Discorsi (Guicciardini)/III. La decima scalata

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III. La decima scalata

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III

[La decima scalata].

A tempo delle guerre di Pisa fu proposta in Firenze una imposizione, che si chiamò la decima scalata, la quale era che chi aveva cinque ducati o manco di decima, pagassi una decima; chi aveva dieci ducati di decima, pagassi una decima ed uno quarto; chi n’aveva quindici, pagassi una decima e mezzo; e cosí successivamente, per ogni cinque ducati che l’uomo aveva di decima, si multiplicava uno quarto piú, non potendo però passare, per uno, tre decime. Ed essendo venuta questa provisione in consiglio grande e non si vincendo, chi la favoriva parlò cosi:

Tutte le provisione che vengono innanzi alle Spettanzie vostre, prestantissimi cittadini, ricercano due considerazioni: l’una, se el fine loro è tale, che meritino essere approvate; l’altra, se el modo con che si provede, è ragionevole e conveniente al fine che si ricerca. Della prima è stato detto a sufficienzia da quegli che hanno parlato innanzi a me, dimostrando che per conservazione della libertá e vostro dominio, è necessario provedere a questa quantitá di danari, in modo che è superfluo affaticarsi piú in questo proposito. Ma quanto hanno satisfatto alla prima, tanto hanno mancato alla seconda considerazione. Perché a volervi persuadere che voi vincessi questa provisione, era necessario dimostrassino che questo modo di provedere fussi conveniente e ragionevole, il che [p. 197 modifica] penso abbino pretermesso, non perché gli mancassino ragione vere ed efficace da persuadervi questo, sendo la materia larghissima, ma perché non hanno voluto offendere quegli che esclamano contro a questa provisione, che sono persone potenti e de’ principali della cittá; la offesa de’ quali fuggirei ancora io volentieri, se non mi vincessi la affezione che io porto alla republica ed el desiderio che io ho di satisfare al debito mio. Governinsi gli altri con quelli rispetti che pare loro: io mi voglio ricordare essere buono cittadino e figliuolo di questo consiglio che oggi per grazia di Dio è el principe della cittá, e da lui posto nel numero dei suoi venerabili collegi, che non vuole dire altro che essere posto per guardia del bene universale contro alla voluntá dei potenti. Però liberamente e sanza rispetto dirò quello che io cognoscerò essere el beneficio del popolo, poi che sono suo figliuolo e ministro.

Coloro che si oppongono a questa provisione, allegano due ragione: l’una, che la è ingiusta, l’altra, che la è dannosa; ingiusta, perché è onesto che le gravezze siano equali, e questa è inequale, perché molti pagheranno solo una decima o una decima ed uno quarto delle entrate sue, altri ne pagheranno uno quinto, uno quarto ed uno terzo; dannosa, perché questo fa e’ ricchi poveri, che è detrimento delle cittá, perché sono quelli che l’onorano, e ne’ bisogni la aiutano, etiavi suvvengono con diversi modi alle necessitá de’ poveri; ed ogni governo bene ordinato ricerca che non si alterino le condizione di persona, ma si conservi ciascuno nel suo grado. Queste ragione paiono prima facie vere e belle, ma chi le considera piú a drento e non si lascia ingannare dalla superficie delle cose, le troverrá fallace e piene di vanitá.

Io dico che la provisione della decima scalata è giusta ed equale; e se pure la contiene ingiustizia ed inequalitá, è a disavantaggio de’ poveri e non de’ ricchi, perché quella gravezza s’ha a chiamare equale, che grava tanto el povero quanto el ricco; perché, e quando uno povero paga in commune una decima delle entrate sue ed uno ricco paga una decima, ancora che la decima del ricco getti piú che quella del povero, [p. 198 modifica] pure molto piú si disordina el povero di pagare la sua decima, che el ricco la sua. Però la equalitá di una gravezza non consiste in questo, che ciascuno paghi per rata tanto l’uno quanto l’altro, ma che el pagamento sia di sorte, che tanto si incommodi l’uno quanto l’altro.

