Frate Mansueto pseudo-vescovo aretino

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Ubaldo Pasqui

Indice:Archivio storico italiano, serie 5, volume 7 (1891).djvu Archivio storico italiano 1891/Arezzo Frate Mansueto pseudo-vescovo aretino Intestazione 25 novembre 2021 100% Storia

Questo testo fa parte della rivista Archivio storico italiano, serie 5, volume 7 (1891)

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FRATE MANSUETO PSEUDO-VESCOVO ARETINO

(1329-1330).


Mi dà motivo a rendere pubbliche queste notizie su frate Mansueto, e sul tempo del suo falso episcopato, il sigillo qui sopra riprodotto, oggi posseduto dal signore Stefano Bardini antiquario in Firenze, il quale ignora ove sia stato rinvenuto.

A prima vista si giudica fatto nei primordi del 1300 e per lo stile con cui sono condotte le figure e per la forma delle lettere che attorno si leggono. Infatti i dati storici confermano un tale giudizio, inquantochè il sigillo appartenne a quel Mansueto frate minore, che illegittimamente, contro l’assenso di Giovanni XXII, occupò l’episcopato aretino dal 1329 al 1331.

Sotto la solita edicola sono figurati due santi; Giovanni Battista, sostenente colla mano sinistra un breve cartello su cui sta scritto all’inverso ecce agnus, e l’Evangelista che tiene aperto con ambe le mani un lungo foglio, dove appena leggesi in principio. Tra l’uno e l’altro una croce vescovile. Inferiormente vediamo la figurina del presule che indossa la tunica monacale, genuflesso, in atto di pregare, stringendo tra le palme il pastorale e [p. 130 modifica]rivolgendo in alto la testa mitrata. Attorno al bollo, in lettere bene impresse, leggiamo; Sigillum domini fratris Mansueti ordinis minorum Dei gratia episcopi aretini.

La parte incisa, come usavasi in quei tempi nei sigilli vescovili di persone o d’istituzioni ragguardevoli, è dorata a fuoco: la guasta ora una rottura, manifestamente causata da intensi colpi di martello dati di dietro, nella presa, affine di spezzare il bronzo. Ho poi osservato che tutti quanti i sigilli aretini di maggiore importanza, incisi nel secolo XIV, sono di una sola provenienza, e che, posto a raffronto con altri della collezione del Museo Nazionale di Firenze e del Museo di Arezzo, il nostro può essere uscito dalle mani di orafo senese anzichè fiorentino.

I documenti antichi non menzionano mai, per quanto io abbia ricercato, il nome di frate Mansueto prima che fosse eletto vescovo, dimodochè resta difficile rilevare donde ei venisse e per quali meriti giungesse alla dignità episcopale. Certo è che la sua elezione fu effetto dell’autocrazia dei Tarlati in Arezzo, favorita da Lodovico il Bavaro, dal quale avevano ottenuta speciale benevolenza dappoichè alla sua incoronazione in Milano vide accorrere con ogni onorificenza tutta la famiglia dei Pietramalesi.

Nel 16 ottobre 1327 moriva nel Castel di Montenero, sulle falde del Monte Amiata, il belligero vescovo Guido da Pietramala, dimesso e scomunicato siccome scismatico da Giovanni XXII. Nella civile signoria successegli Pietro suo fratello, detto volgarmente Pier Saccone, e nell’episcopato doveva stabilirsi Boso degli Ubertini eletto fin dal 1326 dal nominato pontefice. Ma il Pietramalese, avendo anche usurpate le rendite del vescovado, colla prepotente autorità di cui erasi investito, costrinse Boso a star lontano dalla propria chiesa. Questa opposizione era mantenuta non tanto dall’odio inveterato tra le due famiglie, sorto dopo la morte del prode Guglielmino degli Ubertini signore nel Comune e vescovo, quanto a cagione delle mene che Boso, mentr’era preposto della Cattedrale, aveva adoperate nella Curia pontificia1 onde abbattere la civile ed ecclesiastica potenza di Guido. E tanta indignazione ciò aveva prodotta, che gli Ubertini erano stati espulsi, e i loro beni confiscati e le loro case della città e del contado rovinate e [p. 131 modifica]distrutte2. Il vescovo Guido, che per seguire il Bavaro non piegò l’animo a verun consiglio, nè ai comandi del papa, fu scomunicato e destituito; mentre un decreto apostolico del decembre 1326 poneva al governo della chiesa aretina l’Ubertini suo rivale. Per la qual cosa Pier Saccone, per fine di vendetta, elesse a vescovo il frate francescano sopra ricordato, facendolo consacrare nel 1329 all’antipapa Niccolò V.

