Eugenio Anieghin/Capitolo Settimo

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Capitolo Settimo

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CAPITOLO SETTIMO.

Mosca, figlia diletta della Russia, ove troverò
una città che ti somigli?

Dimitrieff.

Chi può non amare la paterna Mosca?

Baratinschi.

Guai a Mosca! Che cos’è aver veduto il mondo!
Ove si sta meglio? — Dove non si sta.

Griboiedoff.

La neve strutta dai raggi dissolventi di primavera, precipita dai monti vicini in ruscelli torbidi, allaga le campagna. La natura mezza addormentata accoglie con un dolce sorriso il mattino dell’anno. Il cielo splende azzurrino. I boschi, tuttora trasparenti, si adornano d’una tenera lanugine di verdura. Le api abbandonano i loro palazzi di cera per andare a predare i fiori novelli. Le valli si asciugano e si smaltano; la greggia bela e il rosignolo garrisce nel silenzio notturno.

Quanto mi affligge il tuo ritorno, o primavera, primavera stagione d’amore! Che crudele agitazione regna nel mio sangue e nel mio spirito! Con che mesta voluttà io godo del zeffiretto che mi aleggia intorno nella mia solitudine agreste! Mi è forse vietato il piacere? o tutto ciò che diletta e ravviva, tutto ciò che esulta e brilla, deve sembrare orrido e tetro a chi è morto al mondo? Il susurro delle nuove giovinette fronde che subentrano a quelle dell’autunno decorso, ci richiama forse a mente qualche amara perdita [p. 167 modifica]nostra, sicchè non ci possiamo rallegrare del rinascimento dei fiori? O, comparando con angoscia i nostri belli anni ai bei giorni, il ritorno di questi ci fa più aspramente risentire la fuga di quelli? Forse anche ci apparisce in una visione poetica qualche antica primavera, la cui idea ci ripone sotto occhio una regione remota, una serata serena al lume della luna....

Onesti poltroni, savi epicurei, mortali indifferenti e beati, uccelletti nutriti nel nido di Levscin,1 Priami delle campagne, e voi sensibili dame, la primavera vi chiama in villa. Ecco il tempo del caldo, dei fiori, del lavoro; il tempo delle passeggiate fantastiche, delle notti scandalose. In villa, amici miei! Presto, presto, salite nelle carrozze cariche a più non posso, salite nelle diligenze; evadetevi dal carcere delle città.

E tu, lettor benevolo, sali nella tua calescia e abbandona la affaccendata metropoli dove hai passato l’inverno in feste e in gioco. Vieni in compagnia della mia capricciosa Musa a udire il mormorio crescente delle selve, lungo il ruscello innominato, presso alla borgata ove Eugenio, anacoreta atrabiliare e ozioso, viveva poco fa in vicinanza della giovine Taziana, di quella mia diletta visionaria.... Egli non vi sta più, ma vi ha lasciato un’indelebile traccia.

Fra quell’anfiteatro di montagne andiamo là dove un’acqua limpida serpeggiando per i verdi prati scende al fiume a traverso una macchia di tigli. Là il rosignolo, poeta della primavera, canta tutta la [p. 168 modifica]notte, e mischia i suoi trilli al garrir della fonte; li sboccia la rosa selvatica; là s’inalza una pietra sepolcrale adombrata da due pini annosi. Si legge sulla lapida questa iscrizione:

«Qui giace Vladimiro Lenschi, che morì giovane della morte dei valorosi, nell’anno...... in età di..... Riposa in pace, o gentil vate.»

Altre volte, una ghirlandetta misteriosa appesa ai ramoscelli curvi, si librava al soffio matutino; altre volte, verso sera, due amiche visitavano quel luogo, e abbracciate, piangevano su quella tomba, al chiaror della luna. Ma adesso il monumento funebre è obliato. Sul terreno che lo circonda non s’improntan più le consuete orme.... la ghirlandetta rorida più non tremola ai ramoscelli del pino. Solo il pastorello canuto e infermo vi viene come prima a lavorar, cantando, le sue rozze scarpe di scorza.

