I Viceré/Parte seconda/9

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Parte seconda

Capitolo 9

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[p. 453 modifica]Ferdinando deperiva da un anno. Nel viso emaciato, negli occhi gialli, nelle labbra bianche, gli si leggeva da un pezzo un malessere secreto, un’intima sofferenza; ma, come s’era creduto affetto da tutti i mali quando stava benissimo, così adesso che qualcosa si disfaceva nel suo organismo, se gli domandavano che avesse, rispondeva, seccato:

— Nulla! Che ho da avere? Volete che m’ammali apposta?

E rispose una mala parola al principe il giorno che questi gli consigliò d’andarsene un poco alle Ghiande a respirare l’aria sana della campagna. Non voleva più sentire neppur nominare la sua terra. I libri che gli erano costati tanti quattrini s’impolveravano e tarmavano negli scaffali, gli strumenti s’arrugginivano e si rompevano; solo il podere prosperava, adesso che egli non sperimentava più novità. Incaponitosi a negare le sue sofferenze, i dolori di stomaco, i disturbi viscerali, li attribuiva a cause fantastiche: alla poca cottura del pane, allo spirare dello scirocco, al fresco della sera; ma egli cadeva in una tristezza lugubre, in una funebre ipocondria. Per lunghe e lunghe giornate non diceva una parola, non vedeva anima viva: chiuso nella sua camera, buttato sul letto, se ne stava immobile a seguire il volo delle mosche; quando la crisi passava, faceva grandi [p. 454 modifica]scorpacciate di roba indigeribile. Una notte d’estate, il cameriere spaventato da un vomito nerastro e da una diarrea sanguinolenta, mandò il figliuolo al palazzo, per avvertire la famiglia.

All’arrivo del principe e alla proposta di mandare a chiamare un medico, l’infermo gridò che non voleva nessuno, che s’era rimesso interamente. Ma adesso tutti comprendevano che il caso era grave. Lucrezia, la compagna della sua fanciullezza, ebbe un bell’insistere per dimostrargli la convenienza di una visita medica; egli minacciò di chiudersi in camera e di non ricevere più nessuno. Ma il suo polso scottava dalla febbre. Per vincere quell’ostinazione dovettero ricorrere a un artifizio, come con un fanciullo o con un pazzo: finsero che un ingegnere dovesse rilevar la pianta della casa e introdussero così un dottore in camera sua. Il dottore scrollò il capo: la condizione dell’ammalato era molto più grave che non credessero. A trentanove anni egli se ne moriva: il sangue vecchio e impoverito dei Vicerè si dissolveva, non nutriva più le flaccide fibre. Per tentar di combattere la discrasi, una cura e una dieta severissima erano necessarie; ma il maniaco non ascoltava nessuno, tanto meno i parenti. Se essi insistevano, egli gridava: «Non la volete finire?» Fittosi in capo che stava benissimo, se coloro pretendevano per forza che fosse ammalato voleva dire che desideravano, che aspettavano la sua morte. Perchè? Per raccogliere l’eredità! Egli confidava questo al cameriere; gli diceva, quando gli Uzeda andavano via:

— Credi che costoro vengano qui per amor mio? Vengono per la roba! Un’altra volta dirai loro che non ci sono.

Ma la sua roba era già bell’e andata. Dapprima per le speculazioni stravaganti che avevano rovinato la terra, poi per le spese matte di libri e d’ordegni, più tardi per le ruberie del fattore; quand’egli non aveva voluto veder le Ghiande neppure da lontano, s’era messo a fare qualche debituccio. Senza stupirsene, senza [p. 455 modifica]indagarne la ragione, si vedeva attorno gente che gli offriva denaro, dentro una certa misura, beninteso. Ed egli firmava cambialine, e le cambialine andavano a finire in mano del principe, il quale, adocchiando le Ghiande e comprendendo che quel matto non avrebbe fatto testamento, se le accaparrava a quel modo. Il maniaco, incapace di calcolare a qual tasso prendeva quei quattrini, credendosi ancora padrone della roba, era persuaso che i parenti gli stessero attorno aspettando la sua morte; appena li vedeva apparire, pertanto, voltava loro le spalle tranne che al nipote Consalvo.

