Dodici monologhi/Il signore che pranza in trattoria

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Il signore che pranza in trattoria

../Il nonno ../Il veterano al congresso IncludiIntestazione 2 gennaio 2013 100% Letteratura

Il nonno Il veterano al congresso


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IL SIGNORE CHE PRANZA

IN TRATTORIA.


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Questa bizzarria, che battezzai monologo senza parole, nacque così: una sera, al teatro Valle, entrai nel camerino di Ermete Novelli, dicendogli con accento corrucciato:

— Sono trenta sere, che tu chiacchieri sulla scena quattro o cinque ore di seguito. Il pubblico non ne può più. Prendi questo manoscritto, studialo bene, e così finalmente reciterai senza aprire la bocca.

La sera seguente, Ermete Novelli eseguì il monologo muto con arte inarrivabile. La quale sopratutto, oltre al gioco della fisonomia, consiste nell’esattezza automatica dei gesti. L’attore non ha nulla, nè guanti, nè bastone, nè cappello, nè tavolino, nè posate, nè piatti, nè bottiglie, nè portafogli e via dicendo: eppure colla precisa indicazione del gesto deve dare agli spettatori l’illusione della reale presenza degli oggetti che finge di maneggiare.


Entra sul proscenio, con una mano in tasca, e l’altra come se reggesse un bastone.

Finge levarsi il cappello, e intanto, con gli occhi, cerca un attaccapanni libero, con [p. 66 modifica]qualche lieve atto di dispetto, nel vederli tutti ingombri.

Finalmente, trova il fatto suo: ma l’attaccapanni, al solito, è troppo alto e per appendere il cappello è costretto a rizzarsi sulle punte dei piedi. Respira.

Si ficca il bastone tra i ginocchi, e si cava il pastrano, con un po’ di sforzo, come se incontrasse difficoltà a sfilar le maniche.

Regge il paltò con una mano e con l’altra finge appoggiare il bastone a un angolo di muro. Il bastone casca. Lo raccatta, sbuffando un po’, si volta e sembra infilarlo nella spalliera d’una seggiola. Poi spolvera le falde del pastrano con la mano rimasta libera e lo appende, dopo aver cercato con gli occhi, a un altro attaccapanni, facendo cascare il cappello d’un avventore. Lo raccoglie, lo ripulisce con la manica, chiedendo scusa e lo rimette al posto.

Si leva i guanti, sbottonandoli nervosamente, e li butta sulla tavola: poi li rassetta, uno sull’altro, stirandoli leggermente.

Intanto saluta con la mano i conoscenti, infiggendosi la ciambella nell’occhio.

Siede e batte.

[p. 67 modifica] Il cameriere non viene.

Cava un giornale dalle tasche di dietro: lo spiega, si mette a leggerlo, come un miope, e sbadiglia.

Suona col coltello sul bicchiere.

Il cameriere arriva. Soddisfazione. Il cameriere snocciola la lista e lui ascolta, facendo, ogni tanto, segni di disapprovazione e di orrore.

Ordina i maccheroni al sugo, ripiega il giornale e se lo mette in tasca.

Spiega il tovagliolo sui ginocchi. Prende il bicchiere, lo guarda contro la luce, l’annasa, vi fiata dentro e lo ripulisce: poi lo guarda di nuovo contro luce, tenendolo per il peduccio.

Ripulisce la posata: appoggia i gomiti alla tavola e la testa alle mani e aspetta.

Arrivano i maccheroni. Prima forchettata, si scotta, e li rigetta nel piatto. Cerca da bere, versa un po’ di vino, avvicina il bicchiere al sifone di seltz, e uno spruzzo d’acqua sulla manica lo fa trasalire. Si pulisce bene.

Beve, mangia, e si macchia. Pulisce l’unto col tovagliolo, poi s’annoda il tovagliolo intorno al collo e lo spiana per benino con la mano sul petto.

[p. 68 modifica] Seconda boccata. Trova una mosca nei maccheroni. La piglia delicatamente con le dita: la butta via. Respinge il piatto e batte col coltello.