Povero Lenschi! La giovinetta stanca cessò di piangere e mancò di costanza nel dolore. Un altro attrasse li sguardi di lei, un altro seppe, a forza di premure, sopire il di lei affanno; un Ulano l’ha invaghita. Eccola appiè dell’altare.... essa arrossisce sotto la corona nuziale, e china modestamente il capo; li occhi suoi volti a terra sfavillano d’amore; un dolce sorriso splende sulle sue labbra.

Povero Lenschi! Nel tuo sepolcro, nel palazzo della muta eternità, ti sdegnasti di quel tradimento? Oppure, addormentato in grembo a Lete, insensibile e beato, rimanesti indifferente a tal perfidia? Chè forse dopo la tomba più non ci cal di questa terra.... Nè la terra più si cura di noi. La voce degli amici, dei nemici, delle amanti, in un subito tace. I voraci [p. 169 modifica]eredi si disputano i brani del nostro avere, come cani famelici un osso.

La bella Olga più non adorna la magione dei Larin. L’Ulano, schiavo del suo dovere, fu costretto di raggiunger il suo reggimento. La vecchia madre nel separarsi dalla cara figlia sparse tante lacrime e tanto patì, che parve dovesse spirar l’anima. Taziana stette col ciglio asciutto, ma tinse il volto afflitto d’un biancor di morte. Quando i parenti e gli amici escirono sul verone e poi si strinsero intorno alla carrozza degli sposi per dare loro un ultimo addio, Taziana segui la folla; e quando la carrozza partì, l’accompagnò cogli occhi; e anche dopo che fu sparita, li tenne a lungo fissi in quella direzione.

Ormai Taziana è sola, affatto sola! La compagna della sua infanzia, la sua favorita tortorella Olga le è rapita dal fato, le è strappata dal seno per sempre. Come un’ombra essa erra senza scopo nel giardino deserto; ma nè in quello nè in casa trova consolazione nè sollievo. Vorrebbe piangere, ma le lacrime non sgorgano dal ciglio inaridito e pare che il cuore le si schianti in due pezzi.

In quella crudele solitudine, la sua passione di viene più violenta; amore le parla più altamente del lontano Anieghin. Essa non lo vedrà più; essa deve odiare in lui l’assassino di suo fratello.... Il poeta è spento.... e già più nessuno si sovvien di lui; già la sua fidanzata si è donata ad un altro; la memoria del poeta si è spersa come un vapore nel vasto azzurro cielo. Due soli cuori forse, tuttora pensano a lui e si rammaricano.... ma perchè rammaricarsi?

È notte oscura. Il fiume scorre silenzioso. Il [p. 170 modifica]melolonta ronza intorno agli alberi. Le danze s’intrecciano. Il fuoco dei pescatori splende sulla riva opposta. Taziana, immersa nelle sue meditazioni, vaga per la campagna all’argenteo chiarore della luna.... avanza, avanza.... Finalmente scorge sulla cima d’un colle una casa signorile, una borgata, un boschetto a piè d’un poggio, e un giardino bagnato da un ruscello. Taziana contempla quella dimora e il suo cuore batte più forte e più presto. Un momento sta titubante e incerta: “Andrò io più oltre, o tornerò indietro? Egli non è più qui... nessuno mi conosce... darò una occhiata alla casa e all’orto....” E la fanciulla prosiegue il suo cammino, respirando appena... gira attorno lo sguardo inquieto... ed entra nel cortile abbandonato. I cani le si slanciano incontro abbaiando. I ragazzi accorrono in fretta alle strida della giovinetta spaventata. Scacciano i mastini a forza di bastoni e si fanno i protettori dell’incognita.

“Si può vedere quella casa?” domandò Taziana.

Immantinente i ragazzi vanno da Anisia, cercar la chiave del vestibolo. Questa si fece incontro alla visitatrice e le aprì le porte.

Taziana entra nella casa in cui poco fa viveva il nostro protagonista. Guarda, e vede una stecca di bigliardo giacente in un angolo del salotto e un frustino da cavallerizza sopra un divano. La contadina che la conduce, le dice: “Ecco il caminetto; qui il padrone se ne stava seduto tutto solo. Qui desinava secolui nell’inverno il signor Lenschi, defunto. Mi segua per di qua. Ecco lo studio del [p. 171 modifica]padrone. Qui dormiva; qui beveva il caffè. Qui ascoltava i rapporti dell’intendente e leggeva in un libro la mattina.... Anche l’antico padrone dimorava in questa stanza. Tutte le domeniche, presso a questa finestra, mettendosi gli occhiali, giuocava meco al duraccèc.2 Dio abbia pietà della anima sua e gli dia pace nella fossa, dentro la nostra madre terra!”

