Vai al contenuto

I rossi e i neri/Primo volume/XXXVII

Da Wikisource.
XXXVII

../XXXVI ../XXXVIII IncludiIntestazione 31 agosto 2018 25% Da definire

Primo volume - XXXVI Primo volume - XXXVIII
[p. 346 modifica]

XXXVII.

Come Lorenzo andasse in traccia di Niso e dovesse far capo ad Eurialo

Leggendo la sua parte di quel dramma intimo, che i lettori conoscono oramai per intero, Lorenzo Salvani rimase fortemente turbato. Nell’animo suo, lo sapete, era un certo che di femmineo; però egli, senza trascorrere a pronti ed acerbi giudizi, intendeva tutti i dolorosi rivolgimenti, per cui, come in altrettante filiere, aveva dovuto trascorrere, assottigliarsi, l’affetto di Lilla, giovinetta innamorata senza ardimento, donna amante senza saldezza di propositi; non abbastanza generosa per darsi tutta quanta; d’indole buona, ma di consuetudini guasta; una di quelle donne, in fine, le quali son nate per sacrificare la vita a chi le inganna, o per uccidere chi le ama davvero; povere figlie d’Eva, sì veramente, alle quali la logica diritta del cuore è offuscata da [p. 347 modifica]false sembianze di vero, non abbastanza notate da prima, e troppo notate e troppo ingrandite di poi.

L’orgoglio era il peccato capitale di Lilla. Dalle lettere scritte nella sua solitaria dimora campestre ella appariva soltanto una donna infelice; la puntigliosa morale che governa il mondo, o crede di governarlo, poteva condannarla; ma la logica del cuore, che non sa d’impedimenti umani, nè di patti giurati, notando nel fatto di quella donna, non già un pervertimento di sensi, sibbene l’impulso di un amor prepotente, l’assolveva, la rendeva degna di compianto. Senonchè l’anima debole era trascorsa all’eccesso dei nuovi consigli; si rifaceva al debito antico, ma rinnegando ogni senso di tenerezza umana; s’argomentava di far sentire la schietta voce della virtù sospettata, ed altro non parlava in lei che l’orgoglio offeso. La superbia aveva vinto l’amore, triste istoria, solito epilogo di tanti romanzi!

Lorenzo mise l’ultima lettera accanto alle altre nel cofanetto, lo chiuse e di bel nuovo lo depose nel cassettone. Egli conosceva finalmente l’arcano dei natali di Maria; ma che farne? come trarne giovamento per lei?

Innanzi di metter mano su quel carteggio, egli aveva fatto il disegno di raccomandare la sua sorella adottiva alle cure del generoso Assereto. Ma dopo aver letto que’ fogli che in così strana e inaspettata maniera gli mostravano Maria figliuola d’un Montalto, e congiunta di sangue ad Aloise, il primo consiglio più non gli parve il migliore. Aloise, era al pari dell’Assereto uno schietto amico, un gentiluomo, un vero uomo; per giunta si chiariva esser egli l’unico protettore naturale, autorevole, della fanciulla; a lui dunque si spettava la custodia dell’arcano.

Le quali cose meditate, e diremo quasi librate sulla bilancia, Lorenzo Salvani diè di piglio alla penna, per scrivere una lettera ad Aloise di Montalto. Ma egli aveva a mala pena incominciato, che ancora mutò consiglio, parendogli meglio fatto di andare egli stesso a cercar dell’amico. Molte cose si dicono agevolmente a voce, che sulla carta richiedono eterni rigiri di frasi, e poi si teme di non averle dette per modo che altri le intenda a puntino. Suonavano in quel mentre le nove del mattino; certo, Aloise era in casa; lo andar da lui tornava più agevole e più spedito dello scrivere.

Rassettandosi in fretta per andar fuori, aperse l’uscio della camera; ma nella sala d’entrata s’imbattè in Maria che appunto veniva a chieder di lui. [p. 348 modifica]

- E la vostra colazione? - diss’ella, notando come Lorenzo si fosse avviato all’uscio.

- Non ne ho voglia, stamane; - rispose il giovine. - Del resto, non starò fuori più di un’ora. -

Ma in quella che Lorenzo parlava, la giovinetta aveva potuto scorgere com’egli fosse pallido in viso e turbato.

- Che avete, Lorenzo? Voi siete ammalato....

- No, buona sorella, non ho nulla; ho letto molto e ho bisogno d’aria. Addio; tra un’ora e mezzo alla più lunga, sarò di ritorno. -

E senza aspettar altro, si volse all’uscio, lo aperse e partì. Dieci minuti dopo, era in via Balbi e scampanellava all’uscio del marchese di Montalto.

