Gibello/Cantare primo
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CANTARE PRIMO
1
O gloriosa Vergine pulcella,
umile e santa, pura e salva nave,
del paradiso relucente stella,
gloria de’ santi e delle sante chiave,
concedi grazia a me e a mia favella
che co’ memoria ti possa dire: — Ave
Maria, gralia piena, Dominus teco, —
e del tuo frutto non mi metti nego.
2
Dirò un cantare antico con ’legrezza
dello re Tarsiano di Bravisse,
com’alle donne facea gran gravezza,
e guerra a torto mantenea con esse,
e non voleva, in nessuna grandezza,
veruna due figliuoli partorisse.
Quale gli partoria fa giudicare
e per sentenza ad ardere menare.
3
E nel suo tempo giustiziar ne fece
e disformare al fuoco, sanza conto;
egli apponea lor ch’era meretrice
qual duo figliuo’ partoriva in un corpo,
secondo che la storia parla e dice.
E la reina in su quel punto gionse,
che due figli una notte ingcneròe,
dall’un de’ quali il re sconfitto fòe.
4
Essendo la reina ingravidata,
venne lo tempo dello partorire;
ella si stava in camera celata,
perché due figli le parea sentire,
con una balia secreta e giurata,
facendosi onorare e ben servire.
Con questa balia sola partorie,
ch’altra donna né balia non sentie.
5
Abbiendo la reina partorito,
presi i fantini fur senza dimoro;
da quella balia ciascuno è nudrito
ed amantati in un bel drappo ad oro.
Perché non fosse dallo re sentito,
coll’un la balia si parti da loro,
e l’altro lasciò star colla reina,
e quel portò a gittar alla marina.
6
Rimase la reina dolorosa
con altre donne e balie accompagnata,
e questa balia, secreta e nascosa,
della cittá usciva sconsolata
con quel fantino, ch’è si bella cosa.
Cosi andando, ella si fu inviata
e al mare per gittarnelo portollo.
Lá trovò mercatanti, e a lor donollo.
7
Tornossi indietro e disse ch’era morto;
e la reina se ne fu credente.
Gli mercatanti furon tosto a un porto,
trovarongli una balia imantenente,
facevanlo nudrire e dar conforto,
che ciascun lo vedeva allegramente;
cavárlo del reame di Bravisse,
portárlo alla cittá di Gienudrisse.
8
Giugnendo a Gienudrisse la cittade
la balia col fantino e’ mercatanti,
le donne e gli signor di gran biltade
per vederlo si furo lor davanti,
ch’a’ piú parea che l’alta Maestade
vi fosse stato a farlo e gli altri santi.
Parea che fosse nato in paradiso,
tant’era di bellezze nuove affiso.
9
Questa cittade vi si mantenea,
cioè Gienudris’, per una pulcella,
che Argogliosa appellare si facea
ed era di nov’anni, molto bella.
Vide la gente ch’ai fantin traea;
dimandò ch’era e seppe la novella.
Disse a’ suoi bali’ : — Or mel fate venire
che per mio servo il vo’ fare a nudrire. —
10
I mercatanti fúr sanza soggiorno
davanti alla pulcella col fantino.
La pulcelletta collo viso adorno,
veggendolo si bel da piccolino
e che la gente andava lor dintorno,
ché rassembrava un angelo divino,
chiesel a’ mercatanti in dono caro,
ed e’ con allegrezza gliel donáro.
11
Molte balie fúr tolte a governarlo,
che inamorata ciascuna parea,
e di quel drappo ad oro dismantarlo,
e la pulcella si lo riponea,
come persona eh’è di gran legnaggio.
Gibel la dama nome gli ponea,
tosto lo fece crescere e allevare
con piú maestri a legger e a studiare.
12
Egli era veramente tanto destro,
il gaio giovinetto, ad ogni cosa,
che da ciascuno era tenuto maestro,
e la sua fama cresce valorosa.
Ed alle cose era maniero e presto
vie me’ che gli altri; e quella gentil cosa
della pulcella n’avea tal piacere,
ch’altro disio non ha che lui vedere.
13
Crescendo il giovinetto valoroso,
alla schermaglia comincia ad usare,
della qual vene tanto copioso,
che a quel paese non trovava pare.
Di costumi e di danze piú gioioso,
piú che null’altro me’ le sapea fare,
di salti e di lanciare e di destrezza,
e in belle cacce tuttora s’avvezza.
14
Usava molto Gibel il giostrare
e di ciò ne prendea molto diletto,
ancor cosi faceva il bigordare
l’ardito, franco, gaio giovinetto.
Fa a molti cavalier selle votare,
che della piazza lor facea far letto.
Cosi si mise un di ad una giostra
(per quel che ’1 libro qui chiaro mi mostra)^
15
ov’era molta gente di valore,
conti, baroni e molti cavalieri.
