Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati

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Niccolò Machiavelli

1503 Indice:Opere di Niccolò Machiavelli II.djvu Letteratura letteratura Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati Intestazione 5 giugno 2008 75% Letteratura


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DEL MODO

DI TRATTARE I POPOLI

DELLA VALDICHIANA RIBELLATI

COMPOSTO PER

NICCOLÒ MACHIAVELLI.


L
Ucio Furio Cammillo dopo l’aver vinto i popoli di Lazio, quali più volte si erano ribellati da’ Romani, tornatosene a Roma, se ne entrò in Senato, e propose quello si dovesse fare delle terre e città de’ Latini. Le parole che egli usò, e la sentenza che ne diede il Senato, è questa quasi ad verbum, come la pone Livio; Padri Conscritti, quello che in Lazio si doveva fare con la guerra e con l’armi, tutto per benignità degli Dei e per la virtù dei soldati nostri ha avuto il fine suo. Sono morti appresso Peda ed Astura gli eserciti inimici; tutte le terre e città dei Latini, ed Anzio città de’ Volsci, o prese per forza o a patti si guardano per voi. Restaci ora a consultare, perchè spesso ribellandosi e’ ci mettono in pericolo, come noi dobbiamo per l’avvenire assicurarcene, o con incrudelire verso di loro, o con il perdonare loro liberamente. Iddio vi ha fatti al tutto potenti di potere deliberare se Lazio debba mantenersi o nò, o potere in perpetuo assicurarvene. Pensate adunque se voi volete acerbamente correggere quelli che vi si sono dati e se volete rovinare del tutto Lazio, e fare di quel paese una solitudine, donde più volte avete tratto eserciti ausiliari ne’ pericoli vostri, e se volete con [p. 124 modifica]esempio de’ maggiori vostri accrescere la Repubblica Romana, facendo venire ad abitare in Roma quelli che gli avevano vinti, e così vi è data occasione di accrescere gloriosamente la città. Ma io vi ho solo a dire questo, quello imperio essere fermissimo, che ha i sudditi fedeli, e al suo principe affezionati; ma quello che si ha a deliberare, bisogna deliberare presto, avendo voi tanti popoli sospesi tra la speranza e la paura, i quali bisogna trarre di questa ambiguità, e preoccupargli o con pene, o con premio. L’officzio mio è stato operare in modo che sia in vostro arbitrio, il che è fatto. A voi sta ora il deliberarne quello che torni a comodità e utile della Repubblica. I principi del Senato laudarono la relazione del Consolo; ma essendo causa diversa nelle città e terre ribellate, dissero non si potere consigliare in genere, ma sì in particolare di ciascuna; ed essendo dal Consolo proposta la causa di ciascuna delle terre, fu deliberato per i Senatori, che i Lanuvini fossero cittadini Romani, e renduto loro le cose sacre tolteli nella guerra feciono medesimamente cittadini Romani gli Aricini, Nomentani e Pedani, e a Tusculani furono servati i loro privilegi, e la colpa della loro ribellione fu rivoltata in pochi de’ più sospetti. Ma i Veliterni furono gastigati crudelmente per essere antichi cittadini Romani, e ribellatisi molte volte, però fu disfatta la loro città, e tutti i cittadini di essa mandati ad abitare a Roma. Ad Anzio per assicurarsene mandarono abitatori nuovi, al loro proposito, tolsero loro tutte le navi, e interdissero loro che non ne potessino fare delle altre. Puossi per questa deliberazione considerare, come i Romani nel giudicare di queste loro terre ribellate pensarono, che bisognasse o guadagnare la fede loro con i benefizj, o trattargli in modo, che mai più ne potessero dubitare, e per questo giudicarono dannosa ogni altra via di mezzo che si pigliasse. E venendo dipoi al giudizio usarono l’uno e l’altro termine, beneficando quelli che si poteva sperare di reconciliargli, e quelli altri, di chi non si sperava trattando [p. 125 modifica]in modo che mai per alcun tempo potessero nuocere. E a questo ultimo i Romani avevano due modi, l’uno era di rovinare le città, e mandare gli abitatori ad abitare a Roma, l’altro o spogliarle degli abitatori vecchi e mandarvi dei nuovi, o lasciandovi i vecchi mettervi tanti dei nuovi, che i vecchi non potessero mai nè macchinare nè deliberare alcuna cosa contra al Senato. I quali due modi dello assicurarsi usarono ancora in questo giudizio, disfacendo Veliterno, e mandando nuovi abitatori in Anzio. Io ho sentito dire, che la istoria è la maestra delle azioni nostre, e massime de’ principi, e il mondo fu sempre ad un modo abitato da uomini che hanno avuto sempre le medesime passioni, e sempre fu chi serve e chi comanda, e chi serve mal volentieri, e chi serve volentieri, e chi si ribella ed è ripreso. Se alcuno non credesse questo si specchi in Arezzo l’anno passato, e in tutte le terre di Valdichiana, che fanno una cosa molto simile a quella de’ popoli Latini: