I drammi della schiavitù/24. La scomparsa di Niombo

Da Wikisource.
24. La scomparsa di Niombo

../23. Le coste dell'Africa ../25. La vendetta degli schiavi IncludiIntestazione 4 settembre 2020 100% Da definire

23. Le coste dell'Africa 25. La vendetta degli schiavi


[p. 188 modifica]

XXIV.


La scomparsa di Niombo


Sembrerà una cosa strana, anzi inverosimile, che delle formiche possano causare tanto terrore a degli uomini rotti a tutte le avventure, provati ad ogni specie di pericoli, eppure qualunque altra persona che avesse avuto un po’ di conoscenza dei boschi dell’Africa equatoriale, si sarebbe affrettata a fuggire, come avevano fatto Niombo, il dottore e Seghira.

Non vi è forse pericolo peggiore dell’incontro di una emigrazione di formiche lascicuai. Si può evitare un rinoceronte furibondo; si può difendersi da un leone affamato; si può sfuggire all’assalto di una banda di bufali, ma non alle formiche di quella specie che sono dotate di una tale voracità, che in pochi minuti vi fanno a pezzi l’uomo più robusto, che incontrano sul loro passaggio o che ha la disgrazia di cadere in mezzo a loro. [p. 189 modifica]

Avrete udito parlare delle termiti, di quelle grasse formiche africane che vivono in società, costruendosi dei grandi nidi in forma di cono, e che mordono ferocemente le persone che sorprendono addormentate; avrete forse anche udito parlare delle formiche bianche che vivono entro grandi nidi piatti che sembrano funghi giganteschi, formati d’argilla impastata con un liquido che scola dalle formiche e che sono così resistenti da non cedere che dinanzi alla zappa. Conoscerete fors’anche la robustezza eccezionale delle loro tenaglie, che sminuzzano i legni delle piante vecchie, che distruggono le piante del cotone, che forano in una sola notte le pareti più solide delle capanne, saccheggiando silenziosamente l’interno di quegli abituri e tutto divorando.

Le lascicuai sono invece più terribili delle une e delle altre e sono il terrore delle foreste e dei villaggi.

Sono lunghe tredici millimetri, hanno delle pinzette formidabili che non stanno mai ferme e la loro missione è quella di divorare continuamente. Non hanno nidi, nè patria: errano continuamente in mezzo ai grandi boschi dell’Africa equatoriale, cercando avidamente la preda che non deve essere vegetale, poichè sono carnivore.

Camminano sempre in linea retta, all’ombra delle piante, formando una colonna lunga parecchi chilometri, ma non più larga di cinquantaquattro millimetri, guidata da ufficiali che percorrono i fianchi, perchè nessun soldato si sbandi. Evitano con cura le pianure poichè, cosa strana, inesplicabile, temono il sole!... Quando sono però obbligate ad attraversarne una per raggiungere una nuova foresta, scavano una lunga galleria e vi passano sotto!...

Marciano di giorno e di notte e l’animale o l’uomo che sorprendono nel sonno, sono irrimediabilmente perduti, poichè in un baleno lo coprono, lo assalgono e lo divorano prima che abbia il tempo di alzarsi e di fuggire. Si gettano con furore addosso ai leopardi ed ai leoni e questi formidabili animali, che non temono gli uomini, cadono sotto le robuste tenaglie di quei feroci insetti!...

Quando trovano un villaggio, non lo evitano, ma lo invadono, circondandolo d’ogni parte. I negri non possono salvarsi che con una rapida fuga essendo ogni lotta impossibile e corrono a rifugiarsi nei fiumi.

Per loro però, son le benvenute, poichè in brevissimo tempo puliscono le capanne dai topi che invano cercano di salvarsi, dagli scarafaggi e da tutti gli altri insetti nocivi che le infestano. Quando non vi è più nulla da divorare, ripartono e continuano la loro [p. 190 modifica] terribile ed eterna marcia, lasciandosi dietro gran numero di scheletri, ripuliti così bene da fare invidia ad un preparatore anatomico.

Niombo, Seghira ed il dottore, dopo una corsa di un quarto d’ora, si erano arrestati sulle rive di un fiumicello che veniva dall’interno e che pareva si dirigesse verso la costa. Colà non avevano più nulla da temere, poichè bastava che si cacciassero in acqua per non venire assaliti da quelle formiche, le quali temono i corsi d’acqua al pari dei raggi del sole, evitandoli con grande cura.

Poco dopo, uno dietro l’altro, affannati, grondanti di sudore, giungevano Kardec ed i marinai.

– Per mille fulmini! – esclamò il bretone, respirando con grande pena. – Non mi sarei mai immaginato di dover fuggire dinanzi a delle formiche.