Le spese che fanno e’ cittadini sono di tre ragione: alcune sono necessarie, altre si fanno per commoditá, altre sono totalmente superflue. Chi ha di entrata cinquanta ducati o manco, non può con questa entrata supplire alle sue necessitá, e se di questi ha a pagare una decima, bisogna che stremi delle spese che gli sono necessarie; el mediocre che ha di entrata cento o centocinquanta ducati, ha el panno piú largo e paga una decima ed uno quarto o una decima e mezzo, col resecare le spese della commoditá, ma non si ristrigne nelle cose necessarie; colui che ha di entrata dugentocinquanta o trecento ducati, se bene paga el terzo o el quarto delle entrate sue, non solo non ristrigne le spese necessarie, ma neanche manca della commoditá: spende quegli che arebbe dissipato in spese superflue, o accumulati nella cassa. Non può adunche el ricco lamentarsi di questa decima scalata, né chiamarla inequale, poi che per essa non patisce delle cose necessarie come fa el povero, né nelle commoditá come el mediocre; né el mediocre può esclamare, se considera che questa gravezza non lo priva di cosa che gli bisogni, ma bene priva el povero di qualcuna; anzi el povero può dolersi e chiamare questa gravezza ingiusta ed inequale, perché la non sconcia nelle cose necessarie e’ ricchi parimente come lui, ed ha causa di querelarsi di chi la propone, poi che al ricco s’ha rispetto ed a lui non s’ha compassione.

Noi siáno pure cittadini e membri di questo consiglio come loro, e forse, sia detto sanza ingiuria, piú amatori di questo pacifico vivere che non sono loro; e nondimanco e’ miei pari ed io non tegnatno altri servi che una fante; se vogliamo andare insino in villa, accattiamo uno cavallo a vettura, e se e’ tempi sono buoni, ce ne andiamo insino lá a piedi, e spesso in calze solate, né abbiamo piú che uno mantello ed uno [p. 199 modifica] lucco; anzi a me interviene molte volte che, quando è el tempo del mantello, mi bisogna porre el lucco al presto; e nondimanco nessuno ci ha pietá di queste estremitá, anzi pare onesto che davantaggio noi paghiamo la gravezza, e di loro si fa tanto romore, se, per pagare la decima scalata, gli bisogna di tre o quattro fante che hanno, lasciarne una, ridursi di uno famiglio a uno ragazzo, e di una mula cd uno cavallo che tengono in stalla, venderne uno e serbarne l’altra.

Questa sarebbe la giustizia e la equalitá delle gravezze, se le fussino di sorte, che cosí come noi siamo cittadini di una medesima cittá e tutti oggi di pari l’uno all’altro, le ci riducessino anche tutti in uno medesimo modo di vivere; perché io non so per quale ragione debbe parere maggiore fatica al ricco andare a piedi in villa, che a me, o perché ará da vergognarsi, se non ará piú che uno mantello come ho io che sono suo pari e nato in Firenze come lui, o perché debba fare tanto schiamazzo se, per non avere piú che una fante, gli bisognerá la sera, quando andrá a letto, scalzarsi da sé, o che la moglie o’ figliuoli lo aiutino scalzare. Se ci cognoscessino uomini di quella sorte che noi doverremo essere, e che considerassino che noi siamo sanza comparazione piú di loro, e che oggidí la fava di ognuno di noi vale tanto quanto la sua, sono certo farebbono manco romore, perché dubiterebbono che noi non aprissimo gli occhi e ponessimo una gravezza che fussi giusta ed equale, cioè che gli toccassi in sul vivo e non gli solleticassi come fa questa, la quale è ingiusta, perché grava sanza comparazione piú el povero che el ricco.

Dicono che la è dannosa alla cittá, perché con la loro ricchezza l’onorano, l’aiutano ne’ bisogni e fanno le spese a molti poveri; ed in questo è manifesta fallacia, perché queste loro ricchezze fanno, a cento per uno, piú danno che utile al publico ed al privato. Io dico che sarebbe grande beneficio alla cittá, che noi avessimo per legge che nessuno cittadino potessi avere entrata di possessione piú che cento o al piú centocinquanta ducati, e poi che non ci è legge che lo proibisca, che le gravezze fussino di sorte, come sará questa [p. 200 modifica] decima scalata se la si metterá in uso, che costrignessino a vendere chi ha possessione sopra tale numero. Perché questa è entrata conveniente e con la quale può vivere onestamente ogni uomo da bene, e come passa questa quantitá, è ricchezza che offende molte cose. Noi abbiamo el paese nostro stretto, come voi sapete, di possessione, e tanto che scarsamente ce n’è el bisogno a tutti e’ cittadini; però, che uno abbia troppe possessione, non può essere sanza detrimento degli altri, perché se uno n’ha piú che el bisogno, è necessario che gli altri n’abbino manco che el bisogno; ed interviene come se qua fussi una pezza di panno, che vi fussi panno per dieci mantelli ragionevoli, e ci fussino dieci persone, che ognuno avessi a averne uno mantello: se e’ primi due o tre mantelli che se ne cavano sono troppo lunghi o troppo doviziosi, non rimane nella pezza panno per vestire tutti quegli altri. Cosí el terreno nostro, donde potrebbono uscire possessione, verbigrazia per dumila cittadini, avendone ognuno una porzione onesta, non basta, diciamo, a millecinquecento, perché ci è una parte che ne occupano piú che se gli conviene; cosí questa ricchezza di possessione eccessiva è con danno degli altri, perché toglie agli altri la parte loro, e questo panno, donde s’arebbe avuto a vestire ognuno onestamente, è si male partito, che ci è tale che ha uno mantello si largo che vi si rinvolgerebbe tre volte drento, e si lungo che strascica dua braccia di coda per terra, e tale ci è a chi non ne resta tanto, che ne uscissi pure uno pitocco.