Il debito di questi era stato finalmente pagato, e tutti attribuivano a donna Ferdinanda la largizione. Ma la zitellona non aveva dato un soldo. Sarebbe crepata d’accidente se avesse dovuto metter fuori non seimila lire, ma seicento, ma sessanta!... I quattrini erano stati realmente sborsati dal principe, al quale, con una generosità che edificò tutti, la principessa Graziella persuase di perdonare il figliastro. Era mai possibile che la firma del principino di Mirabella fosse protestata? Lei vivente, questo non sarebbe accaduto; piuttosto, se Giacomo si fosse ostinato a dir di no, avrebbe pagato lei del suo! Per Consalvo, come anche per Teresina, ella sentiva l’affezione d’una vera madre, quantunque non lo avesse portato in grembo e il figliastro la ripagasse così male. «Ma che ci posso fare? Non si comanda al cuore! Basta, un giorno o l’altro egli s’accorgerà che non merito simile trattamento...» Così ella aveva indotto il principe a pagar la cambiale, ma aveva pure trovato l’espediente di far credere alla generosità della zitellona, perchè Consalvo non facesse assegnamento in avvenire sulla debolezza paterna. Tra padre e figlio l’avversione era cresciuta frattanto di giorno in giorno; Consalvo, per sfuggire la compagnia del principe e per darsi contemporaneamente l’aria di un sacrificato, disertava la casa paterna; ma invece di andarsene con gli amici al caffè, al club, andava dallo zio, al quale portava i giornali e leggeva le notizie politiche. L’infermo [p. 456 modifica]s’appassionava moltissimo alla guerra minacciata, era quello anzi l’unico tema che avesse la virtù di sciogliergli la lingua. Don Blasco, venuto finalmente a visitare il nipote, discuteva anche lui con passione intorno a quel soggetto, ripetendo gli argomenti del professore; ma il duca assicurava a tutti che si trattava d’un falso allarme e che guerra non ci sarebbe stata, con un’aria così convinta come se Napoleone glie l’avesse confidato in gran secreto.

Scoppiò finalmente la notizia della dichiarazione, e il grand’uomo esclamò allora che Bismarck e Guglielmo dovevano aver perduto la testa. O scherzavano? Attaccar Napoleone? L’esercito francese, il primo del mondo, avrebbe sbaragliato, tritato, polverizzato il prussiano, e preso Berlino fra due settimane al più tardi!... Invece, arrivarono i telegrammi annunzianti le vittorie tedesche; e allora gli avversarii del deputato ripresero a sbertarlo con maggior lena. Quella bestia con la prosopopea d’un Cavour redivivo non era neppur buono di capire le cose più evidenti; smentito dai fatti, ostinavasi nella sua sciocchezza, annunziava i nuovi piani dei Francesi, la loro imminente rivincita, l’intervento delle potenze!... Ferdinando, dal fondo della poltrona che adesso non lasciava più perchè le gambe non lo reggevano, stava a udire quei discorsi con tanta ansietà quasi ne dipendesse la sua salute. Tremante dalla febbre, con la fronte in fiamme, una nuova fissazione sconvolgeva il suo cervello esangue: quella delle vittorie napoleoniche che egli voleva a qualunque costo. Comprata una carta del Reno, passava le sue giornate a piantar spilloni in tutti i posti francesi e spille piccole nei prussiani: col bollettino della guerra alla mano, studiava le operazioni dei due eserciti, mutava di posto i segni secondo i mutamenti reali, e a misura che le spille s’avanzavano e gli spilloni retrocedevano, la sua malattia s’inaspriva. Con voce rauca, cavernosa, spiegava quel che i Francesi avrebbero dovuto fare per riottenere le posizioni perdute: improvvisava piani [p. 457 modifica]strategici, disegnava ogni giorno parecchi teatri della guerra, disponeva a modo suo delle divisioni e dei reggimenti, esclamando: «Questo di qua va là, quello di là va qua...» finchè, stanco, abbattuto, con le mani penzoloni e la testa rovesciata, chiudeva gli occhi e schiudeva la bocca quasi fosse sul punto di spirare.