– Fuggono anche i leoni, signor Kardec – disse il dottore.

– Sono peggiori delle belve adunque?

– Lo sono di più.

– E non ci assaliranno qui?

– Non lo credo. Ecco l’avanguardia degl’insetti!

Nella foresta si udiva un sordo brusìo che pareva prodotto dall’avanzarsi di un reggimento di rettili striscianti. Le foglie si agitavano, scricchiolando, e si sollevavano bruscamente gettate a destra ed a sinistra.

Ben presto comparvero le prime file di formiche. Vedendo quel gruppo d’uomini e sentendo l’odore della carne viva, si diressero subito verso il fiume, ma i marinai furono lesti a operare una pronta ritirata tuffandosi in acqua, seguìti da Kardec, dal dottore, Niombo e Seghira.

I voraci insetti, delusi, si sfogarono sulle erbe, che in pochi istanti sminuzzarono, poi cambiarono direzione e rientrarono nel bosco, guidati dai loro capi che percorrevano i fianchi dei reggimenti, sollecitando i ritardatari.

Quella sfilata durò due ore, con grande disperazione dell’equipaggio, che vedeva ritardarsi il viaggio, ma finalmente gli ultimi battaglioni sparvero sotto gli alberi ed i cespugli ed il silenzio più assoluto tornò a farsi nella grande foresta.

Niombo attese un quarto d’ora, per essere certo che si erano proprio allontanati, poi riguadagnò la riva e si rimise in marcia seguìto da tutti i naufraghi.

La foresta si manteneva sempre assai fitta, rendendo assai malagevole l’avanzarsi, in causa specialmente dei folti cespugli che producono il cotone, i cui steli legnosi danno un filo lungo [p. 191 modifica] quanto quello di Pernambuco e delle dembo, piante arrampicanti, dai tralci lunghissimi, con poche foglie verdi, e dai cui tronchi si estrae un eccellente caucciù che è molto ricercato dagli europei, essendo migliore di quello che producono gli alberi gommiferi dell’America del Sud.

In mezzo a quelle piante si cominciava a vedere qualche uccello, ma per lo più era piccoli pappagalli grigi, i quali si tenevano appollaiati sugli alberi più elevati, rendendo vani i tentativi dei marinai per impadronirsene, essendo sprovvisti di piombo minuto.

Niombo però, pensava alla cena. Ogni qual tratto si arrestava per raccogliere delle noci di goro incompatibili ai palati europei per la loro estrema amarezza, ma molto apprezzate dai negri, o qualche banano maturo che doveva essere delizioso cucinato sotto la cenere, qualche pugno di ocro, eccellente legume che ha il sapore degli asparagi e degli steli di mussoà che dànno un piccolo grano verde, molto ricercato.

Quando il sole tramontò, Kardec, che vedeva i suoi uomini cadere dalla stanchezza, diede il segnale di fermata ai piedi di un baobab immenso, che coi suoi rami giganteschi poteva riparare un reggimento di persone.

Niombo, che non ignorava quanto siano pericolosi gli accampamenti in piena foresta, fece raccogliere grande quantità di legna secca e fece accendere parecchi fuochi per tener lontane le belve feroci.

Cenarono in fretta, poi s’addormentarono sotto la guardia del negro, di Vasco e di due marinai, ai quali spettava il primo quarto di guardia.

Dormivano da mezz’ora, quando il silenzio profondo che regnava nella foresta, fu rotto da un grido strano che non era nè il formidabile barrito di un elefante, nè il ruggito d’un leone, nè l’urlo di un leopardo, nè il riso stridulo d’una jena, nè il mugolìo d’uno sciacallo. Era un grido potente, che pareva emesso da un essere dotato d’una grande forza polmonare.

Niombo, udendolo, si era alzato di scatto, tenendo il fucile in pugno, gettando sguardi inquieti sotto le piante che spandevano all’intorno una cupa ombra.

– Cos’è? – chiese Vasco.

– Un cula-camba, o un nesciego nebuve – rispose il negro, con un legger tremito della voce.

– Un animale? [p. 192 modifica]

— Dei più pericolosi — disse il dottore, che si era bruscamente svegliato.

— È un leone di nuova specie?

— No, è il terribile gorilla dell’Africa equatoriale.

— Una grossa scimmia, adunque.

— Sì, Vasco, ma quale scimmia!.. Raggiunge sovente una altezza di otto piedi, ossia di due metri e sessantacinque centimetri e secondo quello che narrano coloro che lo hanno veduto, è il più formidabile animale che viva in queste foreste, quantunque somigli molto, anzi più di tutte le altre scimmie, all’uomo.

