I Mille/Capitolo LXII

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Capitolo LXII. Battaglia del Volturno

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Capitolo LXII. Battaglia del Volturno
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CAPITOLO LXII.

BATTAGLIA DEL VOLTURNO.

2 OTTOBRE 1860.

     Corrispondenza d'amorosi sensi,
Celeste dote è negli umani, e spesso
Per lui si vive cogli amati estinti,
E gli estinti con noi.
 (Foscolo).


A voi, caduti alle falde del Tifate, o miei giovani e prodi compagni, io consacro queste mie ultime righe, sulla ultima nostra battaglia, nella brillante epopea del 60, che voi avete illustrato colla vostra bravura e col vostro sangue. Voi, finalmente, dopo dieci vittorie, gli sbaragliaste quegli avanzi dell’esercito borbonico, là sulle alture di Caserta Vecchia.

E voi, a cui l’Italia deve tanta parte del compimento delle sue aspirazioni di tanti secoli; voi che già tante volte avete insegnato allo straniero a rispettarla, ed a cui insegnerete ancora, come qui oggi si accolgano gli invasori insolenti, potete voi sperare che Italia, sì propensa a rammemorare delle miserie, si ricordi, che le vostre [p. 385 modifica] ossa biancheggiano insepolte sulle falde dei monti e nelle pianure della Campania?

Il 1° ottobre, verso le cinque della sera, si telegrafava a Napoli: «Vittoria su tutta la linea» ed a quell’ora l’esercito borbonico ritiravasi precipitosamente dentro Capua, e parte gettavasi a traversare il Volturno.

Tutti i nostri dell’esercito meridionale avevano fatto il loro dovere, con quel valore che distingueva i capi ed i militi a cui avevo l’onore di comandare. Bixio alla destra, — Medici, Avezzana e Simonetta al centro, — Mielbitz, Türr ed Eber alla sinistra, — e Sacchi tra il centro e la destra; Sirtori, capo di stato maggiore, aveva inviato la riserva a tempo. E se si aveva combattuto con valore ed accanimento, lo accertava il gran numero di cadaveri, che copriva le pianure Capuane, e le falde del Tifate, nonchè il gran numero di feriti.

In seguito alla carica delle riserve — narrata antecedentemente — le comunicazioni di S. Maria e S. Angelo erano state sgombrate dal nemico, ed io potei salire il monte per capacitarmi dell’esito finale della battaglia.

Già dissi prima, essere il monte S. Angelo dominatore delle due sponde del Volturno, e dell’intero piano di Capua, vantaggio immenso che noi avemmo in quella giornata sui nemici, e che non cesserò di raccomandare ai miei giovani concittadini che sono destinati alla milizia.

Quando si può, tenersi vicino al campo di [p. 386 modifica] battaglia, ed in alto per poterlo vedere. I generali borbonici invece, situati nella pianura, poco o nulla potevano scoprire.

Certo della vittoria, discesi dal monte nel villaggio, e mi ricordai allora — già di notte — di non aver preso alimento nella giornata. Qualcuno, mi disse essere i carabinieri genovesi dal parroco. Ciò mi sollevò il cuore, certo di non morire di fame in tale casa, ed in compagnia di quei miei prodi fratelli d’armi. E non m’ingannai: basta dire che, non solo squisiti manicaretti mi presentarono, quei miei incomparabili, ma persino il caffè.

Siccome, però, la felicità è un fantasma sulla terra, e che pare stanziare solo nell’immaginazione umana, subito dopo il caffè, invece di potermi sdraiare un’ora, e riposare le mie stanche membra, un messo mi rimise un dispaccio da Caserta, in cui mi si diceva: «Caserta, seriamente minacciata da un considerevole corpo nemico, scendendo per Caserta Vecchia» .

Addio riposo. E non v’era tempo da perdere. Ordinai al maggiore Mosto, di far preparare i suoi carabinieri genovesi; si diedero alcune altre disposizioni, e con alcune centinaia d’uomini mi avviai, verso la metà della notte, alla volta di Caserta.

Giunto presso Caserta all’alba, inviai il colonnello Missori, con alcune delle sue guide a cavallo, ad esplorare il nemico: ciocchè egli eseguì da quel prode cavaliere che si conosce; ed io mi recai in [p. 387 modifica] città, per intendermi col generale Sirtori, sul da farsi. Essendo in conferenza col capo di stato maggiore, avemmo avviso: discendere i borbonici dai monti, e già impegnati coi nostri avamposti.

Sirtori, alla testa di poche truppe, marciò risolutamente sul nemico, di fronte, e lo respinse coll’ordinaria sua bravura.

Io raccolsi quanto mi fu possibile di gente nostra restante1 e marciai sul fianco destro del nemico per girarlo, ciocchè riuscì perfettamente.

Il corpo borbonico, che stavamo attaccando, era di circa cinque mila uomini, e lo stesso che aveva schiacciato l’eroico battaglione di Bronzetti, composto di poche centinaia d’uomini, a Castel-Morone, ove quel nuovo Leonida aveva preferito morire con tutti i suoi, piuttosto che arrendersi.

Composto per la maggior parte di famosi cacciatori napoletani, già assuefatti a combatterci a Calatafimi, a Palermo ed a Melazzo, quel corpo attaccò furiosamente Caserta, lasciando sul vertice della collina una numerosa riserva, che avemmo pur la sorte di sbaragliare e perseguire sino a Caserta Vecchia.

Con noi, in quel giorno, avemmo la fortuna di avere commilitoni due compagnie dell’esercito regolare italiano, e l’esercito nostro può giustamente andar superbo del loro contegno nella battaglia. Duolmi di non ricordare il nome del [p. 388 modifica] comandante e dei corpi a cui appartenevano quei prodi militi. Una delle due compagnie era di bersaglieri. L’esito del combattimento fu dei più felici, e ben pochi nemici poterono salvarsi: ciocchè cagionò anche pochi morti e feriti dalle due parti.

Già nella notte avevo telegrafato al generale Bixio di portarsi colla sua divisione verso Caserta Vecchia: e quel valoroso capo mostrava all’alba la maggior parte de’ suoi battaglioni sulle alture, alla sinistra del nemico.

Il generale Sacchi, che occupava le posizioni verso il Volturno, tra Monte S. Angelo e Caserta, collo stesso ordine e colla stessa solerzia, comparì pure alle spalle del nemico, pronto a caricarlo. Dimodochè i borbonici trovaronsi rinchiusi in un cerchio di ferro, e furono quasi tutti obbligati ad arrendersi.

Nel 2 ottobre 1860, ebbe compimento la gloriosa spedizione dei Mille. L’esercito regolare italiano, che secondo Farini2 «aveva la missione di combatterci — per impedire alle armi della giustizia di giungere almeno sino a Roma» ci trovò amici; e comunque sia, io sono fiero di non essermi lordato del sangue di quei miei concittadini, anch’essi, finalmente destinati, per la maggior parte, ad abbassare l’insolenza dello straniero, che le nostre discordie avevano assuefatto a disprezzarci.



Note

  1. Ricordo fra le frazioni di corpi, che marciarono con me, i bravi calabresi di Stocco. Quel prode generale era stato ferito a Calatafimi, e non ricordo se si trovasse in quel giorno a Caserta.
  2. Dispaccio di Farini a Bonaparte.