Ma Aloise, per dirla nello stile di Lucullo, non era dormito quella notte in casa di Aloise, e il servo non seppe dire a Lorenzo nè dove fosse, nè quando sarebbe ritornato; soltanto sapeva e diceva che da due giorni il suo padrone era fuori.

Che fare? A Lorenzo venne in mente il Pietrasanta, l’amico fedele del Montalto, come quegli che certo avrebbe saputo dirgli se fosse possibile, e quando, di abboccarsi con lui. E difilato si mosse per andarlo a cercare, ben sapendo ove stesse di casa. Per fortuna non doveva andare lontano, poichè il palazzo dei Pietrasanta era sulla piazza della Nunziata.

Giunto al portone e saputo che il marchesino non era uscito, Lorenzo salì al secondo piano e scampanellò all’uscio di casa. Un servo in mezza livrea venne ad aprirgli, per rispondergli asciuttamente, poi ch’ebbe udita la sua domanda, che Sua Eccellenza era a letto, e quando era a letto non si poteva scomodarla.

- Dategli questo; - soggiunse Lorenzo, sporgendogli un suo biglietto da visita, - e v’accorgerete di non aver fallito a svegliarlo, od altrimenti a disturbarlo. Io aspetterò qui. -

Il servo sì strinse nelle spalle, e lasciatolo solo nella vasta anticamera, andò, sebbene di male gambe, a far l’imbasciata. Dopo tre o quattro minuti, che Lorenzo spese a contemplare un Noè del Grechetto, che entrava nell’arca con ogni generazione d’animali, ricomparve il servitore, ma stavolta tutto inchini e sorrisi, per dirgli: - Entri, signor avocato; il mio padrone l’aspetta. -

Percorse due o tre sale sontuosamente arredate, nelle quali se ne stavano contegnosi e muti una dozzina di antenati d’ambo i sessi; sulla tela, s’intende. Lorenzo Salvani fu guidato [p. 349 modifica]alla camera dell’amico, più che dagli atti ossequiosi del servitore, dalla voce medesima del Pietrasanta, il quale gridava dalla sua cuccia:

- Siate il benvenuto, amico Salvani! Venite con me a deliziarvi nello spettacolo dell’alba!

- Dell’alba? - chiese Lorenzo, accompagnando le parole col suo placido sorriso, in quella che entrava nella camera del Pietrasanta: - volete dire quella de’ tafani?

- Non ne conosco altre, io; sebbene pel fatto di San Nazaro, dovrei dire il contrario. Ma un fiore non fa primavera; la mia alba, eccola.... Bell’alba è questa! -

E usando di quella dimestichezza che era tra lui e Lorenzo, il Pietrasanta si sollevò quasi in piedi sul letto, col lenzuolo ravviluppato intorno alla persona, per dare immagine dell’alfieresco personaggio a cui rubava il suo famoso emistichio.

- Ma lasciamo la tragedia in disparte; - proseguì l’allegro giovanotto, ricadendo col gomito sul guanciale. - lo vi ho fatto entrar qui, perchè non aveste ad aspettar troppo il mio scendere dalle molli piume. Licenziatemi quest’altra frase, vi prego, poichè stamane sono nel classico, e appunto quando giungevate voi stavo pensando a due personaggi dell’Eneide.

- Oh diamine! E chi sono, costoro?

- Ve lo dico subito. Ma, prima di tutto, sedetevi. Guardate, là, presso a voi, c’è un mazzo di spagnolette. I fiammiferi sono qui, sul tavolino. Io fumo come il Vesuvio, reggia di Vulcano, o come l’Etna, quando Encelado si fa lecito di respirare.

- Ma davvero siete classico, stamane! - disse Lorenzo, mentre, per contentare l’ospite amico, accendeva una spagnoletta.

- A proposito di fumo, Teodoro! - proseguì il Pietrasanta, chiamando il servitore, che fu sollecito a comparir sulla soglia. - Apri quella finestra, ma lascia chiusa la persiana, «perchè la brezza mattutina un varco - trovi, e il raggio del dì non ci percuota. - Vanne!» Ed eccovi ora, in disadorna prosa, a che stavo pensando, mio caro Salvani, innanzi che veniste voi. Pensavo a que’ due amici inseparabili che Virgilio ha dipinti, Niso ed Eurialo. Ho tradotto dieci anni or sono quell’episodio sulle panche di retorica, e m’è rimasto impresso. Che bella cosa! dicevo tra me; che bella cosa, era l’amicizia ne’ tempi andati! Niso ed Eurialo nel Lazio, Damone e Pizia a Siracusa, Oreste e Pilade [p. 350 modifica]in Grecia, Castore e Polluce in cielo.... Mitologia, tempi eroici, bellissime cose! Ma di presente tutto è mutato! -

Lorenzo Salvani sorrideva sempre. Il sorriso era stampato, Siam per dire, sulle sue labbra, a dissimulare l’interno affanno, come dissimula il volto una maschera di carnevale.