Frattanto il duca, sentendo crescere l’opposizione e venirgli meno il terreno sotto i piedi, comprendendo la necessità di far qualche cosa per rialzare il proprio prestigio, preparava un colpo di mano. Le inquietudini della guerra accrescevano il malcontento comune, gli avversarii del governo se ne giovavano per gridare e minacciare più forte. L’opposizione, che nei diversi partiti e nei diversi ordini sociali procedeva da diversi motivi e tendeva ad opposti scopi, s’accordava pel momento nel chiedere a una voce Roma. Come più la fortuna della Francia precipitava, le accuse di fiacchezza e di vigliaccheria al governo fioccavano da ogni parte; le minaccie di prendergli la mano parevano dovessero tradursi in fatto da un momento all’altro. Ora, mentre quasi tutti i soddisfatti tenevano a bada i malcontenti e consigliavano la prudenza e navigavano tra due acque, una sera il duca, che se n’era stato nelle sue terre, si recò al Circolo Nazionale dove battagliavasi giorno e notte, ed espresse senza esitazioni il suo pensiero: era venuto il momento d’agire! Se il governo si lasciava scappare quest’occasione, non avrebbe più avuto nessuna scusa agli occhi della nazione! Egli aveva sempre combattuto le impazienze del partito avanzato, perchè, se erano generose, potevano far male al paese. Oggi però i tempi erano maturi, qualunque indugio sarebbe stato una colpa inescusabile. Se a Firenze non facevano il loro dovere, egli minacciava «di scendere in piazza con le carabine, come nel Sessanta.»

«Ah, buffone!... Ah, vecchia volpe!...» esclamavano nel campo avversario; ma, a dispetto dei suoi [p. 458 modifica]denigratori, quelle opinioni francamente professate e ripetute ogni giorno a chi voleva e a chi non voleva udirle sostenevano il pericolante credito del duca. Benedetto Giulente era rimasto, udendole; poichè, prevedendo che lo zio avrebbe seguito fino all’ultimo la politica dei temporeggiatori, s’era messo con quelli. Rimase ancora peggio, quando il duca venne a trovarlo, dicendogli che bisognava ricominciare a pubblicare l’Italia risorta, per spingere il governo sulla via di Roma: i tempi erano maturi e a non secondare la corrente si rischiava d’esserne travolti....

Benedetto, quantunque spendesse tutto il suo tempo al municipio, mise insieme una redazione d’impiegati comunali e di maestri elementari, e pubblicò il foglio. Lucrezia fece cose dell’altro mondo contro quella bestia che voleva Roma, adesso, «quasi potesse mettersela in tasca o portarla a vendere alla fiera!» ma gl'infiammati articoli di Benedetto, il quale diceva che il duca era col popolo, pronto a partire per Firenze se i governanti non volevan udire la voce del paese, procuravano all’Onorevole nuova aura di popolarità.

Il giorno che arrivò la notizia della lettera di Vittorio Emanuele al Papa, arrivò pure da Roma, inaspettato ospite, don Lodovico. Egli aveva dato appena una volta l’anno notizie di sè alla famiglia, tutto intento ai doveri del suo ufficio, alla preparazione della sua fortuna che oramai era avviata. In poco più di tre anni era già segretario a Propaganda ed arcivescovo di Nicea; Pio Nono aveva molta stima di lui. Al principe, che nel primo momento lo guardò come uno piovuto dalla luna, egli disse, con tono di dolce rimprovero:

— Ferdinando è in fin di vita, e mi scrivete appena che sta poco bene? Se non fosse stato per Monsignor Vescovo, non avrei saputo la verità!