— Assalta anche i negri?

— Sì, e li uccide con una ferocia inaudita. Si dice pure che vince perfino il leone che soffoca o stritola fra le sue possenti braccia e che mette in fuga anche gli elefanti.

— Deve possedere una forza gigantesca, signor Esteban.

— Tale che non s’è mai potuto prenderne di vivi, poichè dieci uomini non sarebbero capaci di tenerlo fermo.

— Vive nei boschi?

— Sì, Vasco, e si narra che va quasi sempre armato di un grosso ramo d’albero.

— Mangia carne?

— No, noci selvatiche e frutta.

In quell’istante un secondo grido echeggiò e questa volta pareva che venisse dall’alto e precisamente dalle cime del baobab, sotto i cui rami s’accampavano i naufraghi della Guadiana.

Tobib, — disse Niombo rivolgendosi verso il dottore — temo che su questo baobab vi sia un nido di cula-camba.

— L’hai veduto?

— Non ancora, essendo i rami molto folti.

— Osserviamo meglio, Niombo.

Tenendo in mano un ramo acceso, il negro, il dottore e Vasco fecero il giro dell’enorme tronco che venti uomini non avrebbero potuto abbracciare, guardando attentamente fra gl’immensi rami di quell’albero gigante.

— Eccolo lassù! — esclamò ad un tratto il negro. — Guardate dritti il mio braccio.

Il dottore e Vasco guardarono nella direzione indicata e scorsero, sospeso fra i rami, una specie d’ombrello del diametro di due metri e mezzo, cinto all’intorno di piante arrampicanti. Sotto si vedeva agitarsi una forma umana la quale pareva in preda ad una viva agitazione, poichè la si udiva a scuotere furiosamente i rami dell’albero. [p. 193 modifica]In pochi istanti il gorilla raggiunse il tronco enorme dell'albero... (Pag. 195). [p. 195 modifica]

– In guardia! – gridò il dottore. – Se quel gorilla scende, ci assalirà.

– Siamo in molti, signore – disse Vasco.

– Non si spaventerà per questo.

Un terzo grido, più robusto degli altri due, echeggiò fra i rami del baobab, e questa volta pareva di furore.

– All’erta! – gridò il dottore, slanciandosi verso il campo. – Il gorilla!...

Kardec ed i marinai, udendo quella voce, balzarono confusamente in piedi, credendosi assaliti da qualche tribù di negri o da una coppia di leoni.

– Cosa succede? – chiese Kardec.

– Fuggiamo – disse il dottore. – Il gorilla scende!

Infatti si udiva il formidabile quadrumane precipitare attraverso ai rami del baobab, scuotendoli furiosamente. Credendosi assalito, si preparava ad attaccare.

– Tutti intorno a me – gridò il bretone, che non ignorava con quale avversario aveva da fare.

In pochi istanti il gorilla raggiunge il tronco enorme dell'albero e con un ultimo slancio si lasciò cadere a terra, a pochi passi dai fuochi che stavano per spegnersi.

Quel quadrumane faceva paura: era alto sette piedi, col petto e le braccia enormemente sviluppate, coperto di un pelo color bruno ma non molto folto, già irto per la collera. Le mani, le gote e le orecchie ne erano privi e il suo volto, quantunque avesse una bocca smisurata, irta di lunghi denti, rassomigliava assai a quello di un uomo.

Vedendo i marinai che tenevano in pugno i fucili e le scuri, decisi a difendersi, emise un grido paragonabile ad un tuono udito in lontananza, e li caricò con furore senza pari, con le pelose braccia aperte, come se volesse abbracciarli tutti e stritolarli in una stretta brutale, irresistibile.

Niombo, Vasco ed il dottore che erano armati di fucili, fecero fuoco, mentre Kardec scaricava le sue pistole. Ma il mostro non cadde. S’arrestò di colpo, portandosi le mani al petto, poi fuggì attraverso alla foresta emettendo dei gemiti che parevano umani. Per alcuni istanti lo si udì a sfondare furiosamente i cespugli che gli sbarravano il passo, poi il silenzio ritornò nella tenebrosa foresta.

– Mille fulmini! – esclamò il bretone. – Vi confesso, dottore, che quell’enorme scimmia mi faceva paura. [p. 196 modifica]

– Ed io vi confesso che ho provato una emozione tale, che mi parve di uccidere un uomo.

– Infatti, aveva un non so che di umano quello scimmione, e quando fuggì, si lamentava come un uomo ferito. Che ritorni ad assalirci?

– Io so che talvolta i gorilla si radunano in tre, quattro ed anche di più, per assalire i negri che attraversano le foreste da loro abitate.

