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Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni/Libro sesto/16. Federigo II

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16. Federigo II

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[p. 218 modifica]16. Federigo II [1218-1250]. — Federigo era giovane di ventiquattr’anni, quando rimase libero del competitore. Dimorò due anni in Germania a confermarvi sua potenza. — Scese [1220] a farsi incoronare da papa Onorio, e promise fin d’allora prender la croce per la ricuperazione di Gerusalemme. Ma passò prima a farsi riconoscer nel Regno, ed ordinarlo. Ridusse i saracini, che pur rimanean numerosi in Sicilia, e ne trasportò i resti di qua dal faro, a Lucera e Nocera; dove stanziarono e fiorirono, e ond’egli li trasse sovente poi a guerreggiare contro ai papi e agli italiani, e ne fu odiato tanto piú. Die’ leggi a tutto il Regno; buone per quel tempo, ma che improntate di feodalitá mantennero colá, piú a lungo che altrove in Italia, quell’ordine o disordine. Edificò castella a farsi forte nelle terre, nelle cittá, uno principalmente in Napoli, la quale diventonne poi residenza regia e capitale. Ed ivi istituí una universitá, seconda in Italia dopo quella giá piú che centenaria di Bologna. E colto, prode e corteggiator di donne, si compiacque di poesia e poeti in lingue romanze e volgari, e scrisse nella nostra che sorgeva. Nel 1225, sposò quella Iolanda di Lusignano, figlia [p. 219 modifica]ed erede del re spogliato di Gerusalemme, che fu terza donna accrescitrice di pretensioni in casa Svevia. E, nel 1227, salí finalmente sulle navi a Brindisi per il nuovo regno suo. Ma infermati esso e molti suoi, sbarcò ed indugiò un altro anno, e fu perciò scomunicato da Gregorio IX, papa nuovo di quell’anno, gran papa politico, e incominciatore di quella gran contesa papalina o guelfa o italiana, contro agli Svevi or napoletani, che durò quarant’anni. E qui, al solito, non pochi moderni sofisticano per trovar in questi papi grandi disegni di monarchia universale. Ma qui pure il disegno fu piú semplice, e qui poi tutto italiano. Come tutti gli Svevi, Federigo II era principe superbissimo, soverchiatore, sprezzator di tutti e massime de’ papi, e non dirò della religione cristiana, ma almeno di quelle che sono sempre convenienze, ed in quel secolo parevano essenza di lei. E cosí, tenuto per poco credente o mal credente, o come allora dicevasi, epicureo, paterino, eretico e quasi maomettano, saracino o pagano, ei sollevò contro sé l’opinione universale, la italiana principalmente, quella de’ papi sopra tutti. I quali poi secondarono l’opinione nazionale, tanto piú volentieri che non piú solamente la riunione dell’imperio-regno d’Italia col regno di Puglia e Sicilia faceva gli Svevi, ma le qualitá personali di Federigo II lo facevano piú pericoloso. E fecero bene e naturalmente senza dubbio in ciò; fecero male solamente in questa o quella esagerazione di tal politica, in questa o quella scomunica; ecco tutto. Effettuato il passaggio [1228] con meno gente che l’anno addietro (causa di nuova ira del papa e nuova scomunica), Federigo guerreggiò poco in Asia, trattò ed ottenne per sé Gerusalemme, ma lasciò il Santo Sepolcro in mano a’ maomettani [1229], nuovo scandalo e nuova ira. Tornò quindi nel Regno contra Lusignano, il proprio suocero, che mosso dal papa l’aveva occupato; né gli fu difficile cacciar costui, riordinar il Regno, rinforzarvisi. — Quindi si rivolse a Lombardia; dove Milano, tornata a sua primiera avversione contra gli Svevi o ghibellini, e risorta a capo di parte guelfa, né allora né poi non aprí mai le porte all’imperatore per lasciargli prendere la corona d’Italia. E giá da tre anni [1226] avea (del resto, [p. 220 modifica]secondo suoi privilegi) rinnovata la lega di Lombardia. Eranvi allora entrate Milano, Bologna, Piacenza, Verona, Vicenza, Treviso, Padova, Brescia, Faenza, Mantova, Vercelli, Lodi, Bergamo, Torino ed Alessandria, ed accostatesi poi parecchie altre, Venezia stessa. Ma questa seconda lega lombarda, anche men della prima, non mirò all’indipendenza; piú forti tutte queste cittá, per essersi esercitate da quarant’anni in una libertá quasi compiuta, è anche piú da stupire che non sapesser compierla. E perché appunto questo era l’unico scopo buono, naturale, che la nuova lega potesse avere, ed ella