Gli atti originali dello pseudo-vescovo aretino sono tutti, e forse a bella posta, perduti; soltanto l’archivio della Fraternità di Murello (oggi custodito nel Seminario) conserva due istrumenti che a lui e alla sua curia si riferiscono3. Il primo, che porta la data del 5 giugno 1329, è un mandato di procura che fa «Petrus physicus rector et administrator atque hospitalarius hospitalis sancte Marie de Oriente civitatis Aretii, nomine et vice dicti hospitalis et pauperum inibi degentium» per agire in tutte le cause che ha o potrà avere l’anzidetto ospedale con un tal Donato d’Arezzo e sua moglie «coram reverendo viro domino Mansueto episcopo aretino et eius vicario et officialibus, et coram magnifico viro domino Pero Saccone vicario imperiali gratia civitatis Aretii et eius iudicibus et vicariis et officialibus, et coram domini potestate civitatis Aretii». Il secondo documento consiste in una sentenza pubblicata il 2 settembre 1329 da Bartolomeo di Donato «balitor et nunptius curie venerabilis patris et domini fratris Mansueti Dei gratia episcopi aretini, ex commissione sibi facta, ut dicebat idem Bartholomeus, a reverendissimo viro domino Cione vicario dicti domini fratris Mansueti, ut in actis curie dicti domini vicarii patere dicebat»; per mezzo della qual sentenza vengono posti in possesso di alcuni terreni contesi il prefato Pietro ospitalario in s. Maria dell’Oriente e un tal Gronda spedaliere in s. Maria della Misericordia.

La discesa del Bavaro aveva rinfrancate le speranze della parte ghibellina, e baroni e signori di città a lui si appoggiavano accattando favori. Pier Saccone lo seguì a Roma (gennaio 1328) ove l’Imperatore fu arbitro del soglio pontificio, sul quale pose comicamente quel Pietro da Corvara francescano, che assunse il nome di Niccolò V (12 maggio 1328). Nè mancò di elargire privilegi ai nobili che gli stettero attorno: ebbene uno Saccone, che, insieme col fratello Tarlato, fu anche creato miles4. La carta imperiale, che non [p. 132 modifica]più sussiste, confermava ogni politico diritto della famiglia Pietramalesca, nonchè la giurisdizione su Arezzo, Città di Castello e Borgo S. Sepolcro5. E cominciò appunto dopo questo tempo a sorgere in Pier Saccone l’orgoglio: egli si elevò a tiranno in quel Comune cui il vescovo Guido aveva con molto valore e con saggezza amministrato; ma più di un decennio non vi potè dominare. Fu ostile prima agl’interni avversari, e massime a Boso a cui, come ho detto, tolse il possesso dei beni episcopali; gravò il popolo di nuovi balzelli, reprimendo i tumulti con crudeli sentenze; cercò quindi conquistare Cortona, ov’era vescovo Raniero fratello dell’istesso Boso; si portò a guerreggiare sulla Massa Trabaria contro i Faggiolani, che, coll’aiuto del legato pontificio, avevangli tolte alcune terre (1331). D’allora cominciarono le fiere lotte contro i Perugini, che tanto danno arrecarono alla nostra città e scossero la potenza dei Pietramalesi. Ma non voglio fermarmi a descrivere in particolare quali cause determinarono il loro decadimento per non toccare ciò che al subietto non troppo si collega: dico peraltro che la malevolenza attiratasi dai propri cittadini, più che le cotrarietà dei partiti, concorse alla completa rovina di Saccone; onde ben si disse ch’ei fu capitano abile e ardito, ma non sagace e mite governatore del popolo6.

Il vescovo Boso adunque, discacciato ed impotente, aggiravasi nelle vicine città, aspettando eventi più favorevoli. Intanto badava ad accrescere le inimicizie ai fianchi del Tarlati, e ad annullare l’autorità del vescovo usurpatore de’ suoi diritti, dimandando ausilio alla Corte papale in Avignone e con lettere e con ambascerie. Egli riuscì nell’intento, ma non potè nemmeno rimpatriare fino a che il governo della repubblica fu in mano di Saccone.

