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Il Ciclope (Euripide - Romagnoli)/Introduzione

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Introduzione

Il Ciclope (Euripide - Romagnoli) ../Personaggi IncludiIntestazione 6 maggio 2022 100% Da definire

Euripide - Il Ciclope (415 a.C. / 413 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1931)
Introduzione
Il Ciclope Personaggi
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Del dramma satiresco ho già parlato nella introduzione a I Satiri alla caccia di Sofocle (Sofocle, vol. III). E quivi ho anche riferiti i principali frammenti superstiti dei drammi satireschi di Eschilo e di Sofocle.

Ma l’esempio piú cospicuo rimane pur sempre Il Ciclope di Euripide; e neanche trascurabili sono i frammenti di altri suoi drammi satireschi.

Vediamo l’Euristeo, per esempio; che figurava la discesa di Ercole all’Averno, per comando dell’empio tirannello.

In un’idria di Cere vediamo Euristeo che s’è cacciato in un píthos, una grossa damigiana di coccio, simile a quella che Diogene elesse a domicilio per star lontano dalla tristizia umana (Fig. 1). Ma il codardo signore vi cercava riparo da un pericolo assai piú prossimo e concreto. Cerbero, il terribile cane d’Averno, ricondotto da Ercole alla luce, gli si avventa contro, spalancate le tre gole, e protese le sei unghiutissime zampe. L’eroe di Tebe lo tiene, è vero, al guinzaglio; ma non sembra che ciò rassicuri troppo il malcapitato; perché alza le braccia, e strilla, in preda al piú pazzo spavento.

Un’aura poco dissimile dové aleggiare sul drammetto d'Euripide. In una scena si rappresentava, sembra, la partenza dell’eroe. Il quale, per quanto spericolato e sicuro di sé, non [p. 232 modifica] presagiva nulla di buono da questa nuova avventura. E rampognava il tiranno, che ve lo costringeva1:

371

Tu mandi all’Orco un vivo, e non un morto:
è per me, questo, l’ultimo viaggio.


Fig. 1 - Euristeo spaventato alla vista di Cerbero.

Ma parrebbe che la maggior parte dell’azione si svolgesse dopo l’inatteso e prodigioso ritorno.

Per cominciare, c’era un vecchio, il quale, sapendo che Ercole era disceso nell’Averno, e credendolo, dunque, bello e spacciato, si meravigliava di trovarselo davanti piú vivo di prima. Ma un burlone — Sileno, probabilmente — gli dava ad intendere che quello non era Ercole, bensí un suo simulacro semovente, fabbricato dal celeberrimo Dèdalo: [p. 233 modifica]

372

Vecchio, non c’è da spaventarsi: sembrano
muoversi tulle e favellar, le statue
di Dèdalo. Eh, quell’uomo era un portento.


Qualcuno narrava poi le prodezze compiute da Alcide contro i mostri infernali; e, tra l’altro, con che sistema aveva trionfato dell’Idra, recidendone le molteplici teste:

373

Lungi col ferro della negra spada
le tenea, le falciava al par di spighe.


Naturalmente, in sede di dramma satiresco, l’eroe non si trovava solo. Gli stavano a fianco, o fossero partiti con lui dalla terra, o li trovasse nell’Ade, i petulanti satirelli, e il loro degno maestro, Sileno. E questi, al solito, passava qualche guaio. I mostri d’Averno, probabilmente, gli pestavano il grugno. E i poco caritatevoli figliuoli gli offrivano la solita consolazione di canzonature:

374

Che lividi t’han fatto, eh, sotto gli occhi!
Una coppa hai da metterci, un setaccio2.


Accanto alle buffonate, non mancava qualche spunto serio. Ercole, come si sa, era figlio spurio: putativo di [p. 234 modifica] Anfitrione, e in effetto di Giove. Questo particolare soleva offrire argomento di risa alla commedia; ma qui, invece, un personaggio osservata: Fig. 2 - Ercole distrugge la vigna di Silèo.}

377

A marcio torto gli uomini non vogliono
procreare bastardi: il solo nome
non può render dappoco un valoroso.


Qualche cosa di piú possiamo dire del Sileo, di cui Filone Giudeo ci riferisce l’argomento e qualche brano.