non l’ebbe, non si scorge in essa nessuno scopo, né disegno, né idea. La prima avea volute le regalie, i consoli, troppo poco forse, ma in somma quel poco, e l’aveva ottenuto; la seconda non aveva che a proseguire; e non volle ciò, né nulla. La prima era difensiva, conservatrice de’ diritti acquistati, e conservolli; la seconda era offensiva, ed offese, ma senza pro, senza acquisto ulteriore. Non fu altro che odio, parte guelfa, lega guelfa, contra odio e parte e leghe ghibelline, che pur sorsero qua e lá. Riuscí un cumolo di fatti peggio che mai moltiplicati e sminuzzati; piú brutti naturalmente dalla parte straniera e ghibellina, ma non belli nemmeno da parte guelfa, mediocri tutti. Il vero è che senza grande scopo le parti non possono aver né grandi virtú né grande effetto; e che queste del secolo decimoterzo non servirono a nulla, se non a far crescere i signorotti o tirannucci, giá sorgenti nelle cittá. — Le parti di quel secolo ebbero vizio tutto contrario a quello delle presenti. Il quale è d’oltrepassare gli scopi primieri e buoni, di pigliarne altri via via ulteriori e cattivi: dopo la libertá, l’uguaglianza, que’ socialismi e comunismi, che sono barbare idee in barbare parole; dopo il principato costituzionale rappresentativo, la repubblica, e non giá niuna sapientemente equilibrata, ma la democratica e sociale; dopo, ed anzi prima dell’indipendenza, l’unitá. Quando sapranno le parti italiane prefiggersi scopi buoni e non oltrepassarli, quando non peccare né per difetto né per eccesso, non essere né tutto stolte né tutto matte? Non mai, diranno alcuni di que’ superbi che troncano ogni difficoltà [p. 221 modifica] facilmente con qualche sentenza dispregiativa degli uomini; gli uomini son sempre stolti o matti; le parti, sempre mancanti od eccessive; chi le spera moderate, prudenti, sagge, capaci di scegliersi scopi buoni e contentarsene, spera da stolto o da matto; egli stesso è da compatire. Ma, rispondiamo noi compatiti, ma Inghilterra ed America, e il piccolo continental Belgio a’ tempi nostri, ed un altro pur piccolo e continentale Stato in questi ultimi dí; ma Olanda e Svizzera ne’ secoli moderni; ma Venezia (quasi sola, per vero dire) nel nostro medio evo, ed Atene e Sparta e Tebe; ma tutte insomma le repubbliche, tutti gli Stati comunque liberi, ebbero parti; e seppero averne sovente delle moderate, non inefficaci come le nostre del secolo decimoterzo, o almeno non cosí matte come queste che ci si dicono ora naturali ed inevitabili al secolo decimonono; e non furono grandi e felici, se non appunto quando e perché il seppero: ondeché, noi non veggiamo per noi questa necessitá di non averlo mai a sapere od imparare; e cosí ci ostiniamo, contro a’ dispregiatori e disperanti, a sperare venga pure un dí che anche le parti italiane non saran piú stolte né matte, non senza scopo, e non con inaccessibili e inarrivabili o scellerati. Mi si perdoni la digressione, e torniamo alle stoltezze del secolo decimoterzo. — Tre famiglie principalmente ne crebbero: gli Ezzelini, tedeschi venuti con Federigo I, cresciuti in Vicenza, Treviso, Padova ed all’intorno, ghibellini arrabbiati, famosi per immani crudeltá: gli Estensi, che vedemmo antichi italiani, antichi guelfi, anzi battezzatori di quella parte, fedeli ad essa, or cresciuti in Modena e Ferrara, gente molto migliore, ma, come pare, di generazione in generazione mediocre, e di che non trovasi mai un gran fatto, un gran nome (se non vogliasi accettar nella storia quelle adulazioni dell’Ariosto e del Tasso che sono venute a noia anche nella loro bella poesia); e finalmente i Torriani, gente antica d’intorno a Milano che crebbe facendosi capo di quel popolo. Del resto, dopo poca e oscura guerra, fecesi [1230] una prima pace tra la lega guelfa e il papa per una parte, e Federigo dall’altra. Ed estesesi via via a molte cittá per opera de’ nuovi frati, principalmente i minori o francescani, e sopra [p. 222 modifica]tutti di sant’Antonio di Padova, e di quel fra Giovanni da Vicenza, O’ Connello del medio evo, che dicesi adunasse una volta presso a Verona le centinaia di migliaia di uditori [1233]. Ma tutto ciò durò poco. Ché del 1234, fosse o no ad istigazione del papa e de’ guelfi, sollevossi primo in Germania Arrigo figliuolo dell’imperatore; e questi v’accorse, e, senza combattere, lo prese e mandò prigione in Puglia, dove