via le faville dal ferro incandescente. Ogni assalto nostro trova le trincee nemiche piene di morti, ma nuovi battaglioni austriaci arrivano al contrattacco. È una battaglia di nuclei, di gruppi, da crepaccio a crepaccio, da ciglione a ciglione, sul labbro di conche che ricordano le doline carsiche, una battaglia di cacciatori, e l’assalto in forze avviene spesso alla notte, di sorpresa. Su quelle scogliere aride la lotta ha l’aria di una guerra di insetti. Di tanto in tanto un formicolio minuscolo e grigio....

Così la battaglia degli Altipiani prosegue.