quivi si vede la ribellione, e dipoi il riacquisto, come quì, ancora che nel modo del ribellarsi e del riacquistare vi sia differenza assai, pure è simile la ribellione e il riacquisto. Dunque se vero è che le istorie sieno la maestra delle azioni nostre, non era male per chi aveva a punire e giudicare le terre di Valdichiana pigliare esempio e imitare coloro che sono stati padroni del mondo, massime in un caso, dove e’ vi insegnano appunto come vi abbiate a governare perchè come loro fecero giudizio differente, per esser differente il peccato di quelli popoli, così dovevi fare voi, trovando ancora ne’ vostri ribellati differenza di peccati. E se voi dicessi, noi l’abbiamo fatto, direi che si fosse fatto in parte, ma che si sia mancato nel più e nel meglio. Io giudico ben giudicato, che a Cortona, Castiglione, il Borgo, Fojano si siano mantenuti i capitoli, siano vezzeggiati, e vi siate ingegnati riguadagnarli con i beneficj, perchè io gli fo simili ai Lanuvini, Aricini, Nomentani, Tusculani e Pedani, de’ quali nacque da’ Romani un simile [p. 126 modifica]giudizio. Ma io non approvo che gli Aretini simili ai Veliterni ed Anziani non siano stati trattati come loro. E se il giudizio dei Romani merita di esser commendato, tanto il vostro merita di esser biasimato. I Romani pensarono una volta che i popoli ribellati si debbano o beneficare, o spegnere, e che ogni altra via sia pericolosissima. A me non pare che voi agli Aretini abbiate fatto nessuna di queste cose, perchè e’ non si chiama benefizio ogni dì fargli venire a Firenze, avere tolto loro gli onori, vendere loro le possessioni, sparlarne pubblicamente, avere tenuti loro i soldati in casa. Non si chiama assicurarsene lasciare le mura in piedi, lasciarvene abitare e’ cinque sesti di loro, non dare loro compagnia di abitatori che gli tenghino sotto, e non si governare in modo con loro, che negl’impedimenti e guerre che vi fossero fatte voi non avessi a tenere più spesa in Arezzo, che all’incontro di quello nimico che vi assaltasse. La esperienza se ne vidde nel 1498, che ancora non si era ribellato, nè era tanto incrudelito verso questa città; nondimeno venendo le genti de’ Viniziani in Bibbiena, voi aveste ad impegnare in Arezzo per tenerlo fermo le genti del Duca di Milano, ed il conte Rinuccio con la compagnia, di che se voi non avessi dubitato, ve ne potevi servire in Casentino contro a’ nimici, e non bisognava levare Paolo Vitelli di quello di Pisa per mandarlo in Casentino; il che forzandovi a fare la poca fede degli Aretini, vi fece portare assai più pericolo e molta più spesa non avresti fatto, se fossero stati fedeli; talchè raccozzato quello che si vidde allora, quello che si è veduto poi, e il termine in che voi gli tenete, e’ si può sicuramente fare questo giudizio, che come voi fussi assaltati, di che Iddio guardi, o Arezzo si ribellerebbe, o e’ vi darebbe tale impedimento a guardarlo, che la tornerebbe spesa insopportabile alla città. Se voi potete al presente essere assaltati o no, e se gli è chi disegni sopra Arezzo o nò, avendone io sentito ragionare non [p. 127 modifica]lo voglio lasciare indietro. E lasciando di discorrere di quei timori che potete avere da principi oltramontani, ragioniamo della paura, che ci è più propinqua. Chi ha osservato il Duca, vede che lui, quanto a mantenere gli stati ch’egli ha, non ha mai disegnato fare fondamento in su amicizie Italiane, avendo sempre stimato poco i Viniziani, e voi meno, il che quando sia vero, conviene che e’ pensi di farsi tanto stato in Italia che lo faccia sicuro per sè medesimo, e che faccia da un altro potentato l’amicizia sua desiderabile. E quando questo sia lo animo suo, e che egli aspiri allo Imperio di Toscana, come più propinquo, ed atto a farne un regno con gli altri stati che tiene. E che gli abbia questo disegno si giudica di necessità, sì per le cose sopraddette, e sì per l’ambizione sua, sì etiam per avervi dondolato in sull’accordare, e non avere mai voluto concludere con voi alcuna cosa. Resta ora vedere, se gli è il tempo accomodato a colorire questi suoi disegni, E mi ricorda avere udito dire al Cardinale de’ Soderini, che fra le altre laudi che si potevano dare di grande uomo al Papa e al Duca, era questa, che siano conoscitori della occasione, e che la sappino usare benissimo, la quale opinione è approvata dalla esperienza delle cose condotte da loro con la opportunità. E se si avesse a disputare, se gli è ora tempo opportuno a sicuro a stringervi, io direi di nò. Ma considerato che il Duca non può aspettare il partito vinto, per restargli poco di tempo rispetto alla brevità della vita del Pontefice, è necessario che egli usi la prima occasione che se gli offerisce, e che commetta della causa sua buona parte alla fortuna.


Manca il fine.