Ciascun procaccia di avere l’onore,
e similmente fanno gli scudieri:
quivi si mostra chi ha valenza o core,
vitando forte ognuno i buon destrieri;
qual va per terra e qual rompe la lancia,
chi fier nell’elmo, non fier nella pancia.
16
Gibel giunse alla giostra ardito e franco,
colla grossa asta in man, punge ’1 destriere,
in un scontrossi, che ’1 feri nel fianco
per farli a terra votar le groppiere.
Ma ’l buon Gibello non parve giá stanco,
e fiere lui in tostane maniere:
a terra il traboccò isconciamente,
e videi ciaschedun ch’era presente.
17
Poi feri un cavalier, ch’avea giá vinto
la maggior parte del torniamento,
e del ben far e’ non s’era giá infinto,
per quel che da ciascun per vero i’ sento;
diègli nel petto, ebbelo in terra pinto
con grande sconcio, di ciò non vi mento.
Pur si rizzò quel cavaliere, e disse
queste parole pronte, aperte e fisse:
18
— Noi non sappiam di cui se’ imparentato
— diceva ’l cavalier falso ed astioso: —
da’ mercatanti qui fosti portato,
però non esser contro a noi argoglioso. —
Udendolo, Gibel si fu cambiato,
e ’l cor suo allegro divenne pensoso:
féssi contar per punto e per ragione
come non era della lor nazione.
19
Udendo la novella il donzelletto,
dalla giostra si fu tosto partito,
alla donzella se n’andò soletto,
fulle davanti e dielle un bel saluto,
contòlle come stato gli era detto
che d’altri parti quivi era venuto
co’ mercatanti lontani e stranieri,
si come gli avea detto il cavalieri.
20
E la pulzella gran dolore avia,
udendo le novelle di Gibello.
Il braccio in collo quella gli ponia,
piangendo dice: — Giglio mio novello,
i’ faggio amato alla mia signoria.
Donde venissi, deh, lascia andar quello!
Dolce ’l mio amor, no’ languir né aver doglia,,
sia mio marito ed io sarò tua moglie. —
21
Allor Gibello, lo gentil garzone,
disse: — Pulzella, moglie non torrei,
se mio legnaggio in prima non soe;
amor di donna mai non prenderei.
Cercar vo’di mia gesta, s’io potròe. —
E dove andasse, domandone lei;
ella gli disse come l’avea tolto
e diègli il drappo d’oro, in che fu involto.
22
La pulzelletta, senza dimorare,
innanzi che Gibello cavalcasse,
chi ’l proverbiò, ella il fece pigliare,
e la testa volea gli si tagliasse.
Allor Gibello no’ la lasciò fare,
anzi pregolla che gli perdonasse.
Ella gli perdonò, poi ch’a lui piacque;
ma a tutta l’altra gente ne dispiacque.
Orgogliosa pulcella di dolore
en el suo cuore era tutta smarrita,
e si dicea: — Lassa! Dolce el mio amore,,
poi che ti parti, i’ non vorre’ piú vita.
Ad altra donna donerá’ ’l tuo cuore,
poi che da me cosi fai dipartita.
Dogliosa a me, ch’io ho fatto nutricarti!
Or quando ti vedrò? Perché ti parti? —
24
Disse Gibello: — Pulzella, amor mio,
s’io truovo dond’io nacqui e di che gesta,
i’ giuro ed imprometto all’alto Iddio
di tornar, se me n’andasse la testa.
Ad altra donna non mi darò io,
ch’io son donato alla vostra podestá. —
E la pulcella a Dio lo raccomanda;
Gibel del drappo ad oro fece banda.
25
Nel torno avea Gibel di sedici anni,
quando si mosse a cercar sua ventura.
Entrò ’n cammin con angosciosi affanni,
su ’n un destriere armato di misura,
e Iddio pregando andava senza inganni
che gli desse a trovar di sua natura.
Arrivò, come dice il libro el vero,
nella Val Bruna del cavalier Nero.
26
Nella Val Bruna Gibel fu arrivato,
infino a mezzo giorno e’ cavalcava,
nel cavalier Nero si fu scontrato,
che quello passo tuttavia guardava.
Cavalier né baron da nessun lato,
per lo fermo, passar non vi lasciava,
e’ sia chi vuol, vegna donde volesse,
che vassallaggio giurar noi facesse.
27
Per forza d’arme acquistati n’avea
dugento, che ’n sua corte gli fa stare,
senza quegli altri che morti egli avea,
qual vassallaggio non volea giurare.
