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I moribondi del Palazzo Carignano/X

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IX XI
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I repubblicani della sinistra. — Brofferio, Macchi, Crispi. — Partito garibaldino. — Mordini, Cadolini, Musolino, Bixio, Cairoli, Bertani, Sirtori, Zappolta. — Gl’indecisi. — Liborio Romano, Greco, Lamasa, Assanti, Argentini, Polsinelli, Salaris, D’Ayala, Minervini, Ricciardi, Mellana, Sineo, Montanelli. — Sintesi della sinistra. — Perchè in essa non vi è un uomo di Stato.


Torino, 15 luglio 1861 e 9 marzo 1862.


Io pronunzierò dunque per gli altri, ma ben sommessa, la parola repubblicano, che è stata rimproverata a me, che l’ho detta a voce alta per mio proprio conto.

Il partito repubblicano in Italia non è numeroso. Al Parlamento è ristrettissimo ma convenevolmente rappresentato. Brofferio va alla testa. Egli è riconosciuto incontestabilmente ed unanimemente come l’oratore più brillante della Camera. Sarebbe perfetto se volesse disdegnare la piccola vanità di piacere alle tribune con delle tirate drammatiche, con un cliquetis di parole ad effetto, e lasciare la cattiva abitudine dell’amplificazione del tribunale, come altresì le tendenze di procuratore generale. Ciò eccetto, Brofferio è un oratore incantevole. Egli traripa di spirito; abbarbaglia con le sue ragioni [p. 168 modifica]altrettanto che con i suoi paradossi; rimuove tutte le corde le più sonore dell’anima; assale a briglia sciolta con una lena di tutti i momenti; parla al cuore altrettanto che all’anima, sopratutto quando ha torto, ciò che gli avviene sovente, fa forza ai più malvolenti ad ascoltarlo. La causa che egli difende è una causa perduta a priori; ma essa ha avuto il suo quarto d’ora d’interesse e di fascino.

Brofferio è inoltre poeta. Egli ha scritto delle canzoni in dialetto piemontese, delle canzoni di cui ogni strofa è un busto — cui ha messo in musica e canta egli stesso e declama con un’espressione deliziosa. Egli è stato per lungo tempo il giornalista più giocoso e giocondo, più sarcastico e più vigoroso della stampa italiana. Ma sventuratamente egli è restato polemista e poeta anche in politica. Ei sente troppo. Egli subisce l’influenza delle impressioni vive e subite, ciò che toglie ai suoi apprezzamenti, ai suoi giudizii, l’autorità cui dà loro il suo incontestabile ingegno. Brofferio è tribuno anzi tutto, ciò che hanno obliato coloro i quali, volendolo giudicare come uomo di Stato, gli rimproverano la mancanza di continuità e di uniformità nella sua carriera politica e lo annegano anche oggidì sotto vili ed ignobili calunnie.

Il signor Brofferio ama la libertà con passione, ama l’Italia, ciò che è franco, ardito, dritto, e sopratutto ciò che è grande e colpisce l’imaginazione. Egli ha sempre difeso queste nobili cause quando furono in pericolo o minacciate. [p. 169 modifica]

Ora, gli uomini di Stato sono obbligati talvolta a subire certe eclissi, certe retrogressioni, certe transazioni, in una parola, le quali hanno offeso ed urtato il signor Brofferio. Egli non ha nulla considerato allora, nè i tempi, nè gli uomini, ed ha attaccato, come egli attacca, a briglia sciolta ed a fondo. Di ciò mille ire e la reazione delle ingiurie e dei soprusi contro di lui.

Brofferio ha pubblicate parecchie opere avidamente lette, molto incorrette, ma scritte con quello stile di vita in cui l’uomo rivelasi in tutta la sua pienezza. Il suo difetto, in tutto, è la foga. A sessant’anni, Brofferio è giovanissimo. Un poco più di sobrietà, di ritenuta, di calma nell’ebollizione della sua anima, raddoppierebbero la portata delle sue parole. Brofferio avrebbe allora una parte tutt’altra di quella che egli compie oggidì; vale a dire, di audace partigiano. Avendo tutte le qualità per essere il capo della sinistra, egli combatte da semplice gratatiere. Però, egli è La Tour d’Auvergne del nostro Parlamento.