- Ma che vuol dire tutto questo sfoggio di erudizione? - dimandò egli.

- Vuol dire che a’ tempi nostri non ci sono più amici. Non mi dite di no; non parlo per voi, Salvani, che vedo così di rado, e non ne so veramente il perchè; parlo pel signor Aloise di Montalto, giovine biondo e infido, Niso che s’infischia d’Eurialo, Damone che manda Pizia a quel paese, Oreste che.... Non ridete Salvani! Sono venti giorni, senza mettere in conto questo, incominciato appena, che Aloise non viene da me, e quando io vado da lui, non lo trovo in casa.

- Diamine! E così, sono venti giorni che non lo vedete?

- Oh, non dico già questo. Qualche volta lo vedo, ma è una fortuna che io debbo guadagnarmela con gravi stenti, con lunghi pellegrinaggi, come a’ tempi delle crociate.

- Ah, capisco, - disse Lorenzo; - c’è qualche donna di mezzo.

- Sicuro, una donna. Oh le donne, le donne! Gens inimica mihi tyrrhenum navigat aequor! - gridò il Pietrasanta, con più enfasi di Giunone nel suo abboccamento con Eolo. - Ma scusatemi, Salvani; per raccontarvi i miei mali, dimentico che siete probabilmente venuto per parlarmi d’altro.

- No, appunto venivo da Eurialo perchè non avevo trovato Niso in casa.

- Ah, vedete? Ci ho gusto che vi sia toccato quello che tocca a me. Ma ditemi, può fare Eurialo quello che avrebbe fatto Niso, e con tanto piacere, per voi? Son tutto vostro, Salvani.

- Grazie; - rispose Lorenzo. - Desideravo parlargli; ma poichè non lo trovo, gli scriverò una lettera, e voi vi darete la briga....

- Di fargliela avere? - interruppe il Pietrasanta. - Sicuramente. Se oggi non viene, domani lo scoverò io. -

Un moto delle labbra di Lorenzo dimostrò ad Enrico Pietrasanta che non bastava ancora.

- Si tratta di cosa grave? - dimandò egli, mettendo la sua gaiezza mattutina in disparte.

- Gravissima; almeno per me. [p. 351 modifica]

- Diamine! e perchè non dirmelo subito? Ed io che stavo a ciaramellare, a ridere.... Scusatemi, Lorenzo!...

- Vi pare? - interruppe Salvani, stringendo affettuosamente la mano che gli stendeva l’amico. - Voi siete un’anima nobile, Pietrasanta. Rendetemi un servizio e dimostratemi, contro la vostra opinione di quest’oggi, che l’amicizia non è un nome vano. Aloise ha da avere, oggi medesimo, una mia lettera, e da venire, da correre a Genova, appena l’avrà letta. -

Enrico stette un tratto sovra pensieri, come se misurasse in cuor suo tutte le probabilità del negozio; quindi rispose con breviloquenza cesarea:

- L’avrà, la leggerà, verrà. Teodoro!... Ehi, dico, Teodoro!...

- Eccellenza! - esclamò il servitore, ritornando come un automa in sull’uscio.

- Fa attaccare il mio brougham.... no, anzi il mio landau, per le undici in punto.

- Eccellenza, le undici son già suonate.

- Non importa; fa attaccare prima che ribattano.

- Corro subito.

- Avete già scritta la lettera? - chiese Enrico a Lorenzo.

- No, ma se permettete....

- Teodoro!

- Eccellenza!

- Condurrai il signor Salvani nel mio studio. Là troverete ogni cosa, - soggiunse il Pietrasanta, volgendosi a Lorenzo; - io intanto salto giù e mi vesto in.... fretta. E bada tu, Teodoro, quando il signor Salvani avesse a venire altre volte, fallo entrare, e subito, a qualunque ora, come l’altro mio amico Aloise.

- Non ne dubiti. Eccellenza; ora che lo so.... - Lorenzo sorrise mestamente, come volesse dire: sarà inutile, oramai! E seguì Teodoro che lo condusse nello studio, elegantissimo stanzino dove il Pietrasanta non istava di certo lunghe ore assorto, sebbene ci avesse una piccola libreria e due trionfi di pipe turche colle canne di gelsomino.

