Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro terzo/Capitolo III

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Capitolo III

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Capitolo Terzo

Differenza tra le belle lettere e le scienze, quanto al sussistere

e perfezionarsi senza protezione.

Ma infino ad ora ho parlato delle lettere, in tal guisa che ognuno può veder chiaramente che sotto il nome di esse non ho inteso mai di comprendervi le scienze esatte. E facendo io la rassegna di tanti uomini sommi, lo aver finora sempre taciuto i venerabili nomi di Euclide, di Archimede, di Galileo e in ultimo del divino Newton, sia questa la maggior prova che io, nel dir «lettere», non ho mai preteso dire «scienze». Di queste si conviene ora parlare tremando, come quegli che è interamente digiuno di tutte. Ma siccome mi tocca il ragionare, non delle scienze prese in se stesse, ma delle loro vicende, influenze ed effetti, io guidato dal solo lume di veritá e di ragione, spero in questo mio dire di non dovere errare molto piú che all’uomo non arrogante soglia venir fatto di errare.

Le scienze dunque, che io cosí definirei: gli arcani e le leggi della natura dei corpi, investigate e spiegate, per quanto il possa l’intelletto dell’uomo, — le scienze dico, mi paiono una provincia di letteratura affatto da sé e interamente diversa dalle belle lettere, che io per contrapposto definirei: gli arcani, le leggi, e le passioni del cuore umano, sviluppate, commosse, e alla piú alta utile e vera via indirizzate. Diversissimo è dunque il tema che trattano queste due arti; quelle avendo ad investigare i corpi sensibili, queste a commuovere le intellettuali passioni; consecrandosi quelle allo scoprimento di palpabili veritá, queste [p. 198 modifica] al rimettere sempre in luce le veritá morali giá bastantemente dimostrate dai buoni ed alti esempi, ma sempre pure dalla malizia e reitá d’alcuni uomini alterate, nascoste, scambiate col falso, impedite, perseguitate o sepolte; nasce da questo diversissimo loro uffizio una diversitá non picciola di vicende e di effetti, ancorché i mezzi dell’une e dell’altre ne siano pur sempre lo ingegno e la penna. Di questa diversitá di vicende e d’effetti mi conviene ora ragionar lungamente, per sempre piú munire di salde incontrastabili prove quanto finora ho asserito delle lettere.

Le scienze, come ogni altra egregia cosa, ci derivano anch’esse dai greci: vale a dire da uomini liberi. E pare in fatti che al ritrovamento dei princípi nascosti e sublimi delle cose, si richiegga un cosí grande sforzo di pensare che nel capo d’un tremante schiavo sí alta e difficile curiositá non sarebbe potuta entrare giammai. Ma pure, posati una volta i princípi delle scienze, la influenza delle fisiche veritá sovra lo stato politico riesce cosí lenta e lontana, e perciò vien cosí poco impedita dalla tirannide, ch’io non dubito punto che se Newton con lo stesso suo ingegno e con la dottrina che lo precedeva, fosse anche venuto a nascere, o a traspiantarsi nel piú servile governo d’Europa, egli avrebbe nondimeno potuto creare tutto il sistema suo, quale per l’appunto il creava nel seno della libertá dove nacque. Ma nel dire io: «con la dottrina che lo precedeva», mi par dimostrare ad un tempo che la libertá era pur sempre necessaria a quei primi scienziati scopritori delle leggi dei corpi, per crearle; ma non necessaria ai susseguenti per ampliarle, spingerle all’ultima possibilitá, ed anche, con gli stessi giá scoperti mezzi affatto variandole, in un certo modo, di bel nuovo crearle. Il posare dunque i loro principi, lo inventare, o il primo ritrovare, egli è quel tal pregio in cui e le lettere e le scienze ebbero tra loro comune la sorte; pregio che ottener non poteano se non in un libero governo, fra uomini molto e arditamente pensanti. Ma nel loro progredire poi, le une dalle altre si scostano, quanto i due scopi ch’elle si propongono dissimili sono fra sé e quanto sono diversi i soggetti ch’elle trattano; cioè la [p. 199 modifica] materia e il morale delle cose. E in fatti, le lettere sono pervenute al loro sommo apice nella libertá, non protette; le scienze, par che facessero lentissimi progressi fra quei due sovrani popoli, greci e romani, mentre altissimo splendore acquistarono poscia nei moderni principati, dove non libere crebbero e protette. Né a questa asserzione si abbisogna d’altra prova fuorché di paragonare nei loro libri ed effetti la fisica, la geometria, l’astronomia, l’algebra, la nautica, l’anatomia, la botanica e quasiché tutte le altre scienze degli antichi, con le simili dei moderni: e ad un tempo paragonare il valore, l’influenza e gli effetti delle lettere nei moderni principati, al loro valore, influenza ed effetti nelle antiche repubbliche. Non occorrendo dunque per ora il discutere quanto ai fatti, parmi che ne siano prima da investigar le cagioni. Tra queste, la piú chiara ed innegabile stimo, o credo almeno di ritrovarla da prima, nella parola da me soprammentovata nel definire le scienze: «leggi dei corpi». Molti e molti secoli di non interrotta applicazione divengono necessari al bene investigare e al sanamente stabilire tai leggi; e chi ciò fa nulla altro può né dée fare. Molte generazioni di uomini non interrotti né sturbati, son dunque necessarie consecutivamente, affinché una legge qualunque di corpo riceva infallibili prove ed evidenti dimostrazioni. È necessario quindi un lungo ozio ed una intera quiete in quella nazione che dée progredire nelle scienze; sono oltre ciò necessarie infinite spese, invenzioni ed esecuzioni costose di macchine, infinite esperienze, sterminati viaggi, espresso favore dei governi, e somma tranquillitá e protezione per gli osservatori; il che tutto suppone piú assai principato che repubblica.

