I Marmi/Parte quarta/Diceria dell'Inquieto accademico Peregrino al Doni

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Diceria dell'Inquieto accademico Peregrino al Doni

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Diceria dell'Inquieto accademico Peregrino al Doni
Parte quarta - Discorso del Bordone accademico Peregrino Parte quarta - Il Pellegrino, il Viandante e il Romeo academici Peregrini

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DICERIA DELL’INQUIETO

ACADEMICO PEREGRINO

AL DONI

Inquieto. Le vostre bizzarre composizioni m’hanno fatto ricorrere a voi come a uno oracolo per una mia gran necessitá: e questa è che io non trovo riposo né di di né di notte, per amor di non poter fare una vita che mi contenti; e s’io n’ho provate, Dio ve lo dica per me; e se non vi annoia, ve ne dirò almanco tre o quattro.

Doni. Ascolterò, se ben ne dicessi mille.

Inquieto. Quando io fui libero dalle mani del pedante, che non fu poco, mio padre mi messe una briglia alla borsa, onde non potevo spender tanto quanto m’era di bisogno, ma quanto piaceva a lui: in questa ritirata di redine, io feci strabalzi, stracolli e, come si dice, gettai via del mio inanzi che io lo godessi. Dopo un certo tempo egli si morí e, conoscendomi gagliardo di cervello, comesse a quattro uomini da bene che mi tenessin le mani ne’ capegli e che non mi lasciassin dar l’ambio alla roba. Io, quando mi viddi legate le mani, cominciai a ritrovare questi miei sopracapi, e due e tre e dieci volte il giorno andava loro a spezzar la testa, con dire: — E’ bisogna far qua, e’ bisogna spender lá; io non intendo che si getti via in questo modo, ma voglio che la mia entrata megliori in questo altro. — E gli bravavo con dir: — Voi avete a fare il debito vostro; non si vuol pigliar carichi, chi non gli vuole mantenere. Che bella gentilezza, voler tenér le mani nell’intrate d’altri per non le megliorare! — E andavo a punto nelle ore che eglino avevano piú faccende, e se mi rimandavano indietro, mi dolevo ai miei e lor maggiori: onde e’ mi sprecarono a noia piú che ’l mal [p. 206 modifica] del capo. Quando gli trovavo per la strada, m’appiccavo loro al mantello e gli seguitavo con domande fastidiose tanto che rinegavano la pacienza; se mi davano in casa udienza, mai la finivo, sempre avevo che dire; e sempre fantasticava la notte quello che in poliza metteva il giorno, e con quella listra gli andavo ad afrontare. Volete voi altro? che in manco di tre mesi tutti a quattro d’accordo rinunciarono al testamento e mi lasciarono domino dominantio. Io allora cominciai a cavalcare bravi cavalli in compagnia, con brave donne in groppa, e mano a darmi buon tempo; tanto che io messi al di sotto alcune centinaia di scudi che erano in casa per parte di parecchi mila che vi restarono. Fatto questo, tale umore scórse; non che io lo facessi per conto de’ danari (a punto! che ringraziato sia mio padre, e’ non pareva che fossi tócco il monte), ma perché tal vita mi venne a noia; e, lasciato questo perdimento di tempo, mi messi a ritrovarmi con miei pari compagni e quivi con varii giuochi e giornate male spese mi dimorai una buona etá. E ancor questa mi venne a fastidio. Cominciai poi a ritrarmi dalla conversazione e ridurmi agli spassi della mia villa, agli studi de’ miei libri e alle ore del mio riposo, godendomi di qualche musica, di qualche convito raro, di qualche nuova vista e altre curiositá che accággiono alla giornata. Ma questa mia vita abbracciava troppe cose; onde non potevo distendermi tanto; e presi partito di stagliarla. Prima, io posi gran diligenza in veder chi mi sodisfaceva piú nel parlare, o i vivi o i morti; tanto che io mi ridussi a non poter ascoltare vivi, sí scioccamente mi pareva che parlassino; nei morti sempre leggevo qualche cosa nuova e nei vivi udivo replicar mille volte mille cose vecchie: poi, standomi in casa, non riportava quel dispiacere che io aveva quando andavo fuori. Si che vedete che salto io feci da’ primi miei principi a quel tempo.