– Non mi sembra prudente l’attenderli. Sono tali animali che resistono ad una mezza dozzina di palle.

– Sono più forti degli orsi grigi dell’America del Nord e più difficili ad uccidersi.

– Prendiamo il largo, adunque. Non vorrei affrontarne tre o quattro in una sola volta. Niombo!...

Nessuno rispose alla chiamata.

– Niombo! – ripetè Kardec.

– Non lo vediamo – risposero i marinai.

– Dove si sarà cacciato costui?

– Era qui or ora – disse Vasco.

– Che si sia lanciato sulle tracce del gorilla? – chiese Kardec. – Quel diavolo di negro è capace di questo. Chi lo ha veduto a partire?

– Nessuno – risposero i marinai.

– Nemmeno tu, Seghira? – domandò il dottore.

La giovane schiava non rispose, ma gli fece un rapido gesto.

– Cercatelo – disse Kardec, che cominciava a diventare inquieto. – Non può essere andato molto lontano e ci è necessario per uscire da questa inestricabile boscaglia.

Quantunque i marinai temessero il ritorno del gorilla, si munirono di parecchi rami accesi e si misero a cercarlo in diverse direzioni, chiamandolo per nome.

Il dottore approfittò per avvicinarsi a Seghira, che si era accoccolata contro il tronco del baobab.

– Ebbene? – le chiese.

– L’ora della punizione si avvicina – rispose ella.

– Niombo?

– Partito.

– Per dove?

– Per suoi Stati.

– Siamo vicini adunque?

– A poche ore di marcia.

– E ci farà assalire? [p. 197 modifica]

– Domani le sue orde ci piomberanno addosso.

– Ma Kardec si terrà in guardia.

Un sorriso sdegnoso sfiorò le labbra della giovane schiava.

– Chi resisterà a un esercito guidato da Niombo?...

– È un tradimento, Seghira.

– Mi vendica.

– Ma io...

– Vendicate il capitano Alvaez, il vostro fedele amico, vilmente assassinato da quel Kardec. Tacete, dottore!...

– Ma gli altri?

Seghira alzò le spalle e crollò il capo, facendo ondeggiare la massa dei suoi neri capelli.

– Non mi riguardano – rispose con durezza. – Appartengono a Niombo.

– Mi fai paura, Seghira. Tu sei implacabile.

– Sono una figlia dell’Africa selvaggia.

– Ma cosa farà Niombo dei marinai?... Io voglio saperlo, Seghira.

– Lo ignoro.

– Io non posso permettere che si uccidano. Kardec è l’assassino del mio migliore amico e te lo abbandono, ma gli altri sono miei compagni.

Seghira s’alzò, con le braccia strettamente incrociate sul petto, fremente, superba, e lanciò sul dottore uno sguardo provocante, uno sguardo di sfida.

– Salvateli, se lo volete – diss’ella con accento acre. – Sono liberi ancora, la foresta sta a loro dinanzi, dite che fuggano, che escano da queste piante che li circondano. Credereste forse di salvarli per ciò?... No, dottore, Niombo li raggiungerà prima che tocchino le sponde dell’Oceano e voi forse potreste pentirvi!...

– È una minaccia, Seghira?

– No, dottore, non dimentico che a voi devo molto e Niombo non dimenticherà il tobib che difese i suoi sudditi nel frapponte della Guadiana.

– Ma ti ho detto che io non posso lasciar uccidere i miei compagni. Sarebbe un’infamia, Seghira.

– E chi vi ha detto che Niombo li ucciderà?... Io non lo voglio.

– Tu, ma Niombo?

– Farà ciò che vorrò io; d’altronde tengo la sua parola.

– Ti ubbidisce, adunque.

– Sì – rispose ella con voce sorda. [p. 198 modifica]

– T’ama forse?...

– Sì – ripetè ella, soffocando un sospiro.

– E sarai sua sposa?

– Lo vuole.

– Ma tu...

– Pago la vendetta – rispose ella con accento selvaggio.

– Niombo è un re prode e valente e ti farà felice.

Seghira si nascose il viso fra le mani e non rispose. Quando rialzò il capo, il dottore vide brillare su quegli occhi due lagrime.

– Piangi? – chiese egli.

– L’ho amato troppo e non lo dimenticherò mai.

– Alvaez?

– Tacete, dottore; la ferita sanguina sempre.

Poi raddrizzandosi con uno scatto di tigre e fissando su Kardec che ritornava verso il campo, uno sguardo terribile, mormorò:

– Ma quell’uomo fra poche ore sarà mio e non uscirà vivo dai boschi dell’Africa!...