Sileo era un signore di Lidia, che costringeva tutti i viandanti a zappar la sua vigna. Secondo la leggenda, rispecchiata da parecchie figurazioni vascolari, ci capitò anche Ercole; e glie la zappò in modo da fargli passar per sempre la voglia di fare il prepotente (Fig. 2). [p. 235 modifica]

Ma nel drammetto d’Euripide le cose procedevano un po' diversamente. Ermete era incaricato, non sappiamo da chi, né perché, di vendere come schiavo a Sileo l’eroe di Tebe. E possediamo tuttora in parte la scena della vendita.

Sileo, prima di vedere il nuovo servo, domandava se per caso non fosse robaccia. Ed Ermete lo rassicurava.

688

Robaccia? Affatto! Devi dir l’opposto!
Dignitoso d’aspetto, e non meschino,
né tutto pancia, come sono i servi;
ma, lo vedessi, tutto lindo e pinto.
Ed un randello ha, poi, che fa’ miracoli.


Ma quando Ercole si presentava, quella «dignità» d'aspetto non convinceva affatto Sileo.

sileo


Chi mai vorrà tirarsi in casa un servo
piú padrone di lui? Tu, chi ti guarda
trema: hai lo sguardo tutto fiamme, come
toro che aspetti d’un leone il cozzo.


Né Alcide si dava cura di fargli mutare opinione. Sicché l’altro insisteva:

Lo stesso aspetto tuo t’accusa: stai
zitto, come ubbidir non mi volessi,
ma far tu da padrone, io da domestico.


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E, perseverando Ercole nel suo silenzio, il signore ricorreva a qualche minaccia. Ma sul figliuolo di Giove facevano poca presa.

ercole


Venga pure la spada, il fuoco venga,
ardi, le carni bruciami, rimpinzati
bevendo il negro sangue mio: ché prima
sprofonderanno entro la terra gli astri,
e s’alzerà nell’ètere la terra,
che il labbro io pieghi a motto adulatore.


Tuttavia, Sileo s’induce a comperarlo, e lo manda a lavorar la vigna. E mal glie ne incoglie. Ercole sbarbica le viti, ne fa un bel mucchio, e, col pretesto d’offrire un sacrificio a Giove, sgozza il bove piú pingue, e lo fa arrosto. E sfonda poi l’uscio di cantina, e adopera per tavola le imposte, e stappa il tino piú grosso, e mangia e beve e canta. Arriva Sileo; ma Ercole non si fa né in qua né in là: anzi lo sfida a chi trinca di piú.

691

Siedi, e beviamo; e aver di me potrai
súbito un saggio, se di me piú vali.


Come nel mito finisse la storiella, è variamente narrato. Ercole, o sviava dall’alveo un fiume, e faceva sommergere ogni cosa; o accoppava Sileo e la figlia. Ma nel drammelto d’Euripide, la soluzione era meno tragica. Lo dimostrano due frammenti. Il primo ha l’aria d’una esortazione erotica: [p. 237 modifica]

694

Entriamo, andiamo a letto. Eh via, rasciuga
quelle lagrime!


Anche piú equivoco è l’altro:

693

Svegliati, andiamo, su, piòlo caro,
móstrati audace.


Interessante è una tirata che troviamo nell’Autolico contro gli atleti: una specie di parafrasi della nota elegia di Senofane.

282

Mille malanni e mille affliggon l’Ellade,
ma di tutti è l’atleta il piú pestifero.
Prima, non sanno, ed imparar non possono
a stare al mondo. E come, infatti, un uomo,
schiavo del ventre e schiavo della gola,
potrebbe accrescer mai l’asse paterno?
Né povertà sopportano, né sanno
alla sventura rassegnarsi: l’animo
lor, non temprato, a malincuore lascia
la lieta sorte per l’avversa. Brillano,
pompa della città, finché son giovani;
ma come giunge la vecchiezza amara,
gabbani lisi, sputano la trama.
Ed il costume degli Elleni io biasimo,
che s’adunan per essi, e questi insipidi
piacer’, per farci su banchetti, onorano.

