I moribondi del Palazzo Carignano/IX

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Sinistra. — Principali divisioni di essa. — Suoi caratteri generali. — Suoi intendimenti — Capi presuntivi. — Ferrari, Guerrazzi, Mazziniani, Saffi. — Gli oltramontani. — Ondes-Regio, Amari, Ugdolena. — I dottrinari. — Allievi. — Il gruppo della Perseveranza. — Visconti-Venosta, Massarani, Guerrieri-Gonzaga, Finzi. — Gl’indipendenti. — Mosca, Costa, Pica, Giuseppe Romano, Mandoi-Albanese, Marchese Ricci, Levi, Ranieri, Varese, Menighetti, Toscanelli, Michelini, Bianchi, Tecchio. — I boudeurs, ecc. — Gli smarriti. — Chiaves, Gallenga.


Torino, 16 luglio 1861 e 9 marzo 1862.


Ora, in avanti la sinistra; ed eccoci in piena sinistra. A vero dire, io mi sento un poco imbarazzato per cominciare e per classificare questo esercito di generali senza soldati, questi capi di partito senza partiti. Proverò nondimeno di procedere con un tantino d’ordine.

La sinistra, e l’estrema sinistra, presentano le varietà seguenti: Garibaldini, Mazziniani, repubblicani, federalisti, oltramontani, autonomi, liberali, indipendenti e dipendenti, misteriosi, indecisi, queglino che portano il broncio, gli esploratori del campo nemico, gli uccelli di passaggio, gli smarriti per via, scettici, dottrinari, pretendenti. Io potrei aggiungere ancora [p. 154 modifica]altre tinte, ma credo che ciò basti. Notate, che questi deputati sono qualche cosa per sè stessi, che essi han rappresentato tutti una parte o parecchie parti nel passato, e che non hanno abdicato il loro avvenire. In questo lato si vede, si pensa, si vive, si freme, si lotta, sì discute furiosamente si dà la baia, si strepita — si combatte al bisogno.

Questa frazione del Parlamento non è compatta, ma è piena di audacia e di vita, non perchè la fosse certa di prendere un giorno lo scettro strappato dalle mani dei barone Ricasoli, o del Ratazzi, ma perchè essa possiede, senza avvedersene, qualche cosa come un programma, una bandiera che sventola su tutti i suoi membri e li copre tutti, malgrado le negazioni dei suoi avversari politici. Questo programma, dopo la morte di Cavour, era divenuto più potente: ma dopo le note ed i discorsi di Ricasoli è impallidito. Il presidente dei Consiglio ha posto la quistione di principio e di dritto di una maniera assai netta ed assai energica; la sinistra non può dunque differire da lui che sull’opportunità, il modo ed il tempo di applicazione. Quanto alla politica interna, le divergenze sono forse più ricise e ricche di dettagli; ma ciò oggidì interessa poco. Ciò è storia. Ciò sono i piccoli affari di casa, che non allettano tutti i gusti. — Lo scopo della sinistra, comune a quasi tutte le sue gradazioni di partiti, gli è di rovesciare il Ministero poco curandosi di ciò che possa seguirne. Parecchi membri di questa parte dell’Assemblea non si rendono neppure un conto ben esatto delle loro antipatie contro il Gabinetto attuale. Essi sono [p. 155 modifica]trascinati da un sentimento vago, sono forse strumenti di ambizioni celate; essi aggiungono un suono all’eco che palpita intorno a loro e nei loro ranghi. Gli abili si servono di questa forza; imperciocchè la peggiore di tutte le forze è quella che, non ragionando, colpisce come il martello della fatalità. E di quinci questa unanimità di scopo mirato da tante personalità diverse e variate.

Vi sarebbe ancora un’altra circostanza che potrebbe, non dico già riunire, ma ravvicinare tutti gli elementi della sinistra, e sarebbe la presenza del capo, vale a dire Garibaldi, il quale virtualmente primeggia tutti i partiti. Ma Garibaldi non è presente. Egli ha una capacità parlamentare molto discutibile, non è uomo da imporre o da osservare la disciplina. Di guisa che, tranne nel voto e nello scopo, la sinistra resta in frazioni come io ve la dipingeva più su. Garibaldi a parte, sonovi qualche altri individui che potriano passare per capi di partito, a causa dei loro precedenti. Io mi limito a nominare Sirtori, Brofferio, Montanelli, Tecchio, Guerrazzi e Ferrari. Ma essi sono ad una volta testa e coda della loro parte, perchè niuno li segue.