Viene il pollo, durissimo. Sforzi eroici per tagliarlo. Sfugge dal piatto: lo infilza con la forchetta a metà della tavola e lo ricaccia nel piatto. Sforzi inutili per tagliarlo. Depone forchetta e coltello, e rompe il pollo con le mani, ma la carne non si stacca dall’osso. Chiama un cane: gli dà i pezzi del pollo, facendolo stare in piedi e attento al segnale.

Aspettando l’insalata, rompe un panino e vi trova un lungo capello: lentamente lo estrae.

Insalata. Prende il sale con la punta del coltello e insala, battendo con due dita della mano sinistra sul coltello. Cerca il macinino del pepe. Chiede scusa a un signore vicino e glielo prende. Mette pepe. Cerca posto per posare il macinino, essendo la tavola ingombra. L’oliera è troppo lontana. Deve alzarsi e piegarsi molto per prenderla e avvicinarla. Cava il tappo dell’aceto mettendolo nel buco. Versa aceto rapidamente e ritappa. Cava il tappo dell’olio. Versa olio con moto circolare lento, [p. 69 modifica]lascia gocciare, rimette, ritappa. Rimescola l’insalata, macchiandosi la manica e ripulendo. Mangia.... L’insalata è cattiva: la respinge.

Chiama il cameriere. Manda via tutto e ordina una tazza di caffè, raccomandandosi che sia buono.

Caffè. Mette tre pezzi di zucchero con solennità. Fa versare e con la mano indica: basta. Rimescola e beve sorseggiando. Trangugia un bicchierino di cognac tutto d’un fiato: poi ripiglia il caffè a sorsetti, scottandosi.

Cava un lungo portasigari. Estrae un sigaro virginia, deponendolo sopra la tavola. Chiude il portasigari e lo rintasca, con colpetto di mano, per accertarsi che è andato bene a posto. Estrae la paglia dal sigaro, collocando il virginia sopra l’apposito candeliere. Colpetto sulla tasca per sentire se ha cerini. Estrae la scatolina e la scuote per accertarsi che contenga fiammiferi. L’apre. Il primo cerino si spegne. Quanto al secondo, salta via la capocchia, che gli brucia l’indice. Se lo succhia.

Col terzo cerino, chiuso con grande precauzione tra le due palme delle mani, accende la candela. Aspetta. Guarda se il [p. 70 modifica]sigaro sia abbastanza bruciato. Ripone la scatola dei cerini. Prende il sigaro. Da prima va bene. Spegne la candela e fuma. Il fumo gli va nell’occhio sinistro che chiudesi, lacrimando.

Fa cenno, con la mano, al cameriere che passa, e lo prega di fargli il conto. Intanto il sigaro non tira. Cerca dove è rotto. Trovato il punto, fa la medicatura, stracciando dal giornale un pezzetto di carta, e con la saliva accomoda la rottura.

Arriva il cameriere col conto. Osserva la nota, che gli sembra esagerata, e sembra dire al cameriere che ha mangiato assai male e che in questo locale non ci verrà mai più. Cava il portafogli. Estrae un biglietto da dieci lire: lo guarda contro luce, poi lo butta sulla tavola. Guarda il resto: prende un biglietto da cinque lire e lo mette nel portafogli che rintasca. Prende il piattino e rovescia il resto in tasca. Poi versa solennemente, uno a uno, otto soldi di mancia nel piattino, contandoli.

Stacca il pastrano con assai stento e se lo infila con difficoltà. Colpetto sapiente per alzare il bavero del paletot e abbassare quello dell’abito.

Prende il cappello.

[p. 71 modifica] Non trova più il bastone. È per terra.

Rialzandosi, si pulisce, scuote via a buffetti le briciole di pane.

Saluta un qualche amico, fingendo dire che lui non sarebbe più tornato in quel locale.

Ripassando avanti al tavolino, e pensando quanto è stato servito male e con mal garbo, riprende tutti i denari che aveva messi nel piattino per mancia, e va via dicendo, a voce alta: — Buona notte.