Eh! La vita/L'ideale

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L'ideale

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L'ultima lusinga Un sogno
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L’IDEALE

[p. 199 modifica]Alberto Coscia non poteva soffrire questo suo volgarissimo cognome.

— Scegli un pseudonimo — gli diceva Rocchi, il pittore di anitre e di oche. — A furia di ripeterlo...

— Perchè? Come? Non rappresento nulla in niente. Mangio, dormo, passeggio, faccio qualche partita al bigliardo... Chi vuoi che prenda sul serio il mio pseudonimo?

— Dovrebbero prenderlo sul serio? Sei buffo, sai? Io, vedi? non ho adottato un cognome di battaglia. Ho battagliato con le mie anitre, con le mie oche. Le conduco, stavo per dire, a pascolo in tutte le Esposizioni, e ormai sono più conosciuto sotto il titolo di pittore di anitre e di oche, o soltanto di oche — quasi la gente abbia in uggia le povere anitre! — conosciuto più assai che non col mio nome di Filiberto Rocchi. Credi tu, forse, [p. 200 modifica]che questo ridicolo Filiberto mi abbia mai fatto piacere? L’ho annullato così.

— Quando penso che mia moglie dovrebbe essere chiamata: la signora Coscia... mi sento correre i brividi per tutta la persona.

La invincibile fissazione era questa: — Sua moglie sarebbe chiamata: la signora Coscia!

— Ah! Ah! — sbuffava a volte in camera — Certi sconci cognomi andrebbero proibiti per legge!

E dire che Alberto Coscia non era solamente un buon giovane, una gentilissima persona, ma pure un giovane colto, a cui l’agiatezza ereditata dal babbo e, più, da uno zio, permettevano di menare quella ch’egli qualificava vita di niente, per significare non occupata in una professione, in un negozio, in un’impresa industriale qualunque!

— Mangio, dormo, passeggio!...

Oh! Esagerava, per modestia, e anche per delusione di non sapere in che modo raggiungere un certo suo mistico ideale. Proprio: mistico! Quel cognome — Coscia! — per ciò gli pareva la disastrosa influenza, il motto cabalistico di iettatura che incombeva su la sua vita.

— Tant’è vero — concludeva il pittore di anitre e di oche — che uno, quando non ha [p. 201 modifica]nessun guaio addosso, va a cercarselo col lumicino, e dei peggiori che avrebbero potuto capitargli!

Veramente Alberto Coscia il guaio non se lo era cercato col lumicino; gli era stato apportato dal testamento dello zio, pel quale egli godeva di un largo patrimonio, da usufruttuario, in vista del futuro piccolo Nicola Coscia che sarebbe stato il vero erede, se Alberto si fosse deciso di prender moglie e di metterlo al mondo, e così perpetuare la stirpe dei Coscia, che, in caso diverso, si sarebbe estinta con lui.

— Gran disastro! — egli esclamava ironicamente.

Ed era ingiusto verso le due generazioni dei suoi che, a furia di onesta attività, di economie, avevano messo insieme una sostanza da permettere a lui, ultimo dei Coscia, di menare una vita senza preoccupazioni di sorta alcuna, e di fare quel che voleva, cioè, niente!

Era rimasto solo, libero, a diciotto anni mentre cominciava il suo corso di filosofia e lettere all’Università. Lo aveva scelto tanto per dire: ho una laurea anch’io. Laurea che, infine, non gli imponeva nessun esercizio professionale, come quelle di avvocato, di medico, di farmacista. [p. 202 modifica]

Permetteva, tutt’al più, di concorrere a una cattedra di Ginnasio, di Liceo e, tardi, anche di Università.

Le tre, le cinquemila lire all’anno, che essa avrebbe potuto fruttargli, le aveva già, senza grattacapi, dalle rendite del suo patrimonio; e, se gli fosse piaciuto, non gli sarebbe stato difficile di duplicarle, di triplicarle con oculate speculazioni. Ma, a quale scopo?