Taziana considerava tutto con attenzione e con intenerimento; ogni minima cosa le sembrava cara, e le destava in seno un sentimento mezzo gaio e mezzo tristo. La tavola colla lampada estinta; i libri ammucchiati senza ordine; il letto coperto d’un pesante coltrone; un ritratto di Lord Byron; una colonnetta sormontata da una statua di bronzo, col cappello abbassato sulla fronte tetra e colle braccia conserte al petto.... Taziana esamina tutto.... e poi s’affaccia per goder della campagna rischiarata dal pallido raggio della luna....

Quasi incantata, non può decidersi a lasciare quel gabinetto. Ma si fa tardi. Il vento è freddo, la valle è buia, e il villaggio dorme velato di vapori grigi. Già la luna tramonta... è tempo che la bella pellegrina rieda al paterno tetto. Procura di celar la sua emozione, ma non può pertanto reprimere un sospiro. Si dispone a partire; ma prima di lasciar quelle mura chiede licenza ad Anisia di tornare un’altra volta nel castello deserto per dare una scorsa ai libri sparsi sul tavolino.

Il giorno seguente, di buon mattino, Taziana era nel gabinetto d’Eugenio; e rimasta sola, in quella solitudine, in quel silenzio, dimenticando il [p. 172 modifica]mondo intero, s’abbandonò liberamente al suo dolore e proruppe in pianto. Poi, si mise a frugare nei libri. Dapprima non voleva aprirli, ma i titoli strani e disparati la empirono di meraviglia e lesse con avidità, e un mondo nuovo apparve alla sua vista. Sebbene, come sappiamo, Eugenio avesse da gran tempo rinunziato alla lettura, e ceduto ai tarli la sua biblioteca, pure teneva presso di sè alcuni volumi, quali, per esempio, i poemi dell’autore del Giaur e di Don Giovanni, e due o tre romanzi che rappresentavano i costumi contemporanei con bastante esattezza: quella immoralità, quell’egoismo, quella secchezza d’idee, mista di melancolia e d’irritazione che ferve e s’agita nel vuoto.

Alcune pagine portavano impresse le tracce di una unghia tagliente che avea segnati con strisce i passi più notevoli. Taziana fermò particolarmente su questi la sua attenzione. S’istruì con un palpito di quelle osservazioni, di quei pensieri, che avean colpito Anieghin e che egli aveva meditati e ponderati a lungo. Qua e là sui margini un punto interrogativo, una croce o alcune righe scritte col lapis rivelavano i più interni sensi del nostro eroe.

Adesso, Taziana incomincia a comprendere un po’ meglio, la Dio mercè, il carattere di colui per cui essa sospira in forza d’una tirannica fatalità. Chi è egli questo originale pernicioso e tristo?... Un cittadino dell’inferno o del cielo, un angelo o un demonio ribelle? Forse un fantasma, una copia vana, un moscovita con in dosso un mantello di Harold, una interpretazione dei capricci altrui, un indice alfabetico delle parole di moda, in somma una parodia? [p. 173 modifica]Potė Taziana indovinare quella sciarada? Potè trovare la soluzione di quel logogrifo?

Le ore volano. Taziana non riflette che sua madre l’aspetta da un pezzo. Due vicinanti sono venuti a veglia in casa sua, e discorrono appunto di lei.

“Taziana non è più bambina,” dice una vecchia sdentata, tossendo.

“È vero,” replica la madre. “Olga era più giovine. È tempo ch’io mariti anche Taziana; ma come si fa? Sempre risponde: non voglio. Ed è sempre pensierosa e va a passeggiar sola pei boschi.”

“Che non sarebbe innamorata?”

“Di chi mai?”

“Buianoff la corteggiava.”

“Fu rifiutato.”

“Giovanni Pietuscoff l’ha chiesta in isposa.”

“Fu respinto anche esso. L’Ussaro Puictin è stato qualche tempo quartierato da noi. Correva dietro a Taziana come un matto; ne era innamorato cotto. Io diceva fra me: forse questo sarà più felice degli altri.... Eppure non ci fu verso.”