poscia morí. E risollevatasi la lega lombarda e guelfa, e non bastando contra essa Ezzelino III, capo de’ ghibellini, ridiscese Federigo [1236] per Verona, e prese Vicenza, mentre Ezzelino prendeva Padova; e risalí quindi a Germania. Ridiscese per la terza volta [1237] piú forte, e diede allora a Cortenuova una gran rotta a’ milanesi. Né perciò osò assalir Milano. Assediò sí Brescia parecchi mesi, ma invano [1238]; ed ebbe a satisfarsi di correr Lombardia e Piemonte, riaccostando a sé le cittá men forti o men costanti, e lo stesso marchese d’Este. Allora Gregorio IX scomunicava Federigo [1239]; e quando questi scese a Toscana e minacciò Roma, ei predicò contra lui una crociata [1240]. Convocato quindi un concilio a Roma, ed essendosi i prelati francesi imbarcati in Genova che era oramai tutta guelfa, Pisa, che era sempre tutta ghibellina, armò all’incontro una gran flotta; e ne seguí [3 maggio 1241] una gran battaglia navale alla Meloria, dove Genova fu rotta, ed onde saliron Pisa e i ghibellini piú che mai al primato di Toscana. Dicesi ne morisse di dolore il terribil papa Gregorio, e vacò poi la sede da due anni. — Finalmente, a mezzo il 1243, fu eletto Innocenzo IV, che da cardinale era stato amico a Federigo, e gli fu papa nemico peggio che i predecessori. Stretto da’ ghibellini di Roma e d’intorno, fuggí a Genova patria sua [1244], e quindi a Lione in Francia [1245]. Ed ivi adunò un gran concilio a provvedere ai pericoli della cristianitá nuovamente spogliata di Gerusalemme, ed assalita in Polonia ed Ungheria dall’invasione dei mogolli successori di Gengis khan. Ma allor si vide a che servisse quel vantato ordinamento della cristianitá sotto a’ suoi due capi temporale e spirituale. I due capi eran divisi, e si divisero tanto piú dopo il concilio, che scomunicò pur esso Federigo. Il papa lo depose; molte cittá [p. 223 modifica] l’abbandonarono; molti signori delle Due Sicilie gli congiuraron contro. Dicesi che un suo medico tentasse avvelenarlo; e che Pier delle Vigne suo cancelliero ed amico, che gli avea condotto costui, ne cadesse in sospetto ed in tal disperazione, che perciò si uccidesse urtando il capo al muro [1246]. Allora il domato Federigo domandò pace e poco men che mercé, implorò l’intervento di san Luigi re di Francia, e promise riprender la croce. Venuto a Torino per accostarsi al papa, fu richiamato indietro dalla sollevazione di Parma; vi pose campo all’intorno, e tentò imitare la fondazione di Alessandria, fondando lá presso una sua cittá ghibellina che chiamò Vittoria; ma, quasi a scherno di fortuna, ei fu vinto colá [1248], e la cittá incipiente fu distrutta. Le cose andavan meglio per lui in Toscana; i ghibellini s’insignorivano della stessa Firenze, capo de’ guelfi. Ma intanto Bologna raccoglieva intorno a sé le cittá, le milizie della parte, e dava [1249] una gran rotta agli imperiali, e vi prendeva Enzo, uno de’ non pochi figliuoli naturali di Federigo, ornato del nome, non della potenza, di re di Sardegna. Fu gran trionfo a’ bolognesi, i quali mostrano oggi ancora il luogo dove trassero e tennero il giovane in pomposa prigionia per venti e piú anni, finché morí. All’incontro, prosperavano i ghibellini sull’Adige e la Brenta; vi prosperava e inferociva peggio che mai Ezzelino tiranno. Era, come si vede, tra Napoli ghibellina, Roma guelfa, Toscana ghibellina, Bologna guelfa, Padova e il resto ghibellino, un frapporsi, un intrecciarsi di parti, di guerre, di vittorie e sconfitte che doveva parer insolubile. Fu sciolto dalla morte di Federigo II [13 dicembre 1250] avvenuta in Puglia, dov’erasi ritratto, e rimasto poco men che ozioso, forse scoraggiato, da un anno. Fu indubitabilmente uomo di grandi facoltá native. Se la potenza tedesca avesse potuto ordinarsi definitamente in Italia, sarebbesi fatto da lui, che riuniva le due potenze d’imperatore, re d’Italia e delle Due Sicilie, che imperiò e regnò oltre a cinquant’anni, che quasi sempre dimorò tra noi, che fu, si può dire, piú italiano che tedesco, e fu grand’uomo. Ma tutte queste qualitá facendolo piú pericoloso, il fecero anche piú odiato. Egli pure fu (mi scuso di ritornar cosí sovente a tale [p. 224 modifica]osservazione, ma ritorna sovente il fatto) di quelli che sprecano le facoltá, l’operositá, la fortuna, la grandezza contra l’opinione dei piú, che è onnipotente quando è giustamente progressiva.