Un codice veramente raro, trasmessoci in parte per copia di un tal Severino Romani verso il 1580, conservando la corrispondenza epistolare di Saccone e Tarlato «defensores et gubernatores civitatis Aretii» col papa e coi loro procuratori presso la Curia, fa testimonianza dello scisma che si ebbe in Arezzo durante il breve e falso papato di Niccolò V, dell’interdetto che l’elezione di frate Mansueto e gli scandali da questa cagionati avevano attratto per tre mesi sulla città e su tutto il territorio: delle pratiche occorse onde persuadere il pontetìce a perdonare e a sospendere la scomunica, e a restituire ai Tarlati ogni privilegio papale ed [p. 133 modifica]imperiale. E questo finalmente ottennero non senza poche difficoltà. Con una lettera poi del 10 novembre 1331 essi informano il cardinale Matteo Orsini loro procuratore e lo stesso papa Giovanni della esultanza del popolo aretino, delle grandi feste che si fecero «per luminaria et falones et astiludia et alios iocos seculares» tostochè si pubblicarono le lettere apostoliche: annunziano ancora avere nell’animo la reverenza alla Chiesa Romana, a cui non recherebbero giammai pregiudizio nè con parole, nè con fatti; dichiarano avere osservato l’interdetto, discacciato l’antivescovo Mansueto, gli pseudocanonici, tutti coloro ch’erano stati beneficati da papa Niccolò, e i frati minori, i quali, parteggiando per l’illegittimo vescovo uscito dal proprio ordine, si mostravano disobbedienti. Indi non lasciano di lamentarsi delle mendaci accuse che si suggerivano alle orecchie del pontefice dal Legato di Lombardia, e soggiungono: «credimus tamen, immo sumus certissimi, quod infamationes iste procedunt suggestione et opera illius de Ubertinis, aretini electi, specialis inimici nostri»: si raccomandano non si presti fede a tutto quanto si dice in Corte, imperocchè le insinuazioni malevoli provengono dagli emuli e dai nemici di casa Pietramalesca, cioè da Neri figlio d’Uguccione della Faggiola, da Ribaldo dalla Gattaia e dai Conti di Montedoglio.

Ma siffatte proteste non erano del tutto veritiere, nè corrispondevano al loro sentimento di parte, e a quanto operavano, poichè come sostenitori tenaci del ghibellinismo, essi seguitarono a contrastare e colla autorità e colle armi ai partigiani della Chiesa nei confini di Perugia, e, dentro la città, al legittimo vescovo Boso Ubertini. Finalmente Pier Saccone, perduta ogni fiducia, perchè aveva mal ridotto il Comune con guerre infruttuosamente sostenute, abbattuto dai guelfi e dal popolo che andava acquistando il regime, non potè più reggere la signoria d’Arezzo, e fu costretto a tradire ai Fiorentini la città e il territorio. L’istrumento della cessione si stipulò nel palazzo del popolo di Firenze il 7 marzo 13377. Anche qui appare quanto persistesse nell’animo di Saccone la rivalità contro Boso. V’è incluso un capitolo, in virtù del quale il Comune di Firenze doveva esser tenuto «ad obviandum scandala que oriri possent Aretii occasione episcopatus civitatis predicte, sicut hactenus orta fuerunt», sollecitare con ogni premura il papa e i cardinali ad insignire l’Ubertini di un altro vescovado, e a porre in quello aretino messer Bartolomeo da Pietramala arciprete della Pieve di S. Maria, cugino di Pier Saccone, Ma poichè il [p. 134 modifica]trattato ebbe relative modificazioni, e a questo capitolo si dette un diverso valore colla pace conchiusa il 29 aprile 1337 tra Perugia, i Tarlati e Firenze, il vescovo Boso potè nell’anno seguente, dopo dodici anni di esilio e tanti contrasti, stabilirsi realmente nel governo della Chiesa Aretina e ricuperarci beni del suo vescovado8.

Arezzo.



Note

  1. Annales Aretini, 1324. (Muratori, R. it. scr. XXIV, 868). Restituisco il passo a più corretta lezione, secondo un esemplare autorevole ed antico. «Hoc tempore inceperunt Ubertini filii Biordi esse salvaces (sic) cum domino episcopo aretino, propter quod dominus Bosus prepositus aretinus fecit iter altero anno ad curiam romanam. Utinam a tuis missus!»
  2. Ann. cit., an. 1324.
  3. Pergamene segnate di numero 91, 93.
  4. Ann. cit., an. 1328, (Murat., op. cit., 870).
  5. Ann. cit., an. 1328. Villani, Cron. X, 125.
  6. Leonardo Aretino, Hist. Flor., II. 436 (edizione del 1855-60).
  7. Archivio di Stato di Firenze, Capit. XXII, c. 37.
  8. Cfr. Ann. cit., an. 1338 (Murat., op. cit., 878).