Io non mi fermo molto su Ferrari. Egli è conosciuto in Francia, forse più che in Italia; e fuvvi un momento in cui e’ sollevò qui la collera universale, non a causa dell’irreprovevole suo carattere, ma a causa delle sue dottrine. Il signor Ferrari è il solo federalista della Camera — perocchè io non so che, palesemente almeno, due ne fossero. Egli non maschera punto [p. 156 modifica]vigliaccamente le sue opinioni; egli le lancia, al contrario, a torto ed a traverso, ad ogni proposito; e, cosa singolare, il Parlamento, che interromperebbe chiunque altro con i suoi bisbigli, lascia Ferrari liberamente sporre le sue teorie — a causa forse del suo nome, o a causa della tinta scientifica che l’eminente filosofo-storico dà ai suoi fulgoranti paradossi. Il signor Ferrari ha nondimeno degli sprazzi di luce, i quali riassumono talvolta una situazione con un motto felice e profondo. Se il Ferrari avesse rinnegate le sue prime convinzioni, egli sarebbe forse stato una macchina di guerra. Restando onoratamente federalista, su i banchi dell’opposizione resta impotente.

Ma che cosa è Guerrazzi? mi dimanderete voi adesso. Ohimè! io vorrei ben dirvelo, se lo sapessi, se il signor Guerrazzi lo sapesse egli stesso. Il fondo del suo pensiero di deputato è un mistero. Egli è italiano, senza dubbio; ma sotto di qual forma politica? È desso unitario, repubblicano, monarchico, costituzionale, anarchico? È desso federalista, è desso autonomista? Se io osassi indovinare, io direi che egli è, innanzi tutto, e non è altra cosa, che indispettito di non essere ministro, ed egli odia, a causa di ciò, l’assorbente ed invadente egemonia piemontese. Guerrazzi, come uomo politico, si è poveramente sciupato. Ma egli resta ancora un terribile lottatore parlamentare. Perocchè egli ha una lena inesauribile, e sulle sue labbra l’epigramma scatta spontaneo, e dove tocca, taglia. Egli ferisce a morte, ma fa ridere coloro stessi cui offende. [p. 157 modifica]

L’Italia poi deve a Guerrazzi il non aver essa veduto spento il fuoco sacro del sentimento nazionale. Da trent’anni il cuore d’Italia palpita potentemente rimescolato da questo scrittore veterano. La Battaglia di Benevento, l'Assedio di Firenze, Isabella Orsini, Veronica Cibo, i Nuovi Tartuffi, Beatrice Cenci, l’Asino, il Buco nel muro.... ed i suoi scritti politici, hanno avuto un rumoroso successo, non solamente letterario, ma nazionale. La stranezza del suo stile, amalgama bizzarro di lirismo e di pedantismo sonnolento, che si direbbe del Byron affannato e svaporato, del D’Arlincourt concentrato, la singolarità del suo stile, dico, vien compensata largamente da un olezzo di sentimento sempre generoso — quando non è scettico o gallofobo, e da una profondità di viste nuove, ampie, feconde, le quali rivelano un ingegno che lambe il genio. Guerrazzi commuove e scuote, ovvero disgusta.

Al Parlamento egli combatte da bersagliere. È la sua parte. Per il momento, egli sta sul broncio. Nella sessione passata non parlò che due volte, e male — ciò che avviene sempre quando la collera fa velo all’intelletto. Non vota mai. Fa dello spirito con i vicini, e lancia dei bei motti per sotto, non per sopra il mio banco. Fortunato il suo vicino che può raccoglierli!