E andò a mettersi al capezzale del fratello infermo. Questi non lasciava più il letto; quando chiudeva gli occhi, il suo viso verde e affilato pareva d’un morto; ma rifiutava i rimedi con più ostinazione di prima. [p. 459 modifica]Come più il suo corpo si disfaceva, gli ultimi barlumi dell’offuscata ragione si spegnevano in lui: adesso mandava a comprare ogni giorno dozzine e dozzine di scatoline di spilloni e risme di carta e pacchi di matite. Quella roba avrebbe dovuto servirgli per tracciar piani di campagna, per infigger segnali di piazze forti, di accampamenti e di quartieri generali; ma egli dimenticava lo scopo degli acquisti e ne ordinava sempre nuovi e gridava e smaniava se non l’obbedivano. Con evangelica pazienza, con zelo indefesso, con ammirabile abnegazione, don Lodovico vegliava l’infermo, secondava le sue manie; e frattanto — Baldassarre n’era disperato — le male lingue andavano spargendo che egli era tornato in Sicilia non per amore del Babbeo, al quale non aveva mai pensato, ma per evitare di trovarsi a Roma in quei momenti critici, per poi prender consiglio dagli avvenimenti!...


Gli avvenimenti incalzavano. I soldati italiani avevano ricevuto l’ordine d’avanzarsi nello Stato romano. L’attesa delle notizie era febbrile; il duca, domiciliato alla Prefettura, apriva i telegrammi del prefetto e andava poi a diffonderli, quasi li avesse ricevuti direttamente da Lanza.

— È arrivata la fine del mondo! — gridava la zitellona da Ferdinando, presso al quale la famiglia adesso si riuniva, in una stanza lontana da quella del moribondo, che non voleva attorno nessuno. E il principe scrollava il capo, e la principessa Graziella si faceva il segno della croce, intanto che Monsignor don Lodovico mormorava, con gli occhi a terra:

— Bisogna perdonar loro, perchè non sanno quel si fanno...

Lucrezia pareva una vipera contro il marito, e nessuno parlava del duca, la cui condotta era una vergogna; ma donna Ferdinanda, incrollabile nella sua fede, si scagliava peggio che mai contro don Blasco, il quale andava anche lui predicando per le farmacie:

— Io l’ho sempre detto, Pio Nono, — non gli dava più del Santo Padre, — doveva pensarci a tempo e a [p. 460 modifica]luogo, quando era l’arbitro della situazione. Adesso che vuole? Chi è causa del suo mal, pianga sè stesso!...

E, fattosi socio del Gabinetto di lettura, ci andava tutti i giorni col professore per saper le notizie e assicurarsi contro il timore di dover restituire la roba di San Nicola; pertanto vociava contro i tiepidi, sosteneva a spada tratta il fratello, leggeva ad alta voce gli articoli di fuoco di Giulente, approvandoli, ammirandoli:

— Eh? Come scrive mio nipote! Questo si chiama scrivere!

Ma la recente apostasia di don Blasco, l’antico tradimento del duca, non toglievano al resto degli Uzeda la stima dei puri; presso la Curia, specialmente, la loro condotta, la fedeltà prestata ai sani principii, la costante devozione alla buona causa li facevan considerare come figli prediletti. Un giorno, nonostante la tristizia dei tempi, Monsignor Vescovo si recò da Ferdinando per restituire la visita fattagli da don Lodovico, per avere notizie dell’infermo e consolare l’afflitta famiglia. Tutti andarono intorno al prelato e gli baciarono la mano; la principessa, dalla commozione, aveva le lagrime agli occhi.

— Che notizie del nostro caro ammalato?

— Non va bene, Monsignore, — rispose Lodovico, sospirando di tristezza. — Abbiamo persino dovuto dispacciare a nostro fratello Raimondo...

— Ma non ci ha da esser proprio rimedio?

— Abbiamo provato tutto: l’acqua di Lourdes, le medaglie di Loreto...

— Bene, bene... ma avete chiamato un dottore? Che farmaci gli avete dato?