“Sapete che? Andate a Mosca con vostra figlia, cara signora Larin. Quello è il gran mercato delle giovani da marito. E si dice che ci sia gran mancanza di donne. Andateci.”

“Cara amica, ho poche entrate, e a Mosca si spende molto.”

“Avete abbastanza per camparci un inverno, e, caso mai, io vi presterò l’occorrente.”

La buona vecchia gustò assai questo consiglio ragionevole e stimato. Contò il suo denaro, e stabilì [p. 174 modifica]immediatamente d’andare a stare l’inverno a Mosca. Taziana intese con orrore un tal progetto. La fa raccapricciar l’idea di dover mostrare a una società che non la perdona a nulla nè a nessuno, la loro semplicità provinciale; la loro toelette usata e fuor di moda, il loro linguaggio antiquato e scarso! Di dovere esporsi alla critica dei damerini e delle galanti dame di quella capitale! Oibò! oibò! Più saggio e più sicuro partito è lasciarla in fondo alle sue macchie natie.

Eppure convien che se ne svelga. S’alza coi primi albori, se ne va pei campi e mirandoli con tenerezza, esclama: “Addio valli quiete, e voi vette dei monti amici, e voi fronde delle amiche selve! Addio bel cielo, addio ridente natura. Cambio questa vita pacifica e grata con una vita piena di illustre tumulto e di splendide ambasce! Addio, mia dolce libertà! Dove men vado? perchè men vado? Che avvenire mi serba la sorte?”

Le sue girate divengono ora più lunghe. A ogni passo, si sente fascinata dalla leggiadria d’un colle o d’un ruscello. Si affretta di conversare coi suoi boschetti, coi suoi prati, come si suol fare con antichi compagni che si debbono tosto lasciar per sempre. Ma l’estate già volge al suo termine; l’aurato autunno già nasce. La natura, pallida, tremante, appare magnificamente adorna, come una vittima che procede all’altare. Borea spingendo davanti a sè le nubi, già sbuffa, sibila, e l’inverno lo segue.

L’inverno è giunto; appende serti e festoni d’argento ai ramoscelli nudi degli alberi; stende candidi tappeti sulle pianure, sui poggi; ferma i [p. 175 modifica]ruscelli e li trasforma in alabastro. La brina, il ghiaccio ci assediano da ogni banda, e ci dilettiamo di questi scherzi della natura. Ma Taziana questa volta non vi prende piacere. Non muove a salutar l’inverno, come era solita; non va a respirar la prima polvere del gelo, nè fregarsi il volto, le spalle e il seno, colla prima neve caduta sui tetti; Taziana maledice l’inverno, che la rapisce al suo nido.

L’ora prefissa s’avanza. La decrepita carrozza dimenticata nella rimessa, è tratta fuori, esaminata, rispalmata, rassettata. Tre chibitche trasportano la mobilia della casa, le marmitte, le seggiole, i cassettoni, i vasetti di conserva, le materasse, i piumini, i gabbioni del pollame, le pentole, le tazze, insomma, ogni sorta di arnesi. Una caterva di servitori e di contadini è adunata nel cortile; chi chiacchiera, chi piange; diciotto carogne sono attaccate alla carrozza. I cuochi allestiscono la colazione. Le chibitche sono cariche in modo che sembran montagne ambulanti; le vecchie si bisticciano coi cocchieri barbuti. Il corriere inforca una brenna emaciata e irsuta. I buoni augurii, i voti sinceri, gli addii ripetuti echeggiano intorno. I padroni entrano in carrozza; la venerabile vettura si scuote, crepita, si strascica sino alla porta del recinto.

“Addio, cari luoghi tranquilli... addio grata solitudine... ti rivedrò io mai?...”

E un torrente di lacrime scorre dagli occhi di Taziana.

Tra cinquecento anni incirca, secondo i calcoli dei filosofi, verrà, per l’effetto dei progressi della civiltà moderna, un giorno in cui si riformerà il [p. 176 modifica]nostro sistema di communicazione, e allora una rete di strade unirà le provincie della Russia. Allora, i ponti di bronzo accavalcheranno le acque con un solo arco; le montagne si traforeranno; si scaveranno ardite gallerie sotto gli alvei dei fiumi e in ciascuna stazione i fedeli cristiani troveranno una buona trattoria.