Quando Gibello da lunga vedea,
fugli davanti e disse: — Non passare:
tosto dismonta, se non vuoi la morte,
e sta’ cogli altri a servir la mia Corte. —
28
Allor Gibello, tutto pien di gioia,
arditamente rispuose al barone:
— Oggi è quel di, che convien che tu muoia,
over che tu qui sarai mio prigione.
Veracemente che troppo m’è a noia
star qui ad isforzar contra ragione! —
Di mal talento a morte disfidarsi,
presor del campo, ed a fedire andarsi.
29
Le lancia i’ mano ed in braccia gli scudi
vans’a fedir come dragon mortali,
misero i ferri ai loro isberghi ignudi
amendue gli baroni imperiali.
Per gli gran colpi dispietati e crudi,
e’ destrier ruppon cinghie e pettorali.
Ma lo garzon di tal voler l’afferra,
che sconciamente rabbatteva in terra.
30
Allor Gibello disse: — Cavalieri,
or per prigion vo’ che t’arrenda a me.
Giurami fedeltá, e volentieri,
come volevi ch’io facessi a te! —
E ’l cavalier Nero non fu laniere,
colla sua gente suo servo si fe’.
E tutti quanti fedeltá giurarli.
Egli stette tre di a signoreggiarli.
31
Passati gli tre giorni, cavalcava.
E ’l cavalier Nero, suo servidore,
com’era in prima signor, l’ambasciava.
Cosi Gibello il lasciò reggitore.
Da lui si parte, ed oltre cavalcava
e fu arrivato ad un altro signore,
che si chiamava lo Vermiglio conte,
che guardava una ròcca sotto u’ monte.
32
Trecento cavalier di grande ardire
ha sotto sé quello conte Vermiglio,
tutti aquistati per forza, al ver dire,
ciascun possente, gaio come giglio;
e mille o piú n’avea fatti morire
per forza d’arme, sanza alcun consiglio.
La guardia in sul camin tenea per mostra,
a chi passava facia chieder giostra.
33
La guardia vide il donzelletto gaio,
gridò al conte; ed egli, udendo, armossi
e della ròcca usci su un destrier baio;
in sul camin con Gibello scontrossi.
Vedendo il conte Gibel tanto gaio,
subitamente di lui innamorossi:
cortesemente disse che ascendesse
e vassallaggio cogli altri facesse.
34
Allor Gibello, pieno di valenza,
arditamente al conte rispondia:
— Fede non giurerei, se tua potenza
imprima non si pruova colla mia.
Veramente tu hai vana credenza
a domandare ch’io tuo servo stia.
Ma per prigion vo’ che tu a me t’arrenda.
S’altro vuo’dir, la spada mi difenda! —
35
Se prima il conte n’era innamorato,
udendol, doppiamente innamoronne
e disse: — Giovinetto ingraziato,
di tua possanza un colpo aspetteronne,
e, s’io da te saraggio iscavallato
giurerò fedeltá, teco verronne.
Ma, se tu non mi abbatti del cavallo,
giurami fé che starai mio vassallo. —
36
Allor Gibello prendeva il partito,
siccome lioncel pien d’arditanza,
e nel suo core era tutto fiorito:
braccio lo scudo ed impugnò la lanza,
e ritorna a fedire il conte, ardito,
d’amor pensando alla sua dolce ’manza.
Lui e ’1 cavallo al campo fe’ cadere
’nanzi alla gente, che stava a vedere.
37
Disse Gibel: — Baron, tu se’ mio servo,
sanza dimoro a me t’arrenderai! —
E ’l conte rispondea co’ latin verbo:
— Or ben se’ il fior di quanti mai trovai,
e fedeltá volentieri t’osservo.
Entra ’n tenuta e per signor sarai. —
E tutti quanti l’ubbidiro a fiotta
e miserlo in tenuta nella ròcca.
38
Quando e’ si fu posato al suo volere,
di questa ròcca a partir ch’e’ si prese,
il conte in signoria fe’ rimanere,
si come egli era, quando quivi scese.
Cercando di sua gesta a suo podere,
funne arrivato in un altro paese,
a una cittá d’un duca crudo e strano,
il qual è sotto lo re Tarsiano.
39
Serpentina avea nome la cittade,
drento Gibello si vi fu entralo.
Le donne e li signori, in veritade,
di lui parea ciascuno innamorato.
Vedendo il duca ben la sua biltade
della duchessa si n’è impaurato;
disse: — Egli è bello, e bella è la duchessa.
Veramente venuto egli è per essa. —
40
Pensando, il duca no’ gli parea giuoco.
La notte ’l fe’ pigliare in nel suo letto,
e nel palagio suo, in uno loco
imprigionar lo fe’, senza difetto.
E la duchessa d’amor prese fuoco,
com’ella in prigion vide il donzelletto.
E ’l duca, che sua morte avrá da esso,
per gelosia lá si recò, da presso.