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Del coraggio nelle malattie/XI.

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XI.

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X. XII.
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XI.


Il desiderar di guarire da’ mali la è una proposizione sì vera e sì universale, che quasi non permette con altre confronto nè ulterior discussione. Dietro al desiderio vien la speranza, la quale è più o meno ardente secondo che ci immaginiamo, ovvero ci è dipinta più o meno [p. 44 modifica]grave la malattia. È un’affezione sempre dolce, sempre pronta a nascere, sempre stimolante ed eccitante lo spirito. Quindi avviene che resta non lo spirito solo, ma per consenso anche il corpo rianimato e commosso, e sì tutti e due restano in certa maniera combinati e rivolti a difendersi, e a discacciare tutto ciò che è molesto e nocivo. Dalla quale reciproca costituzione par che insorga il coraggio, la cui mercè poco o nulla sentesi la difficoltà di venir a buon capo in tale intrapresa; e ai dolori, alle veglie, alle inquietudini, alla ferocia e ostinazione del male, si spunta la forza, allorchè vanno a battere una persona che di speranza e di coraggio sia armata.

Eppure v’hanno degli uomini crudeli, che più tosto che dar delle speranza ai miseri languenti, gliele levano anzi con lugubri riflessi, e con nuove minacce, quasi che il male medesimo non vaglia [p. 45 modifica]abbastanza a perturbar chi lo soffre. Sono tratti contro all’umanità e contro alla savia filosofia.

Io non ho giammai veduto il bisogno di scacciar la speranza. Ho veduto anzi sempre il bene, che essa produce producendo il coraggio. Se è mal leggiero, nemmeno i più rigidi persecutori della quiete de’ suoi simili, possono asserire, che non convenga avere speranza, perchè anche non avendola, il lieto fine del male istesso smentisce il lor rigor d’opinare: se è mal grande, perchè se n’ha da accoppiar un altro del cordoglio, o della disperazione? se è immedicabile e mortale, non è egli bene che in mezzo alle angosce, alle orride immaginazioni, ai timori, vi abbia luogo almeno qualche conforto, e qualche aura soave di qualche speranza, la quale talvolta sgombra (anche per breve tempo che ciò sia) o per lo meno dirada la nera caligine e la [p. 46 modifica]perpetua meditazione di morte, e dà lena e coraggio nel corso dei travagli, e nelle continue funzioni di ammalato? Così che fors’anche da queste funzioni bene eseguite può risultare non solamente una miglior tolleranza della malattia, ma persino di quegl’inaspettati risorgimenti, che si chiamano mostri e prodigj nati nell’arte1.

In vista di cotali benefizj io sono d’avviso che a questi ammalati di male incurabile non abbiasi giammai a dir loro la rea qualità del loro morbo, sì perchè a nulla giova così fatta notizia, se non, come dissi, a gettarli a peggior partito, sì perchè s’ha da bramare che rimangano infatti in isperanza di sollevarsi; ond’è che restano sufficientemente obbedienti e valorosi a far tutto quel che conviene (altrimenti li più si ristanno [p. 47 modifica]dall’adempire qualunque legge nostra benchè delle più giuste e ragionevoli) e a non alterarsi ed aggravarsi maggiormente, e in fine si dispongono sempre meglio a ricevere di que’ vantaggi che dal tempo e dalla medicina possono lor derivare. In conseguenza della qual mia opinione sarà ben fatto il non conceder ad essi loro la gravezza o l’incurabilità del male, che pur troppo eglino stessi prevedendola ne dimandano agli assistenti, dalla risposta de’ quali molte volte dipende la loro fiducia e l’attitudine al coraggio ed al sollievo, ovvero il loro disanimarsi e il cader nell’estremo sconforto, che è l’ultimo de’ mali dell’animo, cui succedono ordinariamente mille scompigli e la perdita della vita istessa.

Insomma la speranza se dicesi che sia quella che in qualunque sciagura non ci abbandona mai, tocca a noi Medici il coltivarla e l’aumentarla ne’ nostri [p. 48 modifica]infermi. Per quanto sien essi travagliati, se arrivano a sentirla in sè stessi, meno risentono il loro martirio; e in questo frattempo se noi gli animiamo, e se teniam dietro al nascente loro coraggio con quelle arti che ci debbono esser note, li vediamo ripigliar fiato, e quasi risorgere sotto a nostr’occhi. La tiepidezza della nostra politica, e la mancanza della volonta degl’infermi, sono spesse volte la cagione della debolezza fisica e morale di essi; saranno eglino quasi sempre forti abbastanza per fare ciò che vorranno con forza, e che noi proporremo loro con maniere ferme e confortevoli.

„La parola virtù„ dicea2 Zimmermann „contiene l’idea di forza. La forza è il fondamento d’ogni virtù: e la virtù è il retaggio di un essere debole per sua natura e forte per sua volontà. [p. 49 modifica]Il perchè il malato nutrito nelle avversità sopporta la sua malattia infinitamente meglio di quello che è sempre vissuto in prosperità. Quanto più un uomo s’affligge nella sua malattia, e perde la forza dello spirito, è tanto più certo che in breve essa malattia diventerà più forte di lui„. Che se v’ha passione che sovra ogni altra ingeneri questa forza dello spirito superiore soventemente alla forza della malattia, e la mantenga e la renda attuosa, ella è senza dubbio la soprallodata passione della speranza.

So che moltissimi sono gli ostacoli a questa ottima passione, tra gli altri la diversità di età, di abitudine, di temperamento, di malattia, di sintomi. Se negli uni la speranza è facile e spontanea, in altri è difficile ad aversi, e in altri quasi impossibile. Ma so altresì che la sagacia del Medico può contemperare [p. 50 modifica]alcuni di siffatti ostacoli, e può, dove abbia luogo il ragionare, dissipare i principali, che sono per lo più que’ che provengono dai difetti morali dell’ammalato. Non mi estendo su ciò, sia per non ridire il già detto, sia perchè caderà in seguito di averne a discorrere.


  1. Contingunt monstru in Arte.
  2. Loc. cit.