— Oramai!... — parve voler dire Lodovico, aprendo le braccia. — La vita del nostro povero fratello non è più nelle mani degli uomini...

Egli non disse che Ferdinando era impazzito del tutto. La sorda diffidenza destatasi in lui contro i fratelli, il secreto sospetto che non gli aveva consentito di attribuire all’affezione le loro premure fastidiose, [p. 461 modifica]erano cresciuti di giorno in giorno e avevan invaso talmente il suo cervello, che non capiva più nessun’altra idea. Egli che per trentanove anni aveva dato prova di tanto disinteresse da meritar dalla madre il nome di Babbeo, da lasciarsi rubar da tutti, si rivelava a un tratto dei Vicerè con quel sospetto buffo e pazzo, adesso che non aveva più nulla da lasciare. Come la sua fibra si infiacchiva e il suo cervello si scombuiava, il sospetto cresceva, finchè diventò furiosa certezza all’arrivo del fratello Raimondo.

Il conte arrivò insieme con la moglie ed il figliuolo. Invecchiata di trent’anni, la povera donna Isabella; irriconoscibile come un giorno era stata irriconoscibile la Palmi. In quei cinque anni che erano stati fuori, a Palermo, a Milano, a Parigi, come il capriccio del marito aveva voluto, certe voci di tanto in tanto arrivate in Sicilia dicevano che ella pagasse amaramente il male fatto alla prima contessa; che Raimondo, stufo finalmente di quella donna, l’acquisto della quale gli costava così caro, non potendo pensare ad infrangere la seconda catena scioccamente postasi al collo, avesse ricominciato a correre la cavallina molto peggio di prima, a portar le ganze fresche nel mutato letto coniugale, a maltrattare in ogni modo la nuova moglie, cui non giovava mostrar prudenza, pazienza, sommessione ed umiltà per schivar l’astio, il rancore, quasi l’odio del marito. Ma quantunque le voci non fossero incredibili, dato il carattere di Raimondo, non avevano trovato tuttavia molto credito, potendo esser messe in giro dagli invidiosi di donna Isabella, dai nemici del conte, dalle eterne male lingue. All’arrivo di Raimondo non fu possibile persistere nel dubbio. Egli scese all’albergo, come sette anni innanzi, quando aveva definitivamente abbandonata la prima famiglia; ma questa volta accompagnato da quattro o cinque tra governanti, bonnes e cameriere: giovani tutte, una più bella dell’altra, svizzere, lombarde, inglesi, un vero harem internazionale. Aveva una camera separata da quella della moglie e quando i parenti andarono a [p. 462 modifica]fargli visita, udirono che dava a costei del voi, lessero in viso a donna Isabella le sofferenze espiatorie. Ella era mutata oltre che nelle fattezze anche nei modi: parlava adagio, evitava di guardare il marito, pareva timorosa di spiacergli perfino con la sola presenza. E Raimondo non nascondeva i proprii sentimenti verso di lei: quel voi era già molto eloquente, ma egli affettava di non rivolgerle la parola, di non udire quel che ella diceva: quando andò a vedere il fratello infermo le disse, in presenza dei parenti:

— Non occorre che veniate anche voi.

Ora il Babbeo, che non ragionava più, alla vista del fratello ebbe un assalto di manìa furiosa. Con gli occhi stravolti, coi capelli arruffati sul viso scarno e pauroso, si mise a gridare:

— Assassini! Assassini!... Aiuto!... I prussiani!... Vogliono avvelenarmi!...

Gridò così tutta la notte, delirante; ma, cessata la crisi, l’idea rimase fissa, incrollabile. E per paura del veleno, colla manìa della persecuzione, non schiuse più bocca: tutte le volte che gli si appressavano per dargli del cibo stringeva i denti, urlava, trovava nelle braccia spaventosamente magre la forza di respingere i tentativi di fargli ingoiare un sorso di brodo o di latte.

— Aiuto!... Bismarck! assassino!...