La Natura gli aveva dato un’anima gentile, la filosofia — sembra strano — gliel’aveva ridotta fantastica. Giacchè, ottenuta la laurea, egli aveva continuato ad occuparsi di filosofia, volendo foggiarsi una vita razionale, elevata, conforme alle grandi leggi dello Spirito — con l’esse maiuscola, come lo canzonava il terribile Filiberto Rocchi che gli voleva bene disinteressatamente. E intanto, egli, che avrebbe potuto cavarsi cento piccoli capricci, e godere la giovinezza meglio di qualunque altro, viveva quasi da eremita, ridottosi al terzo piano della vasta casa dov’era nato, per non aver disturbi dagli inquilini, sui quali poi non voleva far pesare l’incubo della sua presenza di padrone di casa.

— Vita razionale, elevata, conforme alle grandi leggi dello Spirito! [p. 203 modifica]

— Quale? — gli domandava Filiberto Rocchi suo amico d’infanzia, che andava spesso a trovarlo, o a scovarlo, come soleva dir lui, in quel silenzioso terzo piano elegante e severo, quale si conveniva a filosofo giovane, ma proprietario, cosa che ai filosofi accadeva di rado.

— Quale? — ripeteva Alberto Coscia — Quasi io lo sapessi! Studio, cerco: qualcosa di assolutamente diverso dalla stupida vita attuale.

— La chiami stupida perchè l’hai appena assaggiata, da studente. Poi, quel can barbone del tuo professore di filosofia ti ha guastato la testa; e si può dire che ti sei chiuso in quest’eremo.... Ah! Te lo invidio! Me ne farei uno studio principesco, e forse non dipingerei più anitre ed oche, ma animali più nobili, se ce ne sono... Ti sei chiuso in quest’eremo a ringrullirti dietro l’Ideale! L’Ideale, caro mio, è la realtà che si tocca e si mangia e si beve; è la piena sodisfazione dei sensi tutti, con le grandi impressioni dello spettacolo della Natura, della musica, delle altre arti, comprese le mie anitre e le mie oche, che tu avresti dovuto comprare per avere qui, nel tuo studio, una sensazione di colore passata a traverso il cervello di un tuo amico. L’Ideale è la donna amata e [p. 204 modifica]posseduta, in qualunque maniera... Non scandalizzarti perchè il tuo Spirito non ha mai detto se si deve amare così e così o cosà e cosà...

— L’ha detto.

— Per bocca di chi? Di quel can barbone del tuo professore di filosofia? E a lui perchè non gli hai detto che non prender moglie e far funzionare da moglie quella povera contadina della sua serva, non è precisamente l’Ideale?

— Chi lo sa? L’Ideale è così infinito, che ognuno può appropriarsene una parte e adattarlo ai bisogni del suo organismo, del suo intelletto.

— E allora? Tagliatene una gran fetta per te, e vivi la vita vera, la vita vivente; scusa se mi esprimo male. Mi ispiri pietà. Ti voglio tanto bene, che non so che farei per vederti commettere un magnifico sproposito, di quelli che permettono di assaporare l’esistenza e lasciano indolcita la bocca per un gran pezzo.

Ah, se Alberto avesse avuto il coraggio di rivelare al suo amico quel che teneva chiuso, sprofondato, da quasi cinque anni, in fondo al cuore! Ma [p. 205 modifica]Alberto era un gran timido, e nessuno se n’era mai accorto; il Rocchi meno di tutti, forse perchè lui, di carattere vivace, non poteva affatto capire che si potesse essere timidi fino a quell’eccesso.

Aveva notato, è vero, da qualche tempo in qua che la corsa di Alberto a l’inseguimento dell’Ideale non era più, come prima, una specie di sport, con lunghe intermittenze di riposo e di ristoro; ma continua, celere e, in certi giorni, quasi affannosa. E questo gli sembrava buon segno, da un lato. Dall’altro però gli faceva sospettare che Alberto gli nascondesse qualcosa, un segreto doloroso, del quale avrebbe voluto sbarazzarsi, e non ne trovava la via.