Né pensate, prestantissimi cittadini, che io dica queste cose di mia testa, perché sono state altra volta considerate e messe in esecuzione da quelli che sono stati maestri di governare le cittá. In tutte le republiche di Grecia non fu mai la piú santa, la piú virtuosa né la meglio governata che quella di Lacedemone, e tra le republiche di Italia la piú nobile, la piú degna e la meglio ordinata è stata quella di Roma; e Luna e l’altra ebbe questa considerazione, perché a Lacedemone quando ordinorono quello modo di governo che ebbe tanta riputazione, divisono equalmente per testa a ciascuno [p. 201 modifica] cittadino tutte le possessione del paese loro. Roma non fece questa equalitá cosí minutamente, ma providde per legge che nessuno citttadino non potessi avere piú che una certa quantitá di possessione, e chi ne teneva piú, contro alla legge, gli era tolto quello soprapiú e davantaggio condannato; ed io loderei una di queste due provisione, ma perché el vivere nostro è piú corrotto e non patisce tagli o rimedi caldi, medichisi almanco cogli unguenti piú piacevoli: non si tolghino a nessuno le possessione che ha, non si spogli o condanni chi n’ha piú che el debito, ma vi si ponga su una gravezza discreta, di sorte che per sgravarsi sia sforzato a vendere; o se pure vuole tenere questa boria, abbila con tale peso che io non voglio dire, come forse doverrei, che vi crepi sotto, ma che sia constretto dare el superfluo a’ bisogni della patria.

E certo, prestantissimi cittadini, se voi, posta la passione e le opinione vane da canto, considerrete bene la natura delle cose, troverrete che la cittá non ha e’ piú inutili ed e’ piú perniziosi cittadini, che questi che vivono in sulle entrate grosse delle possessione. Perché, oltre alla ragione detta di sopra, che quanto hanno piú che l’onesto tanto manca a’ bisogni delli altri, donde nascono le carestie, se non in gran parte da costoro, che non pensono mai a altro se non che el grano vaglia, e di serbarlo a’ tempi che loro lo possino vendere uno occhio di uomo? Costoro sono corruttori delle cittá, perché per lo ordinario sono gente nate ed allevate in sulle ricchezze, ed in una spezie di ricchezze come sono le possessione, che si può dire che si mantenga sanza fatica e sanza industria; però sono usi a vivere, in casa, delicatamente ed essere bene serviti; fuora, a bene cavalcare e sfoggiare di veste; in che non solo nuocono alla cittá, perché si allevano, sé ed e’ figliuoli suoi, deliziosi e che non sanno fare una faccenda, né sono utili a’ casi publichi né col consiglio né con le azione, perché communemente non hanno né industria, né esperienzia, ma nuocono a tutti gli altri con lo esemplo, perché chi è cittadino di questa medesima cittá e bene nato come loro, vergognandosi non potere comparire onorevole come loro e fuora [p. 202 modifica] ed in casa, si sforza sopra la possibilitá sua, e per mantenersi pari a loro, o è sforzato a rovinarsi, o a cercare, con vie indirette e modi estraordinari, guadagnare. Donde nascono infiniti mali, perché crediate che le cittá non hanno la maggiore macchia né el maggiore disordine, che le spese superflue, che in gran parte nascono da costoro; perché, per non potere mantenere gli uomini le spese sopra el grado suo, alle quali si inducono per esemplo di questi simili, pensono più al guadagno che alla virtú, stimano piú la roba che l’onore, tengono piú conto de’ danari che della anima, diventano fraudulenti, venali, usurpatori di vicini, di chiese, di spedali e di comunitá; e dove vegghino potere guadagnare, o per dire meglio rubare, fanno uno piano della virtú, dell’onore, della patria e di Dio.