Le vere antiche repubbliche, non che premiarlo, non tolleravano un uomo che col consiglio e con la mano non cooperasse all’utile presente di tutti. E l’utile che si ricava dalle scienze, è uno di quelli (come fra poco spero dimostrare) che appurar non si possono o non si sanno dall’universale, finché l’applicazione della scoperta veritá praticata non venga. Nelle repubbliche dunque, quasi nessuna opera dell’ingegno ben [p. 200 modifica] allignare potea, fuorché l’insegnare e il cantare la vera virtú; come nel principato tutte allignare vi possono, e vi allignano, meno questa.

Ma che le scienze per veramente prosperare abbisognassero di molta protezione e favore, ne sono indubitabile prova i giganteschi progressi fatti da esse nei moderni principati. Cosí il deterioramento delle lettere, o il loro scopo affatto scambiato, o tanto piú debolmente ricercato nelle moderne servitú, sono indubitabile prova che, non solamente esse non abbisognano di protezione o favore, ma che immenso danno ne ricevono. A corroborare quanto io asserisco concorrono a gara le diverse accademie di scienze e di lettere, seminate nei principati d’Europa, che di effetto cosí diverso fra esse riescono: le prime diedero e danno in ogni parte gran lumi e grandi scienziati; dalle seconde non è uscito mai un grand’uomo; ma se pure alcun grande è stato da esse allacciato e fatto entrar nei lor ceti, di tanto minore lo han fatto, col dargli questa cittadinanza di raddoppiato servaggio. E ben vede ciascuno, semplicissimamente osservando, che una tal differenza sta tutta nella sola definizione di questi due generi. Le leggi dei corpi non offendono il principato: le leggi e passioni dell’uomo, alla loro piú vera e utile via indirizzate, il principato annullano e sradicano. Dai principi quindi protette sono le scienze per veramente innalzarle; protette le lettere, per avvilirle, deviarle ed opprimerle: poiché annichilare affatto elle pur non si possono, finché ci son uomini che leggere sappiano e passioni che sovra il loro cuore ruggiscano.

Provano dunque, e con prova di evidenza, i semplici fatti che la protezione non solamente non nuoce alla perfezione delle scienze, ma che le giova non poco; e che al contrario sommamente ella nuoce alla piú divina parte delle lettere; cioè alla veritá, e all’utile che da esse può ridondare. Ma ciò non mi basta; e piú oltre spingendomi, dico che senza protezione non avrebbero mai prosperato le scienze; e che non hanno prosperato mai vere lettere, dove protezione elle avessero. E di passo mi conviene osservare che la protezion principesca [p. 201 modifica] nuoce moltissimo alle lettere anche nella persona di quello stesso scrittore che non la ricerca. Il proteggere è sinonimo del potere; l’assai potere cagiona sempre il timore. Quel potente che, ricercato, proteggere può un dato scrittore menomandolo, pur troppo può, se egli ne vien dispregiato, impedir lo scrittore ed opprimerlo. Dalla parola «proteggere» non si dée perciò mai scompagnare la parola «impedire»; poiché chi non vuole essere protetto, sará certamente impedito, ove egli cosí lontano non si ricoveri, che non meno l’ira che la protezione arrivar non vel possano.