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Quale gagliardo lottator, quale uomo
di piè veloce, chi, lanciando il disco
o scazzottando a stile d’arte un viso,
con le corone sue salvò la patria?
E che? tenendo nelle mani un disco,
pugnano coi nemici? E percotendo
gli scudi un contro l’altro, lungi tengono
l’invasor dalla patria? Eh via, che all’armi
non s’accostano, no! Pazzi non sono!
Convien di foglie ghirlandare gli uomini
saggi e dabbene, e chi la città guida
con giustizia e con senno, e lunge i mali
tien coi savî consigli, e sa sventare
rivolte e zuffe. Tali doti giovano
ai cittadini e a tutte le città.


Ed eccoci al Ciclope, che, a parte il suo pregio intrinseco, serve a darci assai bene un’idea delle leggi che i poeti imponevano a sé stessi componendo un dramma satiresco (Figura 3).

Una delle norme principali era quella ricordata in un luogo famoso dell’arte poetica d’Orazio:

Ne quicumque Deus, quicumque adhibebitur heros
regali conspectus in auro nuper et ostro
migret in obscuras humili sermone tabernas.

A questa norma non si attenevano davvero i poeti comici, quando nelle loro commedie introducevano Numi ed eroi. Basta ricordare l’Ermete de La Pace e l’Ercole de Gli Uccelli d’Aristofane, e, soprattutto, il Diòniso de Le Rane, perfettissimo esempio di buffonaggine e di pulcinellismo. [p. 239 modifica]

E, a proposito del Ciclope, possiamo istituire un confronto anche piú preciso, con l’Ulisse, commedia di Cratino, che trattava il medesimo argomento.

Nell'Ulisse, quando l’eroe tendeva al Ciclope il noto tranello, lo insaporiva con la seguente beffa3: Fig. 3 - Ulisse e i suoi compagni si apprestano ad accecare il Ciclope.

141

To’, dunque, adesso prendi e bevi questo;
e dopo il nome mio chiedimi: presto!


E poi, il Ciclope gli diceva di saper da una predizione che un certo figlio di Laerte l’avrebbe accecato; e gli chiedeva se, girando il mondo, si fosse per caso imbattuto in lui (136):

ciclope


Dimmi, quell’uomo l’hai veduto mai?

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ulisse


Chi? Di Laerte il prediletto figlio?
L’ho visto a Paro: comperava un grosso
cocomero da semi.


Simili burlette, l’Ulisse di Euripide non se le permette. Anzi, dalla prima all’ultima parola, mantiene la dignità eroica. La mantiene, possiamo soggiungere, piú che nei drammi tragici.

La parte buffonesca è dunque affidata interamente ai satiri, a Sileno, al Ciclope.

La comicità satiresca era diversa, s’intende, per ciascun poeta, anzi per ciascun dramma. Pure, un esame un po’ diligente dei frammenti, fa presto vedere che nel dramma satiresco, come nella commedia, ci fu molta convenzione e molta ripetizione: e che anche prevalsero i grossolani motivi cari alla vetustissima farsa popolare e alla commedia attica.

Per cominciare dai lazzi piú volgari, ecco il Ciclope di Euripide, che dichiara di rispondere ai tuoni di Giove come Strepsiade a quelli delle nuvole.

E nel Chedalione di Sofocle si parla di uno che:

305

per la paura, sino il condimento
ha rifatto.


E nel Salmonèo, anche di Sofocle, i satiri che non prendevano troppo sul serio i tuoni artificiali dell’eroe fanfarone, commentavano:

495

Or or ti coglie l’alito fulmineo
del tuono e della puzza.


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Anche predilette della farsa popolare e della commedia attica erano le scene in cui si mangiava e si beveva. E personaggi che ingollavano e cioncavano senza economia c’erano un po’ dappertutto anche nei drammi satireschi. Ercole a capofila, si capisce. Nell’Onfale, di Ione, si preparava un gran banchetto; e l’eroe

29

per la gran fame, anche carboni e gòmene
mandava giú.


E non meno gagliardo come bevitore. La sua tazza era sempre vuota:

26

Vino non ce n’è piú, dentro la coppa!


Tanto che il coppiere si scandalizzava:

27

Hai già bevuto! Oh asciuga la corrente del Pattòlo!