Vedete se io vi fo toccare con mano quanti mali causa l’avere e’ cittadini troppe possessione. Ma andiamo piú oltre. Questi tali, vedendosi bene vestiti, stimati, avere le entrate grosse e sicure sanza fatica e sanza industria, né essendo occupati di quella diligenzia continua che bisogna a mantenere e guadagnare la roba, sapete a quello che pensano? Sempre a farsi grandi, a mutare gli stati, a mettere le tirannide nelle cittá: inimici, io non dico tutti, perché in ogni spezie sono degli uomini da bene, ma la maggiore parte, della libertá e del governo populare; che se avessino entrate mediocre, bisognerebbe pensassino a’ guadagni onesti per mantenere la casa sua e per potere a’ tempi maritare le fanciulle sue, e non arebbono ocio né commoditá di stillarsi el cervello per fare gli stati stretti. Sono in questo pensiero compagni alla ambizione di costoro quegli che sono impoveriti e rovinati per le superflue spese, le quali, come ho io detto, derivano communemente dallo esemplo di questi altri, e’ quali vedendo non si potere rassettare per lo ordinario, sempre desiderano e pensano a cose nuove. Però vedete di quanti mali sia causa lo essere le cose male divise.

Dirò piú oltre che questa soma è nociva a loro medesimi, perché allievano loro ed e’ loro figliuoli in sulle delicatezze ed in sul non fare niente, né sapere onestamente guadagnare [p. 203 modifica] uno quattrino, in modo che, se viene loro adosso una mala fortuna, come spesso interviene agli uomini, non hanno industria o virtú alcuna da potersi riparare o sostenere; anzi ne vengono presto in tale calamitá che è da avergli compassione; sanza che e’ figliuoli, per essere allevati da ricchi ed in su questa sicurtá e boria dello avere assai possessione, pigliano spesso cattivi costumi e vivere licenzioso, in modo che sanza alcuna avversitá di fortuna, co’ vizi loro vituperosamente si disordinano ed impoveriscono, e quando sono caduti nella povertá, non la sanno sopportare, perché non sono usi a sopportare e’ disagi, non a sapere vivere solo con quello che bisogna, come quegli che sono nati ed allevati poveri, che pigliano per piacere quello modo di vivere in che costoro poi si disperano; e quando pure non cadessino in povertá, né per colpo di fortuna né per difetto loro, el vivere superfluo e con gli agi che loro vivono, gli abrevia la vita e gli tiene sempre infelici. Vedete questi ricchi pieni di gotte, pieni di catarri, di renelle, di mille accidenti che gli fanno morire piú presto che gli altri, e mentre vivono gli tengono in miseria; uno disagio che abbino una volta piú che lo ordinario, che non si può sempre guardarsene, gli fa incorrere in sei febre.

Né vi lasciate dare a intendere, che questi che hanno tante possessioni, siano utili alle cittá, perché ne’ bisogni aiutano le cittá; anzi è tutto el contrario, che per la grazia di Dio, per el loro modo di vivere superfluamente e perché le entrate non sono vive, ma che aspettano tempo e carestia, non hanno mai questi tali uno quattrino. Io non gli voglio nominare, ma discorrete voi questi che vivono in sulle possesione: sempre la maggiore parte ha debito, stanno el piú del tempo a specchio e non pagano mai persona. Manco l’onorano; perché l’onore delle cittá non consiste che costoro siano veduti passeggiare gonfiati per piazza o per mercato con lucchi spandoranti e foderati riccamente indosso, o co’ mantelli lucchesini che ardono; ma che abbia cittadini che sappino in ogni caso ed in ogni tempo dire e fare, siano buoni amatori della patria, vaglino di consiglio c di esperienzia, e di chi la cittá si possa [p. 204 modifica] in ogni arduo accidente servire drento e fuora. Questi sono quegli che fanno onore alle republiche, che le conservano e le fanno grandi; ed a tempo de’romani accadde spesso che fu cavato di villa e fatto consule o dittatore uno povero cittadino, che per povertá se ne lavorava uno suo campo da sé, ed avuta la nuova, se ne tornava drento a pigliare el magistrato. Né crediate che gli mandassino incontro la achinea, ma se ne veniva a suoi piedi, come fo spesso io, cosí collegio come io sono, di villa mia.

Né è vero che questi tali sovvenghino molti nelle necessitá, anzi come ho detto spesso, non pagando e’ debiti, ritengono quello di altri, non che diano del suo, e la loro roba la consumano in fattori ed in famigli e fante che sono forestieri o contadini, ed in cavalli, sparvieri ed in cani; che non solo non è utile della cittá e de’ cittadini, ma ancora danno, perché si toglie a loro el pane di bocca per darlo agli strani ed alle bestie.