Se gli ex-mazziniani sono numerosi, sopratutto sui banchi della destra, i mazziniani attuali e fedeli riduconsi a quattro o cinque. Il loro capo è Aurelio Saffi, gli altri, persone senza valore e senza nome. Io non parlo dei mazziniani misti, dei mazziniani [p. 158 modifica]garibaldini, tal che Brofferio, Crispi, Macchi, Mordini, Bertani.... Io classificherò costoro fra i garibaldini, perocchè in realtà essi amano meglio il sole di mezzodì che il sole quasi estinto. Il signor Saffi è un uomo ardente, quantunque a giudizio esatto e moderato; uno spirito elevato e molto colto; un polemista vigoroso nella stampa. Sventuratamente, la sua voce fievole e velata gli osta di tuonar alla tribuna come la tempra del suo cuore e della sua mente gliene darebbe l’attitudine. Non nomino, come dissi, gli altri mazziniani: non ne vale il fastidio. La voce di questo partito non ha eco nell’aula nostra. Il solo nome di Mazzini vi suscita degli uragani. Ferrari ringraziò un giorno il conte di Cavour, il quale gli permise di pronunziare questo nome formidabile in mezzo a mormori sordi dell’assemblea. E nondimeno si ascoltano intrepidamente Ondes-Regio, Emerico Amari e Gustavo di Cavour, i tre oltamontrani più proporzionatamente furiosi della Camera!

Il barone Ondes-Regio è il nostro Montalembert, meno la bile, ed il sapere ed il municipalismo siciliano in più. Il signor Ondes insegna il dritto constituzionale ed il dritto internazionale nell’Università di Genova. È autore di parecchie opere di dritto e di filosofia morale, non che di qualche libello cattolico — opere tutte fortemente pensate, scritte con eleganza e facilità, e molto apprezzate da coloro stessi — e sono numerosissimi — che ne combattono le teorie. Il signor Ondes non ammette tutti i principii dell’89. Egli osò chiamare scellerati, dalla tribuna, gli uomini [p. 159 modifica]della Convenzione — assolutamente come un cappuccino. Lo si direbbe un resurretto dopo dieci secoli — un revenant, nel nostro Parlamento unitario, scettico, e fortemente temprato dal battesimo della grande rivoluzione francese. Malgrado ciò, l’allettamento della parola e la considerazione tutta personale di questo fogoso cattolico son tali che tutti lo ascoltano con interesse, alcuno non si rivolta delle sue eresie sociali, molti si pregiano di essergli amici — ed io fra costoro!

Il conte Emerico Amari è il nostro M. di Falloux. Amari occupava la cattedra di filosofia della storia a Firenze. Lo si dice profondo giurista ed economista. Come il suo parente e vicino, signor Ondes, egli è autore di talune opere di grande portata, e cattolico così cieco, così convinto, che l’altro suo vicino e conterraneo, signor Ugdolena, lo sembra poco.

Il signor Ugdolena insegna all’Università di Palermo la Santa Scrittura ed è orientalista. Egli passò per gli ergastoli di Ferdinando II, poi fu ministro di Garibaldi, che lo nominò giudice della Monarchia Siciliana — specie di legato del Re in faccia della Santa Sede. Ha un’eloquenza melliflua, untuosa, episcopale. Ma questo esaltamento oltramontano e la tendenza di autonomia insulare a parte, questi tre siciliani combattono il Governo nella misura della loro coscienza, e tengono degnamente il loro posto alla sinistra.

Vi sono ora i liberali dipendenti o dottrinarii, imperciocchè essi sono partigiani della politica straniera del barone Ricasoli, carezzano l’alleanza [p. 160 modifica]francese e le idee inglesi, e difendono furiosamente l’autonomia amministrativa, cui il ministro Minghetti aspirava ad infiltrare nelle nostre leggi organiche, col nome di regioni, e cui il barone Ricasoli combattè e fece rigettare. Questo piccolo gruppo di democratici blasés e blasonnés, si compone principalmente di Lombardi, repubblicani prima del 1848, rivoluzionari o fusionisti a quell’epoca, in cui ebbero le prime parti nella stupenda epopea della rivoluzione, e poscia un po’ di tutto, per intermittenza o per dispetto. — In fondo, convinti di nulla. Ma onesti, culti e facendo parata di loro cultura, sì che ne vengono fastidiosi, pesanti, affettati, uomini più di pensiero che di parola, abili, ma non audaci, tendendo ai mezzi termini, alla mezza luce, allo sbiadato. Il loro capo apparente è il signor Correnti, di cui discorsi innanzi, il capo reale è il signor Allievi, direttore oggi della Perseveranza.