Per adesso non abbiamo buone strade; i ponti di legno marciscono negletti; le cimici e le pulci non ti lasciano un istante di posa nelle stazioni postali; di trattorie, non si sa nulla. La pomposa lista delle vivande affissa alla parete d’una sala gelata, non serve ad altro che ad aguzzare invano l’appetito dei miseri viaggiatori. Frattanto, ritti davanti a un fuoco lento, i rustici ciclopi del villaggio ribattono sull’incudine coi loro martelli russi i fragili ferramenti delle carrozze europee, e benedicono le rotaie e le frane della patria, che loro procurano quel po’ di lavoro.

Ma, in tempo d’inverno, il viaggiare è facile e piacevole in questo paese. Le strade sono allora dritte e piatte come i versi scipiti dei nostri poetastri alla moda. I nostri aurighi sono coraggiosi, i nostri cavalli instancabili, e i pali delle verste,3 sì grati alla vista, ci volano davanti così fitti come le sbarre d’un cancello. Sventuratamente la signora Larin andava coi propri cavalli e non con quelli della posta, per non incorrere una spesa esorbitante. Il tragitto durò una settimana; ma Taziana non si lagnò di tal lentezza, anzi ne fu lieta. [p. 177 modifica]

Già son vicini a Mosca, alla bianca Mosca dalle mille cupole impennacchiate di croci che lampeggiano al sole come folgori! O amici! Come io gioiva quando a un tratto io scopriva quell’anfiteatro di chiese, di campanili, di giardini, di palazzi! Quante volte nel mio tristo esilio, errando qua e là, io pensai a te, Mosca mia! Oh quante cose racchiuse in questo solo nome! Che significato presenta a un cuore russo!

Ecco il castello di Pietro Primo, attorniato di querce e superbo della sua antica gloria. Ivi indarno Napoleone, accecato dalla fortuna e dall’orgoglio, aspettava che la vecchia capitale gli s’inginocchiasse davanti porgendogli le chiavi del Cremlino.... No. — Mosca non gli andò incontro colla testa bassa. Non preparò per l’eroe impaziente, nè banchetti, nè regali; preparò un incendio. Dalle finestre di questo castello, l’invasore, immerso nelle sue riflessioni, contemplò le fiamme minacciose.

Addio, teatro d’illustri memorie, addio venerabile reggia! Avanti! avanti! Già le colonne delle barriere biancheggiano; già l’equipaggio s’inoltra nella Tverscaia attraverso le vie cave. Fuggono come ombre i casotti delle sentinelle, le vecchie serve, i monelli, le botteghe, i lampioni, i palazzi, i giardini; le slitte, gli orti, i mercanti, i tuguri, i contadini, i boulevards, le torri, i cosacchi, le farmacie, i magazzini di modiste, i balconi, i leoni dei portoni, e gli stormi di cornacchie svolazzanti intorno alle croci. Durò due ore intere questa corsa.

Finalmente la carrozza si fermò davanti a una casa nel vicolo di Caraton. Le nostre viaggiatrici [p. 178 modifica]smontano da una vecchia zia che soffre di elisia da quattro anni in qua. Apre loro l’uscio un Calmucco canuto, cogli occhiali sul naso, con un caftano logoro indosso e una calza in mano.4 La principessa sdraiata sopra un divano del salotto, accoglie le straniere con un grande urlo di sorpresa e di piacere. Le due vecchie s’abbracciano piangendo e facendo mille esclamazioni.

“Principessa, mon ange!

Pachette!

Aline!

“Chi l’avrebbe detto!”

“È tanto che non ci siamo vedute!”

“Sarà per qualche giorno, eh?”

“Cara cugina!”

“Siedi.... Che buona idea è stata questa!.. È proprio una combinazione da romanzo!”

“Ti presento mia figlia Taziana.”

“Ah Taziana! vieni quả... Mi par proprio di sognare! Cugina, ti ricordi di Grandisson?”

“Che Grandisson?... ah, Grandisson!... Sì, sì, me lo ricordo, me lo ricordo. Dov’è adesso?”