Doni. Voi avevi presa buona strada.

Inquieto. I miei amici mi cominciarono a dire che m’aveva preso l’umor malinconico; onde mi forzarono a rientrare in ballo; tanto che io divenni camaleonte, e rideva con chi rideva, dolevami con chi si doleva, dicevo quel che gli altri e facevo quello che facevano gli altri; spendeva il tempo, lo gettavo via, [p. 207 modifica] lo passavo con diletti, lo dispensava in piaceri, e vattene lá; tanto che egli mi fece sí grande stomaco il fare, rifare, ritornare, stare, venire, trovare e ritrovare sempre le medesime cose che piú volte mi toccò un pazzo di dar del capo in un muro. Mi venne poi sete di fare il grande e d’esser reputato, e m’acquistai con promesse molti satelliti e con pasteggiarli; tal che io mi stimava un conte. Vennemi a fastidio poi quella servitú, perché conobbi espressamente che di libero m’era fatto servo; cosí, destramente, senza pure accorgermene, i’ spulezzai la canaglia da tornomi, tal che mi parve di rinascere. In questo, il mondo m’ebbe per pazzo, per poco stabile, e mancò poco che non mi mostrassino a dito. Io mi disposi di andar cercando paesi, per vedere se l’umore mi sballava: e, fatto gita per tutta una state, mi piacque per un tempo; poi mi s’apersero gli occhi e vidi espressamente che tutta la terra è fatta a un modo, perché, vedutone due miglia, cosí è fatto tutto il restante, e tutti gli uomini sono a un peso, come tu gli pratichi, e quello che non si vede in una cittá grossa, nobile e potente, non si vede in tutto il restante del mondo, chi giá non volesse andare ai monocoli o fra gli uomini salvalichi. Io mi sono, ultimamente, ritornato a casa, e vorrei eleggermi una vita che fosse lodevole, che fosse utile, piacevole, galante, civile e che so io, come pare a voi, in quel modo che giudicate secondo il vostro bizzarro intendere: e questa è la cagione perché ricorro da voi. Io son ricco, son d’un trentasette anni, son libero, ho qualche poco di lettera, un poco di zolfa, fo assai buona lettera, come vedete; ma ho solo un peccatiglio, di star poco saldo. Un servitor non mi contenta da due giorni in lá, una fante mi viene a noia in una settimana, una femina in un’ora; giocare, ho dato il mio maggiore, perché mi pare una stoltizia espressa, sí come ho letto nelle vostre opere, perché, s’io piglio un paio di carte e che io me le meni per mano un terzo d’ora, o due dadi, e gli tragga e ritragga, mi sazio, senza star tutto di e tutta notte dando, pigliando, rimescolando e traendo. Cento volte l’anno fo mutar la tavola per casa dove io mangio, perché, da due pasti in lá, non posso stare in quel medesimo luogo; il letto non istá mai una settimana [p. 208 modifica] fermo; non ho stanza che sia buona per me piú che per tre giorni o quattro: io paio una gatta che tramuti mucini ogni dí: in sin nell’orto, in corte, sul terrazzo, a piè delle finestre, dentro all’uscio; e l’ho fatto con le corde spesso apiccare in aere; de’ letti posticci n’ho fatti far diecimila a’ miei giorni. Sono stato poi in bizzaria di provar tutte le vite degli uomini, come sarebbe a dire: monaco alla badia, monaco alla certosa, un pezzo di quei di san Benedetto, un pezzo frate di san Francesco, poi zoccolante, capuccino, zanaiuolo, corrieri, tavolaccino, cantor d’Orsammichele, campanaio di santa Liperata, temperar l’oriuolo del comune e dar da mangiare a’ lioni: tutte cose di pochi pensieri nuovi o di lunga fatica: il tôr moglie non m’è entrato mai in fantasia.

Doni. Voi sète un gran savio; e chi v’ha per pazzo è una bestia da cento gambe.