Il signor Allievi è uomo che ha idee, ed idee ardite, ma le tempera per smania di gravità ed ambizione di passare per un uomo di Stato. Parla bene, ma senza calore, senza brio, dicendo cose sode, cose sane, cose giuste. Amico di libertà, ma pauroso di parerlo troppo — sente alto di sè, non dissimula sentir mediocremente di altrui — e non sempre a torto — freddo, ma gentile nei modi. Fa parte delle più gravi commissioni amministrative, ove porta sempre non mediocre corredo di. sapere acquisito nei libri. È sovente relatore di leggi e si tiene gagliardamente sulla breccia. Il più bel giorno della sua vita sarà, non quando [p. 161 modifica]avrà scritto un brillante articolo nell’importante periodico milanese, ma quando sarà nominato segretario generale di qualche ministro. Ciascuno ha i suoi gusti.

Segue il signor Visconti Venosta, il quale occupò degnamente le funzioni di segretaria di Farini nell’Emilia ed a Napoli. Oggi egli è membro del contenzioso diplomatico, comitato instituito dal conte di Cavour. Nominerò altresì il signor Restelli, uomo di portata politica distintissima: il signor Massarani, polemista, nella Perseveranza di molto rilievo, serio, colto giovane; il marchese Guerrieri Gonzaga, letterato ed economista di prima forza, poeta squisito che squisitamente ha tradotto or ora il Fausto di Goëthe, un dì repubblicano; oggi piegato a casa di Savoja, per odio degli Habsbourg, sotto di cui geme ancora la sua provincia. Citerò inoltre l’avvocato Gadda, ed il suo vicino il signor Finzi, avanzo radicale, ma intollerante, delle prigioni dell’Austria. Finzi restò dieciotto mesi in una muda a venticinque piedi al di sotto del livello del lago di Garda a Peschiera. Egli deve al suo silenzio implacabile se non fu appiccato come i suoi complici. Garibaldi lo nominò direttore della cassa per il milione di fucili. Aggiungo a costoro il napoletano Giuseppe del Re, elegante scrittore, anch’esso della Perseveranza, ed in quei principii, poeta, dalle cose politiche più alieno che caldo, scettico e beffardo.

Tra gl’indipendenti nominerò un altro avvocato milanese, di cui la Camera apprezza sempre l’autorità della parola, il signor Mosca. Questi è un [p. 162 modifica]puro tipo milanese — cavillatore, onesto, democratico e conservatore nel tempo stesso, intelligentissimo quando trattasi d’interessi materiali, poco curante degl’interessi politici, un po’ ruvido, un po’ brusco, un po’ pesante, ma dotto, ed ostinato come un mulo nelle sue opinioni, cui difende con abbondanza e con logica stretta. Aggiungo a questa categoria il signor Costa Antonio di Genova, spirito positivo e luminoso, sopra tutto in materie di finanze; il signor Pica, che per dieci anni trascinò le catene di forzato politico nei bagni di Napoli e che disgraziatamente troppo carezza, per vezzo di popolarità municipale, l’autonomia napoletana; il signor Giuseppe Romano, ardente di ben fare; il signor Mandoi-Albanese; il marchese Ricci, che fu ambasciatore a Parigi e ministro con Ratazzi all’epoca della seconda riscossa che così infelicemente soggiacque a Novara; il signor Levi, razionalista, autore di Giordano Bruno ed i liberi pensatori italiani, dell’Unità cattolica e l’Unità moderna, e di molti altri opuscoli politici e filosofici, collaboratore di Ausonio Franchi; il signor Ranieri, che spesso dorme ma vota sempre bene, autore anch’esso di opere storiche rimarchevoli e rimarcate, carattere debole ed anima indipendente, florido di velleità più che di volontà. Io potrei citare ancora molti altri nomi, che sotto ogni rapporto meriterebbero fissare l’attenzione: aggiungerò solamente il signor Varese, autore di una bella storia di Genova e di parecchi romanzi, cuore freddo, dicitura purissima e lambiccata, intelligenza elevata; il signor Menighetti, [p. 163 modifica]redattore della Nazione di Firenze, uno dei capi del partito democratico della Toscana, oggi ragionevolmente moderato, scrittore elegante e non senza lena; il signor Toscanelli, ex-officiale di artiglieria a Venezia, capo del partito del movimento, giovane ardente e fantastico, molto competente in cose agricole, che pubblicava, non ha guari, un delizioso, spiritoso ed interessante libro sulle cose e classi agricole della Toscana; il signor Castagnola, spirito positivo e colto; il signor Michelini, il decano dei deputati italiani, parlatore intrepido innanzi ai rumori ed innanzi agli sbadigli, che sempre provoca, dotto economista, spirito difficile, costantemente nell’opposizione per gusto, per carattere, per tendenza di mente più che per cuore; il barone Bianchi, avvegnacchè propenda più dal lato del terzo partito che dal nostro; il signor Saracco, oggi segretario generale ai lavori pubblici, uno dei tre, con Mellana e Brofferio, che dopo quattordici anni siedono sempre all’opposizione, avvegnacchè i loro amici fossero passati e ripassati al potere; e Sebastiano Tecchio — il distinto veneziano che è vice-presidente della Camera, oratore e scrittore pieno di forza e di grazia, pensatore all’altezza di tutte le quistioni parlamentari, dirigendo le discussioni della Camera con una destrezza ed una capacità a niun altro secondo. Gallenga disse di lui, con tanta grazia e verità, che sembra un ritratto di quei veneti senatori del suo compatriota Tintoretto, che vive, parla e cammina. Tecchio pende egualmente piuttosto verso il partito di Ratazzi — ed un dì sarà ministro.

