Giro del mondo del dottor d. Gio. Francesco Gemelli Careri/Libro I/VII

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Libro I - Cap. VII

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CAPITOLO SETTIMO.

Continuazione del viaggio, ed arrivo

in Gerusalemme.


A
vendomi Mr. Benedetto Maillet convitato, per essere del festino, con tutti i mercanti della nazion Francese, il giorno di San Luigi, non voleva per alcun conto, che io partissi cosi presto; ma perche avea di già determinato di lasciare il Cairo, lo ringraziai de i favori, che per tutto il tempo della mia dimora, cotanto gentilmente, mi avea compartiti, e mi disposi alla partenza. Adunque il Venerdì 21. mi posi in cammino per Bulac, dove giunsi dopo un miglio di strada. Incontrai per via l’esequie d’un Turco di condizione, che portava un gran turbante sulla cassa. Precedevano cantando Sacerdoti della Moschea, e seguitavano le sue donne piangendo sopra di asini. Per soddisfare al desiderio de’ Maomettani, bisognarebbe farsi molte di queste funzioni al giorno; giacche dicono, ch’essendo il viver caro, a comparazione de’ tempi passati, ne’ quali s’avevano per [p. 112 modifica]due grani della nostra moneta 30. uova, o due piccioni, o pure una gallina; sarebbe ora di mestieri una peste, acciò meglio potesser vivere coloro, che rimaneriano in vita.

Prima di mezzo dì m’imbarcai sul Nilo, per girne a Damiata, e scendendo a seconda del medesimo senza vele, entrammo nel braccio, che bagna quella Città. Dico il vero, che avrei fatto a meno d’andarvi, se tre settimane prima non si fussero partiti dal porto di Suas i vascelli, che givano alla Mecca; perocchè avria tolto sovra di essi imbarco, per essere prestamente nell’Indie Orientali (siccome m’avea avvisato il Consolo) là dove per la strada, che facea, era assai lungo il viaggio.

Sabato 22. continuammo il cammino a remi, per essere la barca picciola. Questo braccio inverso Damiata è meno gonfio d’acque di quello di Roseto; onde avviene bene spesso, che le barche, per la bassezza del fondo, si fermano molti mesi vicino al mare, senza poterne uscire. Le abitazioni alle rive di questo ramo, sono anche frequenti, però non così grandi, come per lo cammino di Roseto. [p. 113 modifica]

Domenica 23. prima d’un’ora di giorno giugnemmo in Damiata, dopo aver fatto 108. miglia; stemmo però in barca finche fusse ora di dogana, dove ci spedimmo senza i rigori di quelle d’Italia. Presi alloggio in casa d’un Maronita, Proccuratore dell’Ospizio del Cairo, a chi m’avea raccomandato il Padre Presidente; perche in Damiata non v’erano Religiosi, nettampoco Consolo, o mercanti Francesi.

Damiata è posta sul destro lato del Nilo, siccome è detto, a gr. 30. di latitudine Io. Bapt Nicolos. p. 3. pag. 270.. Per la cattiva aria non è molto abitata, e non ha più di mezzo miglio di lunghezza, ed altrettanto di larghezza; è ben vero, che per la comodità del porto, ed imbarco, è molto frequentata dalle navi, e vi è grandissimo traffico. Non molto da lei lontano, verso Oriente, nella sommità del monte Casio, è il sepolcro del gran Pompeo, fatto ristorare, ed abbellire dall’Imperadore Adriano.

Proccurai subitamente di sapere, se v’era qualche comodità di barche per Jaffa; ed essendomi stato detto, ch’era pronta nella bocca del fiume, non volli perderla, facendomi ad un tratto la provvisione necessaria per la [p. 114 modifica]navigazione, particolarmente di buone uova secche di cefali, che ivi sono a vilissimo prezzo. In passando per la dogana, il Giannizzero dimandava un zecchino, per la licenza d’imbarcarmi; ma dicendo io, ch’era Francese, ridussi la sua avarizia a contentarsi per un terzo di scudo. Ciò m’avvenne, perche non v’era Consolo; nè l’interprete Giudeo dir volea una sola parola a mio prò, per tema di bastonate: anzi volendolo condurre quattro miglia lontano, alla barca, per servirmi d’interprete col Padrone; ricusò, lasciandomi partir solo a discrezione de’ barcajuoli, de’ quali non intendeva il favellare. Costoro, come una vittima, mi presentarono al doganiere del Casale d’Hisba a destra del fiume, il quale non prese alcun diritto, perocche io non portava altro che viveri. Un Nero bensì della medesima, non volendo perdere sì bella opportunità di esercitare la sua furberia, vedendomi solo, e senz’appoggio; mi trattenne chiedendo un zecchino per lo passo: e quantunque io replicassi, che non se gli dovea, e che ne averia scritto al Consolo del Cairo, acciò se ne dolesse col Bassà; egli nondimeno fermo nella sua indebita pretensione, mi disse, che [p. 115 modifica]pagassi, e poi scrivessi a mia posta: nè per molto, ch’io facessi sembiante di ritornare indietro ad eseguirlo, si rimosse dal suo primo proponimento; onde io per non lasciar l’occasione, che una volta perduta, avria penato mesi ad averne altra (come avvenne ad un Religioso, essendosi serrata la bocca del porto dalle arene) rivoltomi, diedi al Nero due scudi d’Olanda.