Inquieto. Il giorno lo camino quasi tutto: ora insino a Saminiato, e guardo tutto Firenze di sopra, e dico: — Oh quanti mal maritati son lá dentro! oh quanti litigano il suo! oh quanti perdigiornata vanno a torno lá dentro, che hanno il cervello sopra la berretta come me! oh quanti ribaldi vi son dentro che starebbon meglio sotto che sopra terra! oh quanti ignoranti si godano il mondo, che lo stento doverebbe toccar lor la mano! Deh quanti e quanti uomini da bene son morti! oh quanti sono in carcere tormentati! oh quante povere donne sono straziate, e sono state, in quel piccol cerchio di mura! oh quante fanciulle per forza sono state messe monache, che vi stanno con pena e con affanno ne’ monisteri! oh quanti religiosi sono ne’ conventi che hanno ingegno, che vorrebbon venir fuori e si vergognano, e quanti da’ padri, quando son fanciulli, vi son messi, acciò che non si muoiano di fame! Oh se si potessi vedere i lambiccamenti degli artigiani che fanno con il lor cervello per rubare chi compra, le zanzaverate degli speziali, le truffe delle lane e delle sete, le falsitá di ciascuna cosa! — Poi dico: — Di qua a cento anni, o canaglia, che avrete voi fatto? Non nulla. Chi goderá? chi dissiperá il vostro? non potrebbe egli venire un morbo e tôr la granata? E cosí mi lambicco il cervello un [p. 209 modifica] pezzo e me ne torno a casa. Un altro dí, solo solo con il mio cavallino e il famiglio, me ne vo a Fiesole, e guardo l’anticaglie, discorro la guerra che fu in quel tempo antico e per che e per come; e penso che coloro a quei tempi anaspavano ancor loro come noi e che alla fine alla fine noi siamo una gabbiata di pazzi: qua non ci resta né ritte aguglie né stanno in piedi mole; qua in questo mondo si spengano l’arme, si distruggano le famiglie, si consumano le pitaffierie, i termini si lievano: e veggo che non v’è fondo di casa che non abbi avuto dieci mila padroni, e di nuovo mi fo beffe dell’esser nostro e non posso poi star nella pelle anch’io, considerando che ogni cosa tramuta stato, padrone, modo e termine, anzi si muove del continuo e va e riva e torna e ritorna. Come sono a casa, io mi rido del pensiero di mio padre, che si pensava, con il darmi sopracapi, che la roba stessi sempre a un modo. Oh poco discorso! È possibil che egli non conoscesse che non gli veniva soldo nelle mani che non fosse stato in diecimila? E’ si credeva che dovesse star sempre nelle sue! I danari sono spiriti folletti: un pezzo sono in cassa, un pezzo tu gli costringi a star nella scarsella, un altro pezzo nella borsa; eccoti che viene uno con una bella lama di spada, con un bel cavallo, con un nuovo libro, e te gli incanta; onde e’ saltan fuori della borsa, della scarsella e della cassa. E cosí va il mondo girando. Io fo talvolta tutta la mia giornata in cupola: e sapete quel che mi paion le case e gli uomini della cittá?: formiche e formicai o vespe e vespai; chi va, chi viene, chi torna, chi entra, chi esce, chi va piú piano, chi camina piú forte, chi porta, chi lieva, chi lascia, chi porge, chi riceve, chi si nasconde e chi vien fuori: e qui mi rido del loro anaspamento. S’io vo poi per la cittá, considero l’arti infinite che vi sono superflue e trovo che poche cose son necessarie, ma che tanti e tanti trovati, invenzioni, trappole e grilli nuovi sono stati posti in uso per saziare la nostra pazzia: mille foggie d’anelli a che fine? tre mila arme variate da offendere e altri tanti fornimenti perché?; le penne delle berrette son in cento foggie, i colori de’ vestimenti, i modi stravaganti degli abiti, insino agli occhiali si fanno a vénti foggie; pesi, pesetti, [p. 210 modifica] pesuzzi; misure, misurette; forme, formette; modegli, modelletti; intagli, ritagli, frastagli; girelle, girandole, frascherie, e trenta mila para di diavoli che ne portino tante tresche. Un giorno (vedete s’io ho poca faccenda!) io mi messi a scrivere quanti danari io spenderei a comprare solamente una cosa per sorte d’ogni cosa: come dire, un tegolo, un embrice, per farmi in cima, una pianella, una cazzuola di calcina, una trave, un corrente, un mattone, una finestra di legno, uno stipito: questo è quanto alla fabrica, lasciando la rena: poi ne venni alle masserizie e cominciai alle baie: un bicchieri, una guastada, una saliera, un rinfrescatolo, una ampolla, una tazza (questi son vetri) e un fiasco: volete voi altro? che il tesoro di Creso... che Creso? tutti i danari che batte la zecca non mi bastavano a comprar la mitá d’una cosa per cosa. Parv’egli che le girandole sien cresciute dal diluvio in qua? Or pensate se i gotti non ci avessin fatto de’ iuochi sopra come noi staremmo! Un voglioloso credo che patisca la gran pena; perché ciò che vede apetisce, e poi non lo può avere, perché non giova ricchezza. Il palazzo degli Strozzi mi piace: va un poco a farne uno o tu lo compra; vedrai quanti zeri v’andrá a fare il numero de’ ducati. Io vorrei un giardino come quel di Castello, un luogo come il Poggio a Caiano: sí, sí, a bell’agio te ne caverai la voglia! Io non mi maraviglio piú se si fa guerra per pigliar paesi, perché le son voglie che nascono a’ gran maestri.