Di tratto in tratto, con quella sua sarcastica imperturbabilità, il Rocchi lo interrogava:

— Quanti chilometri abbiamo filato in questi giorni verso l’Ideale? Parecchi, credo: mi sembri un po’ stanco.

Rocchi fu stupìto, una mattina, di sentirsi rispondere:

— Non ne posso più! O sono un imbecille, o sono un pazzo, o sono in via di diventare qualcosa di peggio dell’uno e dell’altro! [p. 206 modifica]

— Cominci ad accorgertene ora?

— Meglio tardi che mai!

— Me ne rallegro sinceramente con te. E... si può sapere di che si tratta?

— Si tratta... che l’intelligenza è il peggior dono che ci sia stato fatto dalla Natura, da Dio, da non sappiamo chi.

— Il can barbone del tuo professore di filosofia dovrebbe saperlo.

Lo chiamava così per la straordinaria somiglianza della testa di lui con quella di un cane di questa razza.

— Ma, più precisamente, di che si tratta, se è lecito domandarlo? — insistè Rocchi.

— Sono nel bivio, o di rinunciare alla vistosa eredità di mio zio e ridurmi quasi povero, o prender in moglie, per forza, la prima femmina che càpita, ed essere infelice per tutta la vita.

— Senti: prender in moglie la prima femmina che càpita non è poi, come tu immagini, un’idea cattiva. Con le donne non si sa mai! Indovinala grillo! Ma che c’entra qui l’eredità di tuo zio?

— Tu non sai! Fra cinque mesi io compio trent’anni. E il testamento di mio zio dice che se al trentesimo anno non avrò ancora preso moglie, il [p. 207 modifica]suo patrimonio va interamente devoluto alla Congregazione di carità....

— E tu, per far dispetto a cotesto tuo zio nell’inferno dove si trova — giacchè uno che commette l’infamia di un tal testamento dev’essere con certezza all’inferno! — tu, per fargli dispetto, prendila sùbito, la prima femmina che ti càpita tra’ piedi. Forse avrai la fortuna di sposare la migliore delle mogli possibili. Il caso spesso... Vincere un terno al lotto è meno difficile di trovare una buona moglie. Non dire che sono pessimista. Ho l’esempio di mio padre. Mio padre era un gran originale...

— Lascia stare le storielle!

— No, questa è opportuna, ed ha il rarissimo pregio di esser vera. Mio padre era rimasto scapolo fino a quarantacinque anni. Bellissimo — non badare a me, non gli somiglio punto, — aveva avuto una giovinezza avventurosa, in tutti i sensi.... Una notte — raccontava spesso — misi senno tutt’a un tratto (non sapeva spiegarselo nemmen lui) e prima che spuntasse l’alba avevo già deliberato:

— Sposerò la donna che passerà davanti alla mia porta allo spuntar del sole. Attesi. Passò una donnina che andava a messa. Non era giovane, non [p. 208 modifica]era bella, era anche gobbetta. Ma non esitai. E fu la mia fortuna. — Mia madre infatti è stata una santa. Con questo non intendo di affermare che il caso sia sempre così benigno.

— Ma io amo, da cinque anni, una creatura divina!

— Sposala dunque: che aspetti?

— Lei non sa niente!

— Faglielo sapere; ci vuole tanto poco! Se occorre un messaggero... Non ho mai fatto questo mestiere; ma per te son pronto a tutto.

L’aveva vista a una fiera di beneficenza. Bionda, alta, snella, con certi occhi sognanti... indimenticabili; voce soavissima, musicale... indimenticabile; e una lieve andatura di tutta la persona quasi sfiorasse il terreno coi piedi... indimenticabile! Infatti non aveva dimenticato nulla di quanto potè osservare quella sera, l’unica volta che aveva avuto l’occasione di starle vicino, confuso tra la folla, pauroso di farsi scorgere, bevendosela tutta con gli occhi, e sentendosi ristorare l’anima e il cuore proprio come un assetato che riesca ad accostar le labbra a una limpida e fresca fonte. [p. 209 modifica]

Un altro, dopo otto giorni di attivissimo fantasticamento, avrebbe preso disperatamente la risoluzione di avvicinare, a ogni costo, quella signorina, di farle sapere l’opera di sconvolgimento prodotta dalla sola vista di lei in un povero cuore. La risposta non avrebbe potuto essere dubbia se la signorina era libera di scegliere; ma egli si sentiva così indegno della felicità di possedere quel tesoro da rassegnarsi anticipatamente a un possibile rifiuto.