“Sta in Mosca, da Simeone. Mi ha fatto visita la vigilia di Natale. Poco tempo fa ammogliò il figliuolo.”

“E quel cane... ma ne parleremo a lungo un’altra volta, vero? Dimani, presenteremo Taziana a tutta la famiglia. Che disgrazia! posso appena reggermi in piedi; non esco quasi più di casa. Ma voi siete stracche del viaggio... Andiamo a riposare tutti assieme... ahi, che non ho forza..... mi duole il petto..... [p. 179 modifica]non solo il dispiacere, ma anche il piacere mi stanca e opprime.... cara mia, non son più buona a nulla.... è una gran brutta cosa la vecchiaia....”

E così dicendo, tutta ansante incominciò a tossire senza cessar di piangere.

Le finezze, le premure gentili della ammalata cattivano Taziana; la quale contuttociò non può avvezzarsi alla sua nuova dimora tanto diversa di quella che ha testè lasciata. Nel suo nuovo letto, addobbato di cortine di seta, essa non può dormire; e il suono mattinale delle campane banditore delle fatiche quotidiane, la desta nel più bel momento dei suoi sogni. Allora si alza, e s’asside presso alla finestra. La caligine crepuscolare si dirada; l’aria si rischiara; ma Taziana non scorge le sue campagne dilette, e altro non vede innanzi a sè che un cortile incognito, una scuderia, una cucina e una palizzata.

Ogni giorno Taziana è condotta a qualche pranzo di famiglia, è presentata a qualche avola o zia a cui poco bada. Ai parenti che vengon di lontano si fa sempre buona accoglienza, si prodigano gli elogi e le carezze, e si offre il pane e il sale.

“Come è cresciuta Taziana! È molto che io t’ho fatto da comare!”

“E io che t’ho tenuta sulle braccia!”

“E io che t’ho tirata per gli orecchi!”

“E io che t’ho dato tanto pan di zenzero!”

E le mamme e le nonne ripetevano in coro:

“Oh, come gli anni passano presto!”

Ma non v’è nulla di cambiato presso quella buona gente. Tutto è rimasto nell’antico stato. La principessa Elena, la zia, porta sempre una scuffia [p. 180 modifica]di tulle; Luceria Lvovna s’impiastra sempre il viso di biacca; Ivan Petrovicc è sempre lo stesso ciuco di prima; Semen Petrovicc è sempre lo stesso spilorcio di prima; Pelagia Nicolavna ha sempre l’amico Monsieur Finemouche, il can levriero e il marito, il quale è sempre socio assiduo del club, sempre pacifico, sempre sordo, e sempre mangia e beve per due.

A prima giunta, le giovinette Grazie di Mosca esaminano Taziana da capo a piedi senza far motto; la trovano qualche poco strana, provinciale, svenevole, affettata, alquanto palliduccia e magretta, ma in totale belloccia. Poi obedendo allo istinto di natura si fanno sue amiche, la menano a casa loro, l’abbracciano, le stringono le mani, le acconciano i capelli secondo la moda, e finalmente le palesano i loro secreti di cuore, secreti di fanciulle! le conquiste proprie e le altrui, le speranze, le furberie, i desiderii. Le loro innocenti conversazioni passano lievissimamente cosperse di maldicenza. Quindi esigono gentilmente che Taziana contraccambi quelle confidenze con una confessione ingenua. Ma essa ascolta quei discorsi senza diletto, non li comprende, e copre di silenzio e di mistero i pensieri del suo cuore, il tesoro delle sue lacrime e della sua sorte ventura, e non ne fa parte a nessuno.

Taziana brama di assistere alle grandi conversazioni; ma non vi sente che futilità sconnesse, sonore bagattelle, freddure; il linguaggio è sterile e secco, e persino la maldicenza vi è sciocca e noiosa.

In mezzo a quella confusione d’inchieste, di brighe, di pettegolezzi non balena una sola idea in ventiquattro ore, nemmen per caso, nemmen per [p. 181 modifica]disavvedutezza; il cuore non si muove nemmeno per burla e lo spirito si caria e si petrifica. Nè anche ciarlando di cose ridicole, sai trovare una parola arguta, o mondo elegante e frivolo!