Doni. Ancor le ranocchie morderebbono, se l’avessin denti.

Inquieto. Egli è una bella cosa trovar la casa fatta e acconcia, cotto e apparecchiato: so che non si pensa a dire: «faren noi bene o male?» vòi «giustamente o non giustamente?». Quando Cesare ebbe pensato un pezzo, si scaricò la coscienza con questo detto: «Se la giustizia e la ragione è da violare, è da violarla per signoreggiare»: e si credette aver bello e pagato l’oste. Però disse Bruto e quegli altri omaccioni romani: «Chi fa il conto senza l’oste l’ha far due volte»; e: «Ogni conto mal fatto — disse Cicerone, in libro De Senettute — debbe stornare»: e gli diedero sul capo come si fa alle bisce.

Doni. Ci mancano gli essempi moderni! [p. 211 modifica]

Inquieto. Pochi giorni fa io fui menato a vedere uno scrittoio d’anticaglie; e colui che mi vi menò, al mio parere, è piú pazzo che non son io, se giá io non sono come la maggior parte degli altri, che credano esser savi soli loro. Egli mi cominciò a mostrare una testa di marmo e a lodarmela (le son tutte albagie che si mettano in fantasia gli uomini) per la piú stupenda cosa del mondo, poi certi busti, certi piedi, certe mani, certi pezzi, un sacco di medaglie, una cassetta di bizzarrie, un granchio di sasso, una chiocciola convertita in pietra, un legno mezzo legno e mezzo tufo sodissimo, certi vasi chiamati lacrimarii, dove gli antichi, piangendo i lor morti, riponevano le lor lagrime, certe lucerne di terra, vasi di ceneri, e altre mille novelle. Quando io fui stato a disagio quattr’ore e che io veddi che tanto tanto teneramente era inamorato di quelle sue pezze di sassi, con un sospiro io gli dissi: — Oh se voi fosti stato padrone di queste cose tutte quando l’erano intere, eh? — O Dio, che piacere avrei io avuto! — rispose egli. — Se poi voi le aveste vedute come ora? — Sarei morto — disse il galantuomo. — O che direste voi che se ne fará del gesso ancóra! perché ha manco fatica che di pezze le diventin gesso che non è stata di bellissime statue diventar pezzi brutti. — E mostratogli il sole, gli disse: — Fratello, quello è una bella anticaglia, e ce n’è per qualche anno, e non queste scaglie, boccali, lucerne e novelle, che si rompono e vanno in mal punto e in mal’ora: io vorrei avere in casa quello; e non l’avendo veduto mai piú, mostrandotelo, ti farei stupire. Lascia andar coteste novelle, vattene a Roma, ché per un mese tu ti sazierai; e quando tornerai a casa e che tu rivegga queste tue cose, te ne riderai come fo io. Per me non trovo cosa che mi diletti piú d’un giorno, io sono instabilissimo, inquieto e non cappio in me medesimo. — Guardate ora voi, Doni, se mi sapeste trovare qualche ricetta che mi stagnasse il sangue.

Doni. Per ora non vo’ dir altro, perché la vostra diceria è stata si lunga che io mi sono scordato il principio; tosto vi farò risposta, perché lo raccapezzerò, ricordandomi del mezzo e del fine.