E un personaggio dell’Etone di Acheo, enunciava la seguente massima arlecchinesca:

6

Non vive, in pancia vuota, amor di giovani:
Cípride sa d’amaro agli affamati.


Nello stesso dramma c’era il seguente dialogo (9): [p. 242 modifica]

a


E c’era mescolata acqua dimolta?

b


Da non poterci avvicinar la lingua.

a


Bel sugo, allora, portar qui le tazze!


E nell’Efesto, dello stesso Acheo, si preparava un pranzo in piena regola.

a


T’hai da godere prima il pranzo: è pronto.

b


E come vuoi deliziarmi, dopo?

a


T’ungerò prima d’odorosa mirra.

b


Non mi dài, prima, l’acqua per le mani?


La paura inconsulta, altra gran risorsa della commedia dei burattini, sta a casa sua nel dramma dei satiri fannulloni e vigliacchi. Nel Ciclope, a parte lo spavento generale all’arrivo del mostro, è gustosissima la scenetta in cui, dopo [p. 243 modifica] tante fanfaronate, trovano mille spedienti per non prender parte al pericoloso giochetto che doveva costar la pupilla al Ciclope. In un altro lavoro, un satiro mandava accidenti ad Ercole, e minacciava mari e monti; ma al primo avvicinarsi dell’eroe si dava alla fuga (Aristide, 46, 2, 310). E assai spesso l'intero coro dové compiere la brillante manovra che vediamo in una vivace rappresentazione ceramica (Fig. 4). Fig. 4 - Coro di satiri spaventati.

Della salacia, superfluo parlarne. Molti brani del Ciclope, la scena delle sofoclee Nozze di Elena, in cui i satiri tentavano di mettere in pratica quanto vagheggiano nel Ciclope, il vaso di Brygos, ed altri affini parlano abbastanza chiaro.

E cosí, senza andar piú per le lunghe, è da farsa il cantar canzoncine popolari, come fanno i satirelli all’arrivo del Ciclope ubriaco; e il frigido scherzar sulle parole, che giunge al culmine quando il Ciclope impone ai satiri di guardare in su, cioè di guardarlo in faccia, e quelli si mettono addirittura a contemplare il cielo. Insomma. se da un lato il dramma satiresco si manteneva al livello eroico, dall’altro discendeva sino alla farsaccia da piazza. E in questo miscuglio consisteva certo una delle sue principali caratteristiche. [p. 244 modifica]

Ma questi erano elementi greggi, materia offerta e proposta all’artista. Naturalmente, l’importante era il sigillo speciale che in essa ognuno di loro sapesse imprimervi.

Ed ora, dopo la scoperta dei Satiri alla caccia di Sofocle, possiamo anche istituire un confronto, elemento sempre prezioso per il giudizio.

Io già cercai di rilevare il carattere del drammetto di Sofocle, e di mettere in luce quanto scapiti per ogni verso di fronte al Ciclope di Euripide. Il Ciclope esercita sul nostro spirito un incomparabile fàscino; e potei averne la prova obiettiva nel caldo successo che accompagnò la sua rappresentazione a Milano, a Padova, a Siracusa. Gli spettatori ci si divertono come fosse scritto oggi (da un drammaturgo di talento, si capisce).

E al solito, questo fàscino dipende da una egregia concezione e realizzazione di caratteri.

Abbiamo parlato di Ulisse, eroe magnifico e simpatico, tanto valoroso quanto giusto ed eloquente.

A contrasto con lui, Sileno, perfetto tipo di Pulcinella, ma Pulcinella arguto, e non già melenso, come il suo collega dei Satiri alla caccia. Potrebbe figurare senza disdoro accanto ai piú indiavolati personaggi di Aristofane.

Concezione di prim’ordine è anche il Ciclope. Non semplice buffone, ma creatura piena di significato. È il bestione primitivo, quale può immaginarlo una mente filosofica indipendente e fantasiosa. Rappresentante delle pure forze di natura. Privo di lume divino, ma tutt’altro che destituito di comprendonio. Anzi, una volta ammessa la sua concezione materialistica della vita, la sua filosofia, espressa con parole tanto fluide ed eloquenti, non fa una grinza. Ricorda, a tratti, L’uomo sicuro di Mörike. Dunque, creatura nata nel crogiuolo [p. 245 modifica] della filosofia; ma realizzata con la potenza creativa di un artista che sapeva infondere nei suoi personaggi sangue, muscoli e nervi.