I giovanotti sfaccendati mirano Taziana con affettazione, e parlano di essa fra loro poco favorevolmente. Un bell’ingegno stravagante la dichiara ideale, e piantandosi sulla soglia della porta si dispone a recitarle una elegia, quando passerà. Un certo B*** che l’aveva veduta dalla sua fastidiosa zia, s’asside allato alla fanciulla e cerca d’innamorarla coi suoi insulsi complimenti. Un venerando vecchio, vedendola favellare con B***, domandò chi era, e ricompose in onore di lei la sua arruffata parrucca.

Ma in quel tempio nel quale Melpomene furibonda alza la sua tremenda voce e sventola il suo mantello screziato di lustrini davanti a un pubblico di ghiaccio; colà dove Talia dolcemente sonnacchia nè ode che rari applausi da’ suoi ammiratori; colà ove la gioventù non bada se non a Terpsicore sola, il che si vedeva già a tempo vostro, si è veduto a tempo mio e si vedrà in ogni tempo; là nessuno fece attenzione a Taziana. Nè gli occhialini delle gelose dame, nè le jumelles degli intelligenti in materia di bellezza feminile, si fissarono sopra di lei dai palchi o dai posti distinti.

La menarono anche al Casino dei Nobili. Ivi calca orrenda, tumulto atroce, calore carbonizzante. Il mugghiar dell’orchestra, il fulgore delle lumiere, il ronzio dei gruppi di gente, il turbine delle coppie danzanti, il brillante emiciclo delle signore, il loro aereo abbigliamento, l’andirivieni continuo, — tutto [p. 182 modifica]ciò ti rapisce fuori di te. Ivi, i dandy insigni fan mostra della loro sfacciataggine, dei loro gilè, dei loro binocles superflui. Qui, gli ussari in congedo, appariscono un momento, cianciano, trionfano e s’involano.

Nell’ombra della notte, molte stelle rilucono; e molte belle rifulgono nella città di Mosca. La luna però, più chiara di tutti gli astri, regna senza rivale nei vasti campi di zaffiro.5 Quella di che io non oso sospirare il nome risplende sola fra tutte le donne. Con qual celestiale maestà s’avanza! Pare che il suo piedino non tocchi il suolo. Che grazia in quel seno! Che languore in quegli occhi! Ma fermo, fermo! Bastante tributo già pagasti alla amorosa insania.

Il frastuono, le voci, il correre, gli inchini, la galoppa, la masurca, il valzer... Taziana intanto seduta presso ad una colonna, fra due zie, non osservata da nessuno, mira tutto, niente vede. Aborrisce quel fracasso; quel calore la soffoca. Pensa alla sua vita agreste, al suo villaggio, ai suoi poveri contadini, al cantuccio solitario ove mormora il ruscello limpido; pensa ai suoi fiori, ai suoi romanzi, all’oscurità del viale di tigli, nel quale egli le apparve.

Così erra la fantasia di lei.

Frattanto un grave generale non cessa di adocchiarla.

Le zie ammiccano fra di loro, e spingono Taziana col gomito, dicendole sotto voce:

“Guarda un po’ a sinistra! presto!...”

“A sinistra? Dove? Che ci è?” [p. 183 modifica]

“Comunque sia, guarda, ti dico... In quel gruppo di persone, vedi? Davanti a te... lì... dove sone due uniformi.... Ma ora egli s’allontana... Si mette da banda...”

“Chi? Quel grosso generale?”

Ora, conviene che ci congratuliamo con Taziana della sua vittoria, e la lasciamo andare. Prenderemo un’altra via per seguire il nostro protagonista.

A proposito: Dimenticai di porre una invocazione in fronte a questo poema. Ma meglio tardi che mai. Eccola.

“Canto un giovine amico mio e la moltitudine dei suoi capricci. Dégnati, o epica Musa, di secondare la mia lunga impresa. Porgimi il tuo sostegno valido affinchè io non esca del seminato....”

E tanto basta. Ho reso al classicismo il debito omaggio: il mio poema ha una invocazione!



  1. Autore di opere economiche.
  2. Specie di tavola reale.
  3. Le verste sono segnate da un palo altissimo; e siccome le verste sono corte, a ogni momento, andando presto, se ne vede uno.
  4. Stava facendo la calzetta secondo l’uso delle provincie.
  5. Imitazione dell’esordio della prima Olimpiade di Pindaro.