Io classificherò altresì fra i repubblicani il signor Mauro Macchi, un dì redattore in capo del Diritto, amico e correligionario politico del nostro eminente filosofo Ausonio Franchi. Macchi è nel tempo stesso l’amico di Mazzini, di Garibaldi, di Cattaneo, il loro confidente, il loro organo, il loro gladiatore parlamentare. Imperciocchè il signor Macchi ha tutti i movimenti d’anima dell’oratore, fuoco, facilità, vita, brio, passione, prontezza di idee, come egli ha la penna incisiva del pubblicista e del polemista nella stampa militante. La [p. 170 modifica]sua parola è corta, viva, colorata, il suo organo vocale simpatico, le idee sempre libere e generose. Lombardo, fu espulso da Milano dagli Austriaci. Lo fu poi altresì parecchie volte dal Piemonte, a causa della sua complicità con Mazzini. Ma lo si cacciava dalla porta ed egli ritornava per la finestra — e sempre armato per combattere. Egli siede nei banchi i più alti della sinistra.

Sono obbligato di cacciare egualmente in questa categoria il signor Crispi, per allogarlo in qualche luogo. Un giorno io domandava a Crispi: Siete voi Mazziniano? — No, mi rispose egli. — Siete voi Garibaldino? — Neppure, ei replicò. — E chi siete voi dunque? — Io sono Crispi.

Ora, io conosceva un Crispi che, per dodici anni, aveva partecipato a tutta l’opera di Mazzini; un Crispi che era andato audacemente a preparare in Sicilia la spedizione di Garibaldi ed era stato, in seguito, uno dei primi che misero il piede a terra in Marsala, di unità all’eroica donna che porta il suo nome; io conosceva un Crispi ministro di Garibaldi in Sicilia, poi per qualche giorno a Napoli, avendo più energia che tatto, più volontà che idee, più coraggio che capacità, più fermezza che autorità morale, uomo probo, perseverante, altamente ambizioso, incapace di viltà.... sì, io conosceva quel Crispi, ma io non conosceva questo Crispi tout court, questo Crispi inedito, che brilla da sè e non riflette nè Mazzini nè Garibaldi. Crispi si rivelerà forse ben presto sotto un nuovo punto di luce, una luce tutta sua. Ma, come vi sarebbe stato poca buona grazia da [p. 171 modifica]parte mia di classificarlo altrimenti che secondo la sua dichiarazione; come egli non è mica ancora ministeriale e non sarà giammai il capo della sinistra, come lo lascierebbe volentieri credere, io lo allogo, salvo errore, fra i repubblicani in istato latente. Ad ogni modo, il signor Crispi non è mica uomo a passare inavveduto in niun luogo, nè a restare negli ultimi ranghi. Alla Camera, ogni qualvolta parla, parla di sè o della Sicilia. È regionista, vale a dire, che carezza l’autonomia dell’isola sua. E ciò si comprende. Parla con lentezza, senza mirare a bagliori, ma al positivo, con una voce cadenzata di una maniera monotona. È stringente negli argomenti, e sempre nella questione. È laborioso e spiccio in mezzo alle panie amministrative.

Ha coraggio; ma troppa personalità di odi e di amori siculi — sì che l’usbergo della prudenza sua rompe le maglie. Crispi sarà ministro un dì — certo — e forse in epoca non lontana — nè sarà dei peggiori che afflissero Italia.

Quest’anno egli ha accentuata meglio la sua persona, la sua posizione, le sue tendenze, il suo carattere — sì che il Crispi inedito comincia a comparire per barlumi. Comparirebbe intero, forse, se, ambizioso con più calma, si scostasse da chi e da che gli sembra un appoggio per farlo più presto arrivare. Ad ogni modo, se egli si allontana con infinita cautela dal partito garibaldino, altri vi si barricano, e sono numerosi e gagliardi. Il capo di questo partito è Mordini — nell’eclissi di Bertani. [p. 172 modifica]

Spirito svelto, figura fina, aria misteriosa, intelligenza vivissima, tenacità di carattere, parola molle ma altiera e chiara, colpo d’occhio giusto, modi che sentono in tutto alcun che del cospiratore, occhio penetrante, intelligente, magnetico, tale è il profilo di Mordini. Egli fu ministro in Toscana nel 1848, prodittatore in Sicilia, ove egli ebbe la debolezza di sviluppare l’appetito, di già sì vorace, dei Siciliani per gl’impieghi e per i posti nel budget. Il signor Mordini bordeggiò lungo tempo nelle acque di Mazzini. Poi si accostò a Garibaldi, ed ebbe l’onore di sedere in faccia a lui, nella vettura del re, quando S. M. entrò in Napoli. Mordini è di quegli uomini di cui le rivoluzioni fanno sempre qualche cosa. Ha stoffa d’uomo. La lotta lo anima.