E, infine, e non ultimo, il satirello. Che qui non è solamente un volgare scioperato lascivo e ghiottone, ma è capace di sentire tutto l’incanto della montagna, della sorgiva, della selva profonda. Creatura primitiva, al pari del Ciclope; ma nella quale l’istinto serve anche a penetrare con spirito fraterno i misteri della natura, oscuri ed opachi agli spiriti troppo inciviliti.

Questa concezione trovava la sua naturale culla nei riti dionisiaci. Ma nessun altro poeta, se non lo stesso Euripide, ne Le Baccanti, seppe incarnarla in versi cosí freschi e suggestivi. Per trovare qualche cosa di simile dobbiamo discendere al Caliban di Shakespeare.

Anche esso è, come i suoi fratelli in Euripide, pigro, ghiotto e lascivo. Ha dimostrata la sua riconoscenza a Prospero tentando di violare Miranda; e ai rimproveri del principe risponde:

               Oh, se mi fosse
venuta fatta! Tu me lo impedisti:
popolata, se no, l’isola tutta
avrei di Calibani.

Anche esso è, come i Satiri, appassionatissimo del vino. Gli era ignoto, come al Ciclope. Ma quando Stefano glie lo fa gustare, prende per Numi lui e il buffone Trinculo.

Son belle creature, anche se spiriti
non sono: è questi un Nume bello e buono,
e celeste il licor che reca: voglio
inginocchiarmi avanti a lui.

[p. 246 modifica]

E, crescendo l’entusiasmo4:

Sopra questa bottiglia io giuro súbito
d’esserti fido suddito: perché
non è cosa mortal questo licore.

Sembra di leggere la scena fra il Ciclope e Sileno.

Ma, al pari dei Satiri, anche Caliban sente profondamente l’incanto della campagna, e lo esprime con immagini e versi pieni di colore e di freschezza incantevoli:

Fa’ ch’io ti guidi dove le melúggini
crescono fitte: con l’unghie mie lunghe
per te rizòmi scaverò: di gracci
voglio indicarti un nido, ammaestrarti
a insidiare l’agil marmottino:
poi vo’ recarti ai grappoli fioriti
dell’avellana, e sniderò per te
dalla rupe gabbiani: andiamo, dunque.

La concezione di Shakespeare è, certo, indipendente. E se può valere come una delle mille testimonianze del suo genio, può anche dimostrare, per riflesso, la modernità del genio di Euripide.

Su questi quattro «caratteri», il primitivo brutale e grossamente razionale, il primitivo sensibile e poetico, il buffonesco, e il puro eroico, è fondata l’architettura del Ciclope, agile, quasi vegetale. I loro sviluppi, rami e ramicelli molteplici e floridi, s’intrecciano vaghi e bizzarri, con varissimi effetti di contrasti, e formano quasi un fitto fragrante [p. 247 modifica]cespuglio, dove brillano e olezzano uno accanto all’altro il cardo e la pervinca, il pugnitopo e l’albaspina. Ma quel fresco disordine riesce assai piú gradito di qualsiasi composizione geometrica.

E in questo miscuglio sono sparite, come già nell’Alcesti, tutte le ibridità che, in misura piú o meno sensibile, si insinuano in quasi in ogni altro dramma d’Euripide, anche nei capolavori.

Ed è questa la ragione principale per cui le avventure del monocolo pastore etnese, esposte da Euripide, esercitano ancora tanto fascino sui nostri modernissimi spiriti.


Note

  1. Cito i frammenti secondo l’edizione del Nauck (2).
  2. Forse come ventose. O forse come ripari; anche negli Uccelli d’Aristofane (361) si consiglia una simile arma difensiva.
  3. Cito i frammenti secondo l’edizione del Kock.
  4. Il passo che segue nel testo è in prosa. Ma comincia con andamento di verso; e credo che originariamente fosse in versi.