Rimasto solo là dentro, Lorenzo andò alla scrivania. Sullo scannello stavano preparati a ricevere il battesimo dell’inchiostro due o tre quinterni di finissima carta a filone, che portava la lettera E, sormontata da una corona marchionale, stampata d’inchiostro azzurro, sul margine dei fogli. Il primo di questi, su cui caddero gli occhi di Lorenzo, oltre quel segno stampato, recava un cominciamento di epistola, e la [p. 352 modifica]frase vocativa: «Ma bien-aimée» dinotava due cose: che Enrico Pietrasanta teneva carteggio colle donne (gens inimica sibi), e che non usava sempre finir le sue lettere.

- Egli è felice! - esclamò Lorenzo, leggendo involontariamente quelle due paroline. Indi, messo da banda quel foglio, incominciò a scrivere la sua lettera ad Aloise. Ma era un lavoro difficile. Scrisse, cancellò, riscrisse, e finalmente, dopo avere inchiostrati tre fogli, che andarono a pezzi nel cestino, gli venne fatto di metter insieme questi paragrafi:


«Amico,

«Forza di eventi che tornerebbe inutile ora di starvi a chiarire, mi costringe a lasciar sola, senza aiuto, senza consiglio, la mia buona e santa sorella adottiva. Io la confido alle cure di Giorgio Assereto e alle vostre, ma più assai alle vostre, per quelle ragioni che intenderete agevolmente, quando avrete letto un antico carteggio che sta chiuso in una cassettina d’ebano, segreto di famiglia che ho dovuto leggere anch’io, questa mattina medesima. Mostrate questa lettera a Maria di Montalto (ella può portare questo nome, se non forse al cospetto del mondo, certo agli occhi di un gentiluomo come suo cugino Aloise) ed ella vi dirà dove si trovi la cassettina.

«Voi e il mio vecchio compagno Assereto sarete per quella infelice due fratelli, in cambio di uno che ella perderà; sarete l’anima di Lorenzo Salvani in due; il suo consiglio di famiglia, a gran pezza migliore d’ogni altro che potrebbe darle la legge; perchè a voi non occorrono articoli di codice, e l’amicizia, l’onore, sono i più sicuri canoni di giurisprudenza del mondo.

«Addio, Aloise, mio avversario di un’ora, e mio amico di tutta la vita; e se non avessimo a vederci più, dite alla gentile Maria che mi perdoni questa diserzione della custodia che m’aveva affidato mio padre; ed ella, e voi, e l’Assereto, amate un pochino la memoria del vostro, infelice1 ma non immemore,

«LORENZO SALVANI


Ciò scritto, rasciugò due lagrime che erano venute fuori ad offuscargli la vista; chiuse il foglio nella sopraccarta, e vi scrisse sopra:


«Al marchese Aloise di Montalto. Sue mani.» [p. 353 modifica]


In quel mentre, capitava sull’uscio dello studio il Pietrasanta, già vestito a mezzo, anzi per due terzi, poichè aveva già fatto il nodo della cravatta, opera capitale nella acconciatura d’uno zerbinotto par suo.

- Così presto? - chiese Lorenzo.

- O che, credete ch’io non sappia fare alla svelta, quando occorre? Son venuto in maniche di camicia, temendo che aveste già finito da un pezzo e vi annoiaste ad attendermi.

- No; appunto ora ho finito di scrivere.

- Tanto meglio. Venite dunque; metto la corazza, il sorcotto, e il cimiero, e sono ai vostri comandi. -

La corazza era il panciotto, come i lettori avranno già indovinato; il sorcotto era una attillata giacca di velluto; il cimiero un cappellino di paglia, fasciato d’una larga fettuccia nera, i cui capi pendevano svolazzanti fuor della tesa, ma non tanto da nascondere la discriminatura delle chiome, che scendeva diritta e sottile fino al basso della nuca.

Come si fu vestito di tutto punto, prese dalle mani del servitore la sua mazzetta di giunco indiano, col pomo d’argento, e il fazzoletto imbevuto d’acque odorose; quindi dalle mani dell’amico la lettera, che ripose accuratamente nel portafoglio, ed ambedue uscirono sulle scale.

Giù nel portico era già la carrozza ad attendere, col suo cocchiere gallonato a cassetta, collo staffiere allo smontatoio, e una coppia di cavalli rovani che scalpitavano, aspettando il segnale del loro automedonte.

- A rivederci, dunque, se non venite anche voi per un tratto di strada con me.

- No, debbo scendere verso Banchi; a rivederci, e grazie!

- Che! che! faccio un po’ di moto. A stasera, Salvani.

- Stasera! - ripetè macchinalmente Lorenzo. E fatto un ultimo saluto all’amico, se ne andò pedestre verso una delle strade inferiori della città.

- Eccellenza, dove si va? - chiese lo staffiere che era salito a cassetta, daccanto al cocchiere.

- Veh che bestia! Io, s’intende, non tu! A Quinto, villa Vivaldi; e di buon trotto! -


Note

  1. Nell’originale "infefelice".