Tra i garibaldini della Camera io citerò l’ingegnere Cadolini, il quale, maggiore nell’esercito meridionale, dette la sua dimissione, disdegnando lo scrutinio ed il soldo senza servizio effettivo. Vien quindi Musolino, che Garnier-Pagòs, nella; Storia della rivoluzione del 1848, chiama, con tanta ragione, un homme de trempe antique e che essendo stato uno dei mille di Marsala, fu il primo che, di Sicilia, mise il piede sul continente napoletano. Poi nominerò il general Bixio, il conversationneur meglio ascoltato dalla Camera; la di cui parola sgorga dal cuore erta, pittoresca, scintillante di buon senso, piena sempre dì fatti, generosa; e sovente anche improntata di uno spirito di conciliazione che parrebbe un’antitesi col suo carattere forte ed energico. Bixio prende [p. 173 modifica]sempre con grande autorità la parola sulle cose di marina e di guerra. È indipendente. Lo sì ascolta sempre con simpatia ed interesse, a causa delle uscite originali e franche a cui si lascia andare, assolutamente come se parlasse in un crocchio di amici, sul cassero di un legno da guerra. Io mi stupisco che non gli sia scappato ancora un: Sacre nom de Dieu!

Segnalerò in seguito il colonnello Benedetto Cairoli, il quale a causa delle sue ferite non ancora cicatrizzate, si trascina sulle grucce e fa di tempo in tempo un’apparizione alla Camera. Nobile famiglia ch’è quella dei Cairoli di Pavia! La madre, vedova, aveva quattro figli. Essa li manda tutti quattro alla guerra — e tutti insieme. Due volte vedova — una per la mano di Dio, un’altra per amore d’Italia. Due di questi figli muoiono sul campo di battaglia. Il terzo riceve una palla alla testa; il quarto, il deputato Benedetto, è ferito alla gamba, alla mano, al petto.... e ferito per tutta la vita. La madre porta un lutto eterno nell’anima; i figli, l’eterno sovvenire della redenzione della patria. Cairoli ha preso posto nell’estrema sinistra e vota alzando la sua gruccia. Si è dimesso e non tocca soldo. Ha parlato una volta — ed è stato lo più splendido discorso che abbia udito la Camera nella sessione attuale. È vero che parlava per gli esuli veneziani che domandano di essere italiani!

Io tacerò degli altri, perchè sarebbe troppo lungo nominarli tutti. Ma non posso per certo passar sotto silenzio nè Bertani — l’alter ego di Garibaldi, nè il generale Sirtori. [p. 174 modifica]

Affondando il vostro sguardo nei banchi dell’estrema sinistra, tra Saffi e Miceli — un altro dei mille di Marsala — voi siete colpiti dall’espressione singolare di una testa giallognola, a capelli neri, agli occhi fiammanti. Quegli è Bertani. Al naso aquilino, alla figura fina, acuta, tagliata a lama di spada, al fronte alto, ondulato da piccole rughe, come il mare qualche minuti avanti la tempesta, agli occhi viperini e concentrati, voi indovinate l’uragano eterno, come quello dei mari polari, che rugge nel suo petto, che si ammoncella nel suo cervello. La sua tinta biliosa denuncia le sue forti passioni; il suo sguardo fisso e magnetico domina e fa paura. Voi conoscete la parte immensa che ha rappresentata Bertani in tutta l’epopea garibaldina. Egli fu all’altezza di questa parte; ha viste larghe e lontane — avvegnachè meno radicali, che le si potriano per avventura supporre. Parla bene, mira giusto, colpisce a morte, non perde mai la staffa nè il contegno. Asperge di acido solforico, e par gittare foglie di rose ed acqua lustrale! Fu Bertani che tirò dalle viscere d’Italia quell’esercito meridionale che si mostrò, conquise due regni, e disparve come un fantasma — armata fantastica, armata da poema! È Bertani che la prepara di nuovo con i Comitati di Provvedimento, e la creerà di nuovo, se occorre, e quando occorre. Volontà fulminante che nulla ritiene, nulla sgomenta. Bertani è il solo il quale abbia potuto affascinar Garibaldi, spingerlo avanti — o ritenerlo. Egli ha la fibra di Saint-Just. È, politicamente, ciò che Sirtori è militarmente. [p. 175 modifica]