Lucrezia gli si metteva accanto, lo prendeva per mano, gli domandava:

— Ma di chi hai paura? Non ci riconosci?... Credi che ti voglia avvelenare io? O Giacomo? O Raimondo?...

Il pazzo sorrideva d’incredulità, ma quando ritentavano di fargli prendere un boccone, per prolungargli di qualche giorno la vita, perché non morisse di fame, ricominciava a urlare: — Assassino!... Aiuto!... Assassino!...

Una sera, mentre don Blasco stava per uscir di casa insieme col professore, il cocchiere del principe venne a dirgli, col fiato ai denti: [p. 463 modifica]

— Eccellenza, l’aspettano dal Cavaliere.... Sono tutti lì.... Portano il viatico al signorino Ferdinando....

Il monaco aveva una gran fretta di andare al Gabinetto per sapere che c’era di nuovo. Le ultime notizie dicevano che le truppe italiane erano dinanzi a Roma; e se la curiosità universale era vivamente eccitata, don Blasco smaniava addirittura. Nondimeno, a quell’annunzio di morte, stava per rispondere che sarebbe subito andato, quando arrivò a precipizio un altro messo da parte del duca.

— Sua Eccellenza l’aspetta subito a casa.... È affare urgentissimo....

— Vengo.

Il professore, declamando contro il tribunale del Sant’Uffizio, lo accompagnò fino alla nuova casa del duca, dove questi s’era domiciliato dal primo del mese. Giunto dinanzi al portone, il monaco gli disse di aspettarlo; e con le mani raccolte sulla schiena, egli si mise a passeggiare su e giù. Dopo due o tre minuti riapparve don Blasco, pallido in viso, correndo e agitando un pezzo di carta:

— È nostra!... È nostra!...

— Chi?... Che cosa?...

— Venite!... esclamava il Cassinese allungando il passo e ansimando forte. — Al Gabinetto!... Roma è nostra! La breccia è aperta!...

— Come?... Aspettate!... Fatemi vedere....

— Avanti!... Avanti!... Mio fratello ha ricevuto il dispaccio.... Le truppe sono entrate.... Andiamo al Gabinetto!...

Piovve lì, tra la gente seduta sul marciapiede al fresco, come una bomba:

— È nostra! È nostra! È nostra!... Roma è nostra!...

Tutti s’alzarono, circondandolo, parlando insieme, levando le braccia. Egli spiegava il pezzo di carta dove il duca aveva riadattato il telegramma arrivato al Prefetto per togliergli il carattere ufficiale, mutando l’indirizzo per far credere che fosse venuto a lui; e la gente [p. 464 modifica]accorreva dal fondo delle sale, i passanti si fermavano, la folla ingrossava da un momento all’altro. Tutti volevano leggere la notizia, ma don Blasco non dava a nessuno il dispaccio che nella ressa correva pericolo d’essere stracciato in mille pezzi.

— Leggete!... Leggete!... Vogliamo sentirlo!...

Salito allora sopra una seggiola, il monaco lesse col suo vocione: «Firenze, ore 5 pomeridiane: Onorevole d’Oragua, Catania. Oggi alle ore dieci antimeridiane, dopo cinque ore di cannoneggiamento, truppe nazionali aprirono breccia cinta di Porta Pia.... Bandiera bianca alzata su Castel Sant'Angelo segnò fine ostilità.... Nostre perdite venti morti, circa cento feriti....»

E un urlo si levò tutt’intorno. Ma don Blasco, dominando le urla, gridò, tonò:

— All’Ospizio... per la musica... Fermi!... Le bandiere....

In un attimo tutte le bandiere del Gabinetto furono recate dai camerieri storditi dalle grida. Don Blasco ne agguantò una, s’aprì un varco tra la folla e vociò nuovamente:

— All’Ospizio!... All’Ospizio!...