Voleva almeno non meritarlo. E fece questo calcolo:

— La Divina — non la chiamava altrimenti — ha poco più di sedici anni: io ne ho ventiquattro. In due tre anni, potrò fare lo sforzo di rendermi non del tutto indegno di lei, spiritualmente, non fosse altro; giacchè non abbiamo nessun potere di modificare il corpo e le sembianze ricevuti nascendo. C’è l’azzurro del cielo nei suoi occhi; c’è la più paradisiaca melodia nella sua voce; m’ispirerò ad essi per arrivare a penetrare, ad intendere il cuore e l’anima della Divina e conformare ogni mio sentimento, ogni mio pensiero, ogni mio atto alla benefica ispirazione che mi verrà da lei.

E per ciò si era quasi segregato dalla società, [p. 210 modifica]tutto intento a quell’opera di purificazione che lo esaltava ogni giorno più, come più credeva che essa servisse ad accostarlo a lei.

C’erano ore e spesso giornate, nelle quali il suo misticismo filosofico gli faceva immaginare che certi influssi, certe correnti sprigionate dalla sua volontà dovessero arrivare fino a lei, farle vagamente sentire che qualcuno, da lontano, le stava attorno, in una specie di adorazione continua; e, forse, farle anche indovinare chi fosse; perchè, certamente, ella avea dovuto notare gli sguardi dello sconosciuto che, tra la folla, la sera della Fiera di beneficenza non aveva cessato un sol momento di fissarla con avida ammirazione.

Poi, tutt’a un tratto, il bel sogno del suo Ideale gli crollava davanti alla maligna insinuazione parsagli suggerita da qualche spirito irrisore:

— E la tua Divina dovrà venir chiamata: signora Coscia?... Signora Coscia!

Una mazzata sul capo gli avrebbe fatto minore impressione.

Corse dal suo avvocato:

— Vorrei mutar cognome.

— Occorre un decreto reale, ma c’è un ostacolo. [p. 211 modifica]

— ...?

— Il testamento di suo zio. Appena lei diventasse mettiamo il signor Alberto Manzoni — scegliamo un cognome illustre — la Congregazione di carità vorrebbe sùbito mettersi in possesso del patrimonio che non servirebbe più a continuare la stirpe dei Coscia. Non ci ha pensato?

Fece e rifece parecchi calcoli.

— Che mai poteva rimanergli, se avesse rinunziato alla maledetta eredità dello zio?

Poco, assai poco! Suo padre era stato uno sciupone sbadato. Fin la casa era inclusa in quella eredità!

Lui, come lui, avrebbe fatto il sacrifizio a occhi chiusi: ma avrebbe poi potuto pretendere dalla Divina: — Vieni a condividere la mia povertà, se ti sembra che il mio amore valga qualcosa? — Lei e i parenti gli avrebbero riso in faccia!

Fu appunto in una di quelle terribili giornate di angoscia che gli scappò detto al Rocchi:

— Non ne posso più! O sono un imbecille o sono un pazzo! [p. 212 modifica]

Il Rocchi, che gli voleva veramente bene, allora si credette in dovere d’insistere. E quando potè strappargli, a poco a poco, una mezza confessione, lo prese per le mani, e guardandolo negli occhi, gli disse:

— Ma è possibile che tu sia fanciullo fino a questo punto? E la filosofia a che giova dunque? Non capisco perchè Coscia ti debba sembrare cognome indecente. E tutti i Bocca, i Bracci, i Nasi, i Denti, i Gamba, i Panza, dei quali è popolato lo Stato civile? Hai dimenticato quel nostro collega di Università che si chiamava... No, no! Con quel cognome, quantunque un po’ modificato, una signora avrebbe dovuto arrossire di sentirsi nominata... Eppure... Via! via! Io credo che la tua Divina, se non è una sciocca, se è ancora libera... — Sì? tanto meglio! — dovrà dichiararsi felice di poter chiamarsi Coscia; siine certo, fanciullo mio!