Il general Sirtori è una di quelle fisonomie di Alberto Durer che esprimono il mistero e portano il suggello della fatalità. Sirtori parla poco, e mai per non dir nulla. Ride di raro. Non conosce alcuno dei piaceri della vita e della giovinezza. Fu prete. La rivoluzione e l’Italia lo rapirono alla chiesa. È adesso generale e capo di stato maggiore. Dovunque il cannone tuona per la patria, Sirtori si trova alle prime file: in Lombardia, nel 1848, a Venezia nel 1849, dal 1859 con Garibaldi. Poi, nell’esilio, ove si urtò a tutte le prove, a tutti i movimenti dei partiti. Sirtori morse a tutte le miserie, a tutti i dolori, ai più fulminanti disinganni, e fortificò la sua anima di gravi studi militari. La sua vita è piena. Egli l’ha conquistata passo a passo, ora ad ora; severo fino all’orgoglio, degno puritano, disdegnoso. Egli non ha inclinata la sua testa che innanzi di due uomini — Garibaldi ed il conte di Cavour! Il suo difetto è l’eccesso di coraggio. Nella mischia il sangue gli sale al cervello ed oblia che è generale. Sirtori non ha parlato in Parlamento che una volta sola, ed il suo ex-abrupto fu un colpo di fulmine. Ogni parola ferì come un pugnale. Egli lo lamentò di poi. Sirtori non ha finita la sua missione. Su quella figura il destino ha impresso un misterioso che colpisce l’osservatore ed il superstizioso.

Ma parlando di misteriosi, il nome di Zuppetta si trova sotto la mia penna. Zuppetta è uno di quegli esseri terribili che la rivoluzione fa giganti, la pace divora. Zuppetta è comparso due volte [p. 176 modifica]appena all’Assemblea. La prima volta Garibaldi ve lo portò nelle pieghe del suo plaid, al momento della prima sua entrata. Zuppetta non pronunziò che una sola parola, una parola sorda, scura, una specie di ghigno satanico: io giuro! Egli restò sulla montagna durante tutta la tempesta che il discorso di Garibaldi scatenò, restò freddo, la beffa sulle labbra sardoniche, le scintille ed il sangue negli occhi. Poi disparve. Quella testa moresca, ai denti bianchi ed aguzzi, agli occhi elettrici, alla chioma lunga e nera che io vidi mangiare i mustacchi per tre ore, mi turbava ancora. Zuppetta ricomparve. Annunciato come un fulmine, scoppiò come un zolfanello. Si aspettava ognuno, sulle miserrime condizioni di Napoli, udire un tribuno terribile: scappò fuori un retore leccato, artificioso, cavilloso, puerile, pedante, freddo. Zuppetta morì. Che cambi parte. Il tribuno non va più.

Questo gruppo di garibaldini è di già per sè stesso incisamente pronunziato su i banchi della sinistra. Ma esso lo sembra di tanto più a causa degli indecisi che lo attorniano. In quest’ultima categoria io collocherò Liborio Romano — il quale, arrivando, si assise al centro, poscia emigrò verso la sinistra. Io non so ciò che vuole Liborio Romano, chi è desso, ove tende, s’egli vezzeggi l’unità italiana o l’autonomia napoletana. Egli ha parlato due o tre volte pro domo sua, per l’esercito borbonico, per il Ministero, per giustificare gli atti del suo passaggio al potere. Egli matura dei progetti di legge che probabilmente resteranno [p. 177 modifica]inediti. Presentò una legge sulla guardia nazionale, che morì nascendo.