Per via, le grida di Viva l’Italia! Viva Roma! echeggiavano d’ogni intorno, la dimostrazione s’ingrossava; quelli che ignoravano ancora di che si trattasse gridavano per sapere che cos’era successo, e tutti rispondevano:

— La truppa ha preso Roma!... È venuto il dispaccio al deputato, al duca d’Oragua!...

Quando la banda dell’Ospizio, riunita in fretta e in furia, cominciò a sonare, il clamore divenne assordante. E mentre i sonatori e il capo musica domandavano:

— Da che parte?... Dove si va?...

— Dal deputato.... risposero dieci, cento voci; — dal duca....

Tutte le finestre illuminate, in casa dell’Onorevole; una bandiera che pareva una vela di bastimento [p. 465 modifica]sventolante al balcone di mezzo, il deputato che in persona rispondeva salutando col fazzoletto alle grida di:

— Viva Roma capitale!... Viva Oracqua!... Viva il deputato...

A un tratto, mentre alcuni gridavano per ottener silenzio, aspettando un discorso d’occasione, il duca scomparve. Per evitare il pericolo di dover parlare, giacchè Giulente non lo poteva aiutare essendo con la moglie al letto dell’agonizzante Ferdinando, egli scendeva incontro ai dimostranti, veniva a mescolarsi tra la folla.

— Evviva!... Evviva!... Alla Prefettura!...

E la marcia ricominciò. Don Blasco, con la bandiera a spall’arme, la tuba un poco di traverso, il colletto monacale madido di sudore, andava in mezzo alla dimostrazione a braccio del professore che lo aveva ripescato e non lo lasciava più.

— Fuori i lumi!... — gridavano i suoi seguaci a ogni passo, e applausi e fischi s’alternavano secondo che le finestre illuminavansi o restavano serrate e buie com’erano. Dinanzi a una bottega di merciaio, la fiumana dei manifestanti s’arrestò un momento: «Le torcie!... Le torcie a vento!...» E tutte quelle che ci erano furono distribuite e accese immediatamente. La luce fosca, fumosa, si rifletteva contro le case, illuminandole, strappando vivi bagliori ai vetri delle finestre; sul mare delle teste fazzoletti e cappelli s’agitavano; la banda eccitava l’entusiasmo sonando a tutto andare la marcia reale e l’inno di Garibaldi; e le grida echeggiavano più forte, più alte, più spesse intorno all’Onorevole:

— Viva Roma!... Viva l’Italia!... Viva Oracqua!...

A un tratto la dimostrazione s’arrestò nuovamente come se qualcuno le contrastasse il passo, e un vario vocìo si levò:

— Ancora!... Avanti!... Abbasso!... Morte!... Chi è?... Che c’è?...

Da un vicolo era sbucato un frate: alla vista della tonaca i dimostranti che stavano innanzi s’erano fermati e gridavano sul muso al malcapitato: [p. 466 modifica]

— Abbasso i preti!... Abbasso le tonache! Viva Roma nostra!...

Il frate, livido in volto, con gli occhi spalancati, guardò un momento la folla minacciosa e urlante; di repente, alzò le braccia, gridando anche lui, scompostamente:

— Eb!... Eh!...

— È il matto... lasciatelo andare!... — esclamarono alcuni; ma pochi udirono l’avvertimento, e la folla si mise in moto gridando:

— Morte ai preti!... Abbasso il temporale!... Abbasso!... Morte!...

Don Blasco, allungato il collo, riconobbe Frà Carmelo, un altro degli Uzeda ammattito, il bastardo che a dispetto della fede di battesimo si rivelava anch’egli della famiglia. E il professore, alla vista della tonaca, se era un energumeno, inferocì come un torello al rosso:

— Morte ai corvi!... Giù i tricorni: viva il pensiero laico!... Abbasso l’ultramontanismo!...


Il pazzo, alla luce fantastica delle torce, continuava a gestire scompostamente, a gridare: «Eb!... Eb!...» senza riconoscere l’ex-paternità di don Blasco, il quale, per non esser da meno del professore che gl’intronava le orecchie, vociava anche lui:

— Abbasso!... Morte!... Abbasso!