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Io passo, ed a disegno, su i boudeurs consolabili, su i pretendenti a portafogli, sugli uccelli di passaggio e sugli esploratori che vengono dal campo nemico.

E perchè ne sono ai deputati, i quali non fanno che passare, aggiungo una parola su coloro che, traversando per recarsi alla destra, si sono smarriti e si sono arrestati su i banchi della sinistra. Potrei nominarne parecchi; mi limito a notarne di fretta e furia due soli, il signor Chiaves ed il signor Gallenga, avvegnacchè questi, quest’anno, abbia fatto un passo innanzi e sia passato al centro.

Il signor Chiaves ha degli slanci di oratore politico, la logica fina e serrata, il colpo d’occhio sagace, e sarebbe uno degli uomini i più notevoli del nostro Parlamento se non fosse autonomista, piemontese a tre doppi ed ultra-cattolico. Lo si ascolta nondimeno con considerazione e simpatia. Egli è il capo di coloro che rappresentano l’egemonia piemontese con Alfieri, Bertea, Bottero, Mazza, ecc.

Il signor Gallenga, un po’ nomade, è inclassificabile. Il signor Gallenga, da due anni, mi perseguita nelle sue rimarchevoli corrispondenze del Times, chiamandomi demagogo, anarchico, mazziniano, murattista e pazzo. Peccato che non mi abbia ancora chiamato cattolico! Dovendo parlare di lui, io non mi vendicherò con una menzogna. Il signor Gallenga è una delle figure fantastiche della nostra Camera, che scappano di un lancio ed in un attimo a tutti i partiti. Egli è un misto di selvatichezza e di malleabilità, di repubblicano [p. 165 modifica]e di despota, che scatta come una bomba, che subisce tutte le vicissitudini della discussione come un barometro subisce l’azione dell’aria. Eminentemente nervoso, a senso di giustizia profondo, irritabile, disprezzando l’impopolarità, anzi vezzeggiandola come la sua parte di eredità parlamentare, pieno di un coraggio civile, che pochi, rarissimi, spiegarono con più a proposito, con più fierezza imparziale, se non secondo la cosa, secondo la sua coscienza; a giudizio acuto, sintetico e sovente paradossale, il signor Gallenga prende assai sovente parte alle lucubrazioni parlamentari, e negli uffici e nella Camera, là per portarci i lumi della sperienza del suo lunghissimo soggiorno in Inghilterra, qui per gittare nella bilancia la sua parola, la quale per essere troppo audace e troppo estrema, per le fibre triviali della maggioranza dei deputati prende l’aria di eccentricità.

Il signor Gallenga ha pubblicato in Inghilterra parecchie opere sull’Italia, opere marcate di una grande esattezza di colpo d’occhio, riempite d’idee nuove ed originali e di molto sapere. Imperciocchè il signor Gallenga sa molto, e se ne addobba forse troppo. Le sue lettere al Times sono rimarchevolissime per ingegno, cui il signor Gallenga ha moltissimo, per imparzialità, per conoscenza di fatti e per pittura viva, sincera, variata, brillante — sopratutto quando dipinge gli uomini. Egli ha una corda di La Bruyère, una di La Rochefaucauld.