Classificherò inoltre tra gl’indecisi l’arcidiacono Greco, il quale dicesi rinunziasse ad un vescovado offertogli dai Borboni — e che casa Savoja non gli rioffrirà. Poi il general Lamasa, il colonnello Assanti, il maggiore Argentini — tutti garibaldini — l’ultimo, uno dei mille che si è dimesso generosamente. Infine, il sardo avvocato Salaris, Polsinelli, carattere fiero, dritto, il solo protezionista economico che vi fosse nella Camera. D’Ayala, a cui la pace dette tutti i gradì, e fece generale, uom speciale per organizzare i funerali celebri, trovare le parole italiane ad ogni faccenda, e scrittore coscienzioso di storie militari, elegante, ma freddo come il Mont-Blanc. Infine il dotto ed officioso Minervini.

Lo più indeciso di tutti però, senza avvedetene, mi sembra essere Ricciardi. Il mio vicino Ricciardi sì crede unitario, ed è napoletano; si crede repubblicano, ed in verità io non so proprio cosa sia. Egli è tutto, pour le quart d’heure, e ciò che è strano, lo è con convincimento e con coscienza. Dominato dalla malattia della vanità, egli ha fatto dei versi che sono della prosa, della prosa ripiena di buona volontà, correntemente, in veste da camera, per parlar di sè sotto il pretesto di parlar di non importa che. Se lo si dovesse giudicar su i suoi scritti, Ricciardi avrebbe inventata la Italia. Egli ha presentati finora quattro progetti di legge, cui il Parlamento non ebbe la serietà di prender sul serio. [p. 178 modifica]

Ricciardi ha la sventura di rallegrare la Camera, quantunque egli dica spessissimo delle cose giuste, vere ed assai bene esposte. Non ha lunga lena di parole, di idee, di mente. Un pizzichetto di qualche cosa, e passa. Però questo pizzichetto lascia un segno. Egli ha fatto giuramento di vedere ogni giorno il suo nome nel conto reso delle sedute — non fosse che per avere fatto rimarcare che nel processo verbale si era omessa una virgolo. Se lo si lasciasse fare, Ricciardi ci servirebbe un codice di sette articoli — come i sette sacramenti. Egli ha l’epidermide enciclopedico. Del resto, molto intelligente, perfetto galantuomo, convinto, coscienzioso, onesto, simpatico a tutti, non mancando nè di a proposito, nè di dignità. Ha dei travers, non pas des defauts.

Vi ho toccato, a due riprese, di Mellana, cui non posso collocare in alcun sito, in niuna classe. Egli è stato sempre al Parlamento, dal 1848 in poi e sempre all’estrema sinistra. Bersagliere formidabile, logico, serrato come un assioma, tattico, giudizioso ed abile. Mellana ha preso parte a tutte le lotte politiche del Piemonte. Egli parla non so qual lingua; ha delle maniere burbere e brusche, l’organo della voce poco simpatico; ma non appena ha dimandato di parlare, tutti si tacciono ed i ministri ascoltano. Chi usciva, rientra; chi leggeva o scriveva, cessa. Il Ministero sa d’innanzi che l’attacco è serio e senza riguardi. Se la sinistra dovesse riconoscere un capo, lo più abile, senza contesto, sarebbe Mellana. Ma egli è stanco della sua parte. La nomina di Ratazzi [p. 179 modifica]sembra galvanizzarlo. E forse vedremo il caso nuovo, strano, paradossale — Mellana ministeriale! La sarà bella.

Due soli nomi, e finisco con la sinistra — Sineo e Montanelli, arrivati non ha guari, e tali che non resteranno nell’ombra od indietro.

Sineo è uno dei veterani del Parlamento piemontese, noto al paese per la costanza nei suoi principii democratici e l’abbondanza nei suoi discorsi. Sedette e siede nell’opposizione. Mi sembra parteggiar per Ratazzi. Non avendo avuto il tempo per giudicarlo da me, mi taccio.

Montanelli è più noto, perocchè egli ha traversato tutte le evoluzioni della rivoluzione italiana; dal 1848 in poi, ed anche prima, si era fatto rimarcare nelle cospirazioni — allora in favor di Carlo Alberto.