Alberto sentiva lo sbalordimento dì chi vien destato improvvisamente nel meglio del sonno e di un sogno. La semplice ipotesi espressa dal Rocchi, che la Divina potesse adattarsi a quel cognome, gli annebbiava nella mente la bionda figura snella, dagli occhi sognanti!

Rocchi poi fu più feroce riguardo alla rinunzia della eredità. [p. 213 modifica]

— Caro mio, l’amore, l’Ideale, ne convengo, sono bellissime cose, ma ti lasciano morire di fame, se non hai altro con cui rimediare. L’amore, disgraziatamente, non è eterno; l’Ideale si trasforma, tramonta, e non somiglia al sole che rispunta la mattina dopo. Se la filosofia non insegna questo, che... filosofia è? Il can barbone del tuo professore, quello ah! la sa lunga. Filosofo su la cattedra, nei libri — ne ha scritti? Non lo so; — ma nella vita è uomo pratico. Impara dunque da lui. Credi a me; non c’è donna al mondo che valga trecentomila lire, quando esse sono tutto quel che un galantuomo possiede. E poi, l’Ideale te lo sei goduto cinque anni; dovresti già esserne sazio; sei ingordo, intendi? Come sono contento di aver potuto finalmente penetrare il mistero! Ma sai che sei stato davvero a tocca e non tocca con la pazzia? Ora, lesto, richiesta, fidanzamento, nozze... con fulminea rapidità! Figùrati se quelli della Congregazione non stanno con tanto d’occhi aperti, contano i giorni, le ore, i minuti! Mi ero profferto, ma riconosco che non sono l’uomo più adatto per un messaggio matrimoniale. Il tuo avvocato è persona savia, garbata; quel che ci vuole. E non aver quest’aria sbalordita! O scendo giù, nella via, [p. 214 modifica]prendo per la mano la prima signorina che passa, e te la conduco qui: Ecco tua moglie!

— E se accetta... di chiamarsi...? E se non accetta?

Tre giorni di terribili ansietà.

Anche l’avvocato gli aveva detto ridendo:

— Andiamo! Un uomo come lei si preoccupa di queste sciocchezze?

Ma per lui era tuttavia cosa suprema che l’Ideale, la Divina rigettasse sdegnosamente di essere profanata da quel vilissimo cognome.

E non volle, non seppe attendere; gli parve che, in ogni caso, gli era già venuta meno ogni ragione di vivere.

La palla del suo revolver fu però più intelligente di lui; non lo ammazzò.

Quando, dopo due mesi di alternativa tra vita e morte, egli entrò in convalescenza, Rocchi, che lo aveva assistito notte e giorno da infermiere affettuosissimo, fu felice di sentirlo esclamare:

— Com’è bella la vita anche... quando è cattiva!

Alberto Coscia si alzò da letto già guarito dalla [p. 215 modifica]ferita al fianco, e dalla malattia dell’Ideale. Il tentativo del suicidio aveva impedito all’avvocato di eseguire l’incarico avuto; e proprio in quei giorni la bionda creatura dagli occhi sognanti si lasciava rapire da un galante chauffeur.

Alberto non ne fu scosso. Disse soltanto:

— Infine, non è gran male l’aver sognato tanti anni!

Il giorno delle sue nozze con una buona e modesta signorina propostagli dall’avvocato, Rocchi fece all’amico il regalo di un simbolico quadro: L’Ideale: Dalla cresta d’un caminetto che si scorgeva appena, in basso, salivano larghe ondate di denso fumo che dileguavano disperdendosi in fondo, lontano, su la vasta campagna illuminata dal sole.