Potrei dire molte altre cose, ma lo effetto è che l’avere troppe possessioni non fa bene alcuno, ma infiniti danni alla cittá ed a’cittadini ed a quelli medesimi che l’hanno. E se mi fussi detto, che poi che le ricchezze superflue sono nocive, si doverrebbe pensare a uno modo di gravezza che battessi non solo chi ha troppe possessione, ma ancora questi mercatanti ricchi ed uomini danarosi, e chi ha entrate grosse di monte, io rispondo, che quanto al monte, io direi el medesimo che delle possessione, perché ci sono le ragione medesime, se non ci fussi el rispetto della fede publica sotto la quale loro hanno creduto o comperato, che sarebbe troppo grande difetto a macularla. Ma quanto a’ mercatanti, dico altrimenti, perché, oltre che questo non si può fare cosí facilmente, conciosiaché tali ricchezze sono incerte, e spesso si disegna che uno sia ricco o grande mercatante, che è povero o in sul fallire, che non interviene cosí delle possessione, che si veggono. Le ragione ancora sono diversissime, perché la ricchezza di questi tali non è con danno degli altri, perché non ristrigne la roba a nessuno, ed e’ danari che uno nostro [p. 205 modifica] cittadino guadagna, o andando di fuora, o mandando mercatanti in vari luoghi, se non li guadagnassi lui, non sarebbono nella nostra cittá né in borsa degli altri cittadini, a’ quali lui non solo non toglie, faccendosi ricco, ma ancora fa beneficio conducendo danari in Firenze; e se bene uno mercatante guadagna, questo non toglie che uno altro non possi guadagnare, né questi tali procurano la carestia con lo strignere e’ grani, anzi ne’ tempi cari fanno abundanzia faccendo venire grani forestieri.

Sono e’ mercatanti persone use a guadagnare, e per questo, e perché la roba fondata in sulle mercatante ha bisogno continuo di industria e diligenzia, non si danno allo ozio, né vi mantengono su e’ figliuoli, ma communemente gli allievano in sulle faccende, ed e’ danari che guadagnano con fatica, non gli spendono si largamente come chi è avezzo in su la entrata delle possessioni. Però non pompeggiano tanto, né sono causa di cattivi esempli come quegli; e se non si voltassino anche loro a comperare molte possessioni, il che non farebbono se vegghiassi la decima scalata, sarebbono molto piú parchi e piú moderati, perché queste sono quelle che gli fanno disordinare. Desiderano e’ mercatanti ed uomini danarosi che la cittá stia quieta ed el mondo in pace, perché altrimenti non vagliono le sue mercatante, ed hanno da consumare el tempo in faccende ed utili, in modo che non pensano alla ambizione, né si voltano a cercare novitá o stati stretti. Questi sono quegli da chi la cittá ed e’ privati cittadini ricevono onore ed utile, perché e’ mercatanti che hanno guadagni grossi, oltre che per stare in continuo esercizio sono uomini da faccende piú che chi sta in ozio, fanno palazzi, fanno chiese, fanno fabriche che onorano la cittá e danno da vivere a’ poveri; questi ne’ bisogni prestano danari al commune, fanno credito di fuora quanto bisogna, e co’ commerzi che hanno in diverse parte del mondo, sono utili a avere avisi ed intelligenzie per tutto, ed in diversi casi fanno alla cittá infinite commoditá; questi danno le spese a’ vostri figliuoli, e gli allievano virtuosi e non oziosi, col mandargli di fuora e col tenergli qui alle botteghe; [p. 206 modifica] questi danno le spese a infiniti artefici ed alla vostra plebe, che sono ancora loro parte della vostra cittá. Adunche s’ha a pensare a conservargli come utili al publico ed al privato; e che questi altri che hanno troppe possessioni siano sforzati a porle giu, perché sono perniziose non solo alla cittá ed agli altri, ma ancora a loro medesimi.

Però io laudo, prestantissimi cittadini, 1 a modestia e bontá di quegli che credendo, per le opinioni vane, questa provisione essere ingiusta, non l’hanno vinta, ancora che la fussi utile alla borsa sua; ma ora che ognuno può toccare con mano che la è giusta e santa, conforto e loro e gli altri non solo a vincerla, ma che si pensi a andare drieto con le decime scalate, tanto che chi ha troppe possessioni se ne scarichi. E cosí faccendo, non solo ne seguiranno tante utilitá e tanti beni che ho io detto, ma ancora si conserverá equalmente el grado di ognuno, perché tutti siamo cittadini e di uno medesimo grado, e cosí diventereno tutti veramente pari, come ragionevolmente dobbiamo essere.


Note