Montanelli ha portato nella sua vita politica due peccati originali: era poeta e cattolico. Egli ha voluto dissimulare questi due germi di debolezza nell’armatura di acciajo di cui deve essere corazzato un uomo di Stato: ma la poesia e l’odore di sacrestia si sono in lui sempre traditi — come l’odore del muschio. Di quinci tutte le oscillazioni, le fiacchezze, i cangiamenti, i disinganni, le aspirazioni inopportune, l’inconsistenza che hanno segnalato la carriera politica di lui. Montanelli è stato tutto, a causa di ciò — egli ha adorato Carlo Alberto, Pio IX, Mazzini, Lamennais, Proudhon, il principe Napoleone, la repubblica, l’impero, la federazione, oggi l’unità. Egli giudicava col cuore; calcolava con la speranza. Ma nel tempo stesso è stata la poesia, la quale [p. 180 modifica]lo ha tirato incontaminato di bassezze e di apostasia — malgrado i cangiamenti — da tutti questi urti della vita politica. Artista innanzi tutto, egli si è elevato sempre, anche quando sembrava discendere; si è elevato perchè credeva arrivare più presto alla soluzione dei destini d’Italia. — Egli credeva che questi tanti aeronauti, che egli salutava come aquile, lo conducessero a volo sublime. La valvola scattava: l’areonauta precipitava. Egli quindi ha suscitate in altrui molte collere, e per sè si è creati molti dolori, ma non credo alcun rimorso. L’ambizione, questo sublimato di tutte le poesie, gli aveva esilarato il cervello. Ed e’ si lusingava, poichè aveva il cuor largo, la mente vasta, era istrutto, aveva fede, aveva ardire, e tutto gli sembrava tinto del colore del successo. Nel 1859, quella che apparivagli da Parigi una delle mille ed una notte, cangiossi in una notte d’incubi e di uragani. Il disinganno arrivò. Egli volle tener fermo. Ai disinganni si aggiunsero le traversìe. Infine, ricreduto — mutato a nuovo, italiano oggi come lo era stato quando gl’Italiani d’oggi erano non importa che, la clemenza, o l’indifferenza di Bettino Ricasoli gli ha aperto le porte del Parlamento, per cui era davvero una macchia ch’e’ non vi fosse. Montanelli è eloquente e sarà una delle gemme della nostra tribuna. Egli sente, egli conosce la politica europea, sa di dritto e sa di storia, e comprende gli uomini. Non manca di destrezza. È scaltro e piacevole, insinuante ed affettuoso — a mo’ dei Francesi, sul fiore delle labbra — non ha nulla di volgare [p. 181 modifica]nell’anima, e calcola come un Toscano. Montanelli ascenderà, ed alto — accoppiando la nozione delle cose pratiche al calore dell’entusiasmo, con cui sa vivificare, elevare, infiorare le cose. Ora, l’esperienza ed i disinganni gli serviranno di duci.

Ecco la sinistra. Io ne ho tralasciati, e dei valenti. Ora, come avete potuto rimarcarlo, vi è in questa parte della Camera delle forti individualità, ma neppur un sol uomo di Stato. Se domani il re fosse obbligato di scegliere un Gabinetto in questo partito, S. M. potria vantarsi di essere l’alchimista politico il meglio dotato se ella sapesse estrarne due soli ministri. La ragione e la causa ne sono semplicissime. I membri della sinistra sono degli uomini d’azione, i quali, non avendo giammai trionfato, non hanno avuto giammai l’agio di sintetizzare le loro idee. Si pensa, si riflette dopo il combattimento. La sinistra si batte sempre, armeggia contro tutto e contro tutti. Il suo destino è l’ideale. La sinistra ha i suoi capi, il suo programma; ma non ha l’opportunità di farli valere. Essa è là: si batte — e domani ancora si batterà come jeri. Bisogna uscire dai suoi ranghi per spendersi in moneta di potere, farsi valere, arrivare.

Ecco come il terzo partito oggi domina — ecco perchè i più ambiziosi diventano, presto o tardi, transfugi della sinistra. Il terzo partito ha potuto costituirsi perchè la natura dei suoi principii gli dava dei periodi di tregua. La sinistra non ne avrà mai. Il popolo la rinnovella sempre di nuove forze e di forze [p. 182 modifica]giovani, come Iddio manda la primavera alla natura.

Ora veniamo al centro. Apriamo la sepoltura. È il dì dei morti.