I Barcajuoli usar vollero anch’eglino di loro ribalderia; poiché essendo di già convenuti del prezzo, prima nondimeno di condurmi in barca, dimandarono altra somma più esorbitante; tenendomi a bada, nel più caldo desiderio di partire, fino a tanto, che non l’ebbero a lor piacere ricevuta: dopodiché mi menarono nella barca grande, che stava ricevendo quella parte del carico (di riso, sale, e fave) che avea lasciata, per potere uscire dal basso del fiume. Ivi giunto col battello, il Rais cominciò anch’egli a far delle sue, chiedendomi nolo due volte maggiore di quello si solea pagare, altrimente me ne ritornassi in Damiata; quando sapeva, che non ne avea il modo. Dopo vari contrasti (in cui io alle volte taceva, per non intendere; altre volte mi [p. 116 modifica]esplicava con segni) mi accomodai al suo gusto, per non trarre più in lungo la disputa senza frutto. Egli si è in vero molto da compatire un Cristiano in mano di questi barbari, nei cui petti è spento ogni seme di verecondia, e di pietà. Eglino non si contentano mai, se non veggono vuota la borsa, avvisandosi l’un l’altro della qualità della preda; onde bisogna in questi paesi, particolarmente d’Egitto, portare due bisaccie, una di danari, e l’altra dì pazienza; ciò che io non tralasciai di porre in opra, per visitare Terra santa.

Partiti adunque verso il tardi, l’istesso giorno di Domenica 23. con buon vento, camminammo tutta la notte; e costeggiando il Lunedì 24. un paese tutto arenoso, e privo di abitazioni; con l’istesso prospero vento, giugnemmo a un’ora di notte in Jaffa, dopo 250. miglia di cammino. Altra noja in vero non ebbi per via, che il continuo gridare di que’ barbari, poco pratici dell’arte del navigare; imperocchè quantunque l’abbiano appresa da’ Cristiani, onde è, che usano i medesimi termini marinareschi; non per tanto non sanno cosi bene avvalersene. [p. 117 modifica]

Essendo stati tutta la notte su l’ancore, a gran pena smontammo il Martedì 25. e dopo aver pagato al Padron della barca un zecchino e mezzo per me, e per lo servidore; pigliai alloggio in casa d’un Giudeo, (ch’era anche Turcimanno) come fanno tutti coloro, che vanno a Terra santa, non trovandosi in sì picciolo paese nè Frati, nè Francesi.

Iaffon, Iaffa, Zaffo, o Artuso, secondo altri, stimano essere stata fondata da Iafet figliuolo di Noè prima del diluvio. Ella è a gr. 32. di latitudine, ed è il porto, dove approdano tutti i peregrini, che vanno a visitare i santi luoghi di Gerusalemme. Nella medesima si scaricarono i materiali per la fabbrica del Tempio di Salomone, tagliati nel monte Libano: e favoleggiano gli antichi, ivi esser stata esposta Andromeda per esser divorata dal mostro. In questo luogo stava la Tabite risuscitata da S. Pietro, e nelle sue vicinanze vide questi calare dal Cielo quel lenzuolo pieno di serpi, con che Dio gli diede ad intendere, che non dovesse avere scrupolo di ricevere i Gentili alla Santa Fede, et insieme battezzargli. Mentre quivi io stava aspettando la [p. 118 modifica]caravana de’ cammelli, che viene da Rama, si mosse una tempesta così grande nel Mare, che per molti giorni non diè luogo di venir navi: ed alcune, che stavano nel mal sicuro porto, tutte si fracassarono; particolarmente la nostra, che il giorno perdè il carico, e la notte del Mercordì, ponendosi a dormire i marinari, senza prima assicurarla, se ne andò a fondo, con tutta la mercanzia; salvandosi a nuoto solamente quelle sonnacchiose bestie.