Ma un’altra evidentissima prova che niuna scienza avrebbe mai prosperato senza protezione si è che nessuna traccia di scienza si vede allignare nelle contrade d’oriente, che totalmente son serve, e dove niuna util cosa non è né conosciuta né protetta. Al contrario, a provare che le lettere nascono e prosperare possono senza protezione, basta il vedere che fra quelle stesse nazioni serve e barbare d’oriente, vi sono pure nate e vi allignano a dispetto di un sí mostruoso governo, in un certo modo, le lettere. Le nazioni tutte, e le piú oppresse dall’assoluta autoritá, e fra le altre principalmente la ebraica, hanno avuto poeti; e nei loro torbidi civili, hanno avuto oratori e politici; e benché filosofi di professione la servitú non ammetta, pure una certa filosofia naturale si è anche fatta strada fra quei soggiogati poeti, oratori e politici; e forse era quella che li trasmutava in profeti. E quanti altri filosofi vi saranno stati e vi sono tuttavia fra quelle stesse barbare e serve nazioni, i quali conosciuti non sono perché non sono stampati? Il conoscere e studiare il cuore dell’uomo viene, o piú o meno, concesso dalla natura a tutti gli uomini che ottusi non siano; nessun lo può togliere, e ognuno per semplice forza d’intelletto si può in cosí alta scienza perfezionare da sé. Abbenché raro e piú difficile, è dunque possibile il pensare, il sentire, lo inventare e lo scrivere da sé, anche all’uomo che nasce il piú schiavo. Ma non si sono visti giammai, né mai si vedranno, sorgere degli alti matematici dove non ci siano scuole e protezione di governo; né si sono mai scoperte importanti veritá nelle scienze, se i potenti [p. 202 modifica] non vi hanno prestato la mano. I moti dei pianeti, la forma del globo, la costruzione e armatura delle navi, le virtú dell’erbe, la meccanica analisi del corpo umano, la diversitá degli animali e dei climi ecc. ecc.; queste scoperte tutte, noi le dobbiamo non meno alla borsa del principe che all’ingegno dell’osservatore; il quale o nulla o pochissimo avrebbe scoperto senza l’aiuto di quello. Ma il nudo corredo di un vero letterato, che tutto ritrova in se stesso, e quali per esempio furono Omero e Platone, altro mai non fu né dev’essere, fuorché ingegno, salute, pochi libri, e libertá moltissima. Cose tutte che il principe può tôrre, impedire o scemare, ma non mai dare né accrescere.

Fra gli scienziati tuttavia il gran Newton è una eccezione ad ogni regola; egli è figlio di se stesso; le sue scoperte non si ardiscono intitolare col nome di progressi; elle sono creazioni; e quella somma di lumi, che i dotti in tale materia dicono aver egli attinta dal Galileo e dal Bacone o da altri, non mi risolvo io a crederla assolutamente la cagione di tutti i nuovi lumi da lui ritrovati, ma una parte soltanto di detta cagione; talché, se anche mancato gli fosse codesto aiuto, avrebbe egli con tutto ciò tentato un nuovo sistema, che sarebbe forse riuscito alquanto meno perfetto, ma sempre grande, straordinario e ad ogni modo veramente ben suo. Ma, benché questo insignissimo promotore delle scienze, non avendo in apparenza altro corredo che quello stesso che s’ebbero Omero e Platone, senza nessuna espressa protezione, abbia potuto scoprire e creare la vera anima dell’universo; con tutto ciò non mi rimuovo io in nulla dal parer mio che le scienze non possano fare da sé; poiché a Newton fu pure accordata (e necessaria gli era) quella tacita protezione che sta nella quiete, libertá e sicurezza. Ma per averla egli ottenuta da una nazione libera, di tanto piú giovevole ed onorevole gli è stata una tal protezione, che se ottenuta l’avesse dall’assoluto capriccio di un principe. A convalidar quant’io dico, mi si appresentano tosto gli esempi di Galileo e di Cartesio, i quali, o per non aver avuto protezione, o per averla avuta equivocamente dai principi, non andarono esenti da molte altre persecuzioni e disturbi, e quindi da infiniti ostacoli. [p. 203 modifica]

Mi viene ora osservato che parlando io dei capi-sètta innovatori nelle scienze, me li conviene in gran parte sottrarre dalle leggi a cui ho sottoposto le scienze stesse; e chiaramente vedo che le loro vicende accomunare si debbono a quelle dei letterati; poiché, come filosofi, un cosí splendido loco riempiono degnamente fra essi. Questi pochi innovatori-creatori si debbono dunque in tutto eccettuare da quegli altri tutti che nelle scienze esatte, dotti soltanto dello scibile, e facendo pure alcuni benché impercettibili passi piú in lá del di giá saputo, si debbono quindi riputare come le vere ruote dei progressi delle scienze. Questi sono gli scienziati proteggibili e protetti: ed a questi l’esserlo può sommamente giovare. Ma gli altri, come Euclide, Archimede, Newton, Galileo e Cartesio, interamente corrono la vicenda dei letterati. Onde, se hanno avuto (come i tre primi) la fortuna di nascere in paesi liberi, di poco altro abbisognano che di essere lasciati fare; ma se nati sono (come i due ultimi) in terra di schiavitú, facilmente saranno dalla civile e religiosa potenza perseguitati e impediti piú assai che protetti; e in fatti perseguitati e impediti furono questi due ultimi.

Lo inventare dunque sistemi nella scienza dell’universo soggiace in tutto alle stesse vicende a cui soggiace lo scoprimento delle proibite morali veritá: ma il semplice aggiungere alcuna cosa ai giá scoperti e dimostrati sistemi, e il far progredire le scienze, principalmente nella natura dei corpi a parte a parte pigliandoli, in tutto soggiace alle vicende annesse al coltivare le veritá non offendenti l’assoluto potere; come quelle che in nulla influiscono sopra lo stato politico, e in nulla migliorano la proibita scienza del cuore dell’uomo.