Il cammelliere venne di buon’ora a svegliarmi il Mercordì 26. per partire con una picciola caravana di 30. cammelli; volli però io montare sopra un’asino. Fatte dieci miglia, sempre per paese piano, parte incolto, e parte coltivato, e piantato d’ulivi, giugnemmo in Rama al far del giorno; dove fui ricevuto dal Superiore dell’Ospizio de’ Padri Reformati, che diede subito contezza del mio arrivo al Padre Guardiano di Gerusalemme, acciò, con sua licenza, potessi passare in quella Città.

Rama, Ramma, Ramle, o Rammola, secondo altri (memorabile per lo sepolcro di Rachele, e stragge degl’innocenti suoi figli) è una picciola [p. 119 modifica]Terra aperta, abitata da Arabi, Giudei, e Cristiani; però ha fertile terreno all’intorno, che produce oltre il frumento, buone frutta, come uve, fichi, melloni, ed altri. Fu patria secondo l’opinione di alcuni di S. Giuseppe ab Arimathea, discepolo segreto di Cristo.

Giovedì 27. in compagnia di certi Frati, fui tre miglia lontano (parlo sempre di miglia Italiane) a visitare il luogo detto Lida, dove fu decollato San Giorgio, in una Chiesa custodita da’ Greci. Nel ritorno mi fu mostrata una Moschea, che fu già Chiesa di Cristiani, edificata da S. Elena; dove sotto l’altar maggiore, stanno sepelliti quaranta Martiri, che dall’Armenia la medesima vi trasportò: gli Arabi però non permettono l’entrarvi. I Frati mi fecero anche vedere, vicino la Chiesa dell’Ospizio, la casa di S. Nicodemo, che depose nostro Signore da Croce.

Venerdì 28. venuta la licenza del P. Guardiano di Gerusalemme, pagai al doganiere, per lo cafarro, o tributo, 14. albulchelb, equivalenti ad altrettanti ducati Napoletani; e provveduto dal medesimo (siccome è obbligato) di cavalli, partii Sabato 29. in compagnia di alcuni Frati, [p. 120 modifica]e del Cadì, che se ne ritornava in Gerusalemme. Si camminò 12. miglia in piano, ed altre 18. per montagne piantate d’ulivi; passando intanto per lo Casale del buon Ladrone (così detto, per esservi questi nato) composto di circa trecento case, sopra di un monte, con un Castello dirupato. A mezza strada vedemmo il Casale di Geremia, dove mi mostrarono un Convento rovinato, de’ Frati di San Francesco, i quali l’aveano abbandonato, per esservene stati uccisi alcuni dagli Arabi: nè guari lontano si scorge il Casale, che fu patria di San Giovanni Battista. Passato il ponte entrammo nella valle di Terebinto, famosa nelle sagre carte, per la pugna di Davide col Gigante Golia; mentre che l'esercito di Saulle era in arme sopra il monte, dalla parte di Gerusalemme; e quello de’ Filistei, all’incontro dalla parte di Rama. In queste vicinanze vidi anche sopra d’un monte, il celebre Castello d’Emaus, in cui si osserva ancora in piedi l’edificio (se pure è quello istesso) dove dopo la resurrezione, i due discepoli conobbero il Redentore nel rompere che fece il pane.

Giunti, circa le 20. ore in Gerusalemme, [p. 121 modifica]mi avvertirono i Padri di andare per la porta di Damasco, acciò notassero i Turchi la mia entrata, per esiggere il tributo; poiché non era stato altre volte in Gerusalemme. V’andai adunque in compagnia d’un servidore: e non trovando niuno alla porta, passai dritto al Convento di S. Salvatore, senza impedimento alcuno; però dubitando il P. Guardiano di qualche affronto, mi persuase di ritornarvi, e mandare un Cristiano ad avvisare i Turchi, acciò venissero nel luogo destinato a scrivere il mio nome, siccome fecero.

Andai poscia in Convento, dove con molta cortesia mi ricevè il P. Guardiano. La fabbrica di questo monistero non è molto grande, nè alta, ma comoda. Nella picciola Chiesetta sono cinque altarini; tre nella parte superiore, e due appoggiati a’ pilastri, che sostengono la volta. Il pavimento è ben lastricato di marmi bianchi, e neri; ma quel che più imporra, è la medesima assai bene, e divotamente servita da 50. Frati.