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Il Libro dei Re - Volume I/I primi Re/V

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I primi Re - V. - Leggenda di Dahâk e del padre di lui

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I primi Re - V. - Leggenda di Dahâk e del padre di lui
I primi Re - IV I primi Re - VI
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V. Leggenda di Dahâk e del padre di lui.

(Ed. Calc. p. 22-25).


     735Visse a que’ tempi un uom gagliardo in quelle
D’astati cavalieri ampie campagne,
Re possente e magnanimo e nel core
Per timor dell’Eterno umile e pio.
N’era Mirdàs l’inclito nome, e ad alto
740E nobil grado era ei salito, in opre
Di giustizia e di grazia. Alle sue case
S’accogliean da ogni parte al tardo vespro
E mandre e greggi a mille a mille, e capre
E cammelli e giovenche e bianche agnelle,
745Che il giustissimo prence a’ mungitori
Fidate avea. Vacche lattanti ancora
Ed arabi destrier, leggiadramente
Discorrenti pel campo, a’ servi suoi
In custodia ei lasciava; e chi di latte
750Avea brama da lui, liberamente,
Secondo il suo desìo, stendea la mano.
     Quell’uom preclaro un solo figlio avea,
Segno di molto amor. Del giovinetto,
Di gloria amante, era Dahàk il nome;
755Ed ei crescea gagliardo, impetüoso

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Nelle sue voglie e senza tema in petto.
Ma la gente il chiamava Biveraspe
In pehlèvica lingua. Or, tra le cifre
Pehlèviche, bivèr val diecimila
760Nell’odierno sermone, e per che il prode
Giovinetto si avea ben diecimila
Arabi corridor con auree briglie
Entro a sue stalle, da bivèr gli venne
Inclito il nome. Di tre parti due
765Degli arabi destrieri, e notte e giorno,
Reggean le selle, e ciò si fea per fasto,
Non per battaglie o assalti. E avvenne un giorno,
Al primo albor che in orïente appare,
Che Iblìs ne venne a lui con le sembianze
770Di dolce amico, e il cor del giovin prence
A un tratto fuorvïò dal suo cammino
Giusto e leal, chè a’ detti suoi l’orecchio
Diè il giovinetto. Gli piacean le belle
Parole e il savio favellar di lui,
775Chè dell’opre sue triste ei nulla seppe.
Ond’ei, la mente gli donando e il core
E l’alma sua sì bella e pura, in danno
Aperto a cader venne. E quei, veggendo
Che il cor gli dava quell’incauto e gioia
780Infinita si avea per l’arti sue,
Molti detti fe’ acconci e fe’ lusinghe,
Chè vuota del garzon d’ogni scïenza
Era l’alma inesperta. Oh! molte cose,
Dissegli, figlio mio, conosco io solo,
785E son sì belle, e niun n’ha esperïenza!
     Parla, rispose il giovinetto, e tanto
Non t’indugiar, ma ciò che sai m’insegna,
Tu che hai nobil consiglio! — Iblìs rispose:
     Patto ti chieggo in pria; poi lealmente
790Ti svelerò le cose belle e vere.
     E semplice ed incauto era il fanciullo,

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E a quel cenno obbedì, sì che tremendo
Fe’ un giuro innanzi a lui, quale il maligno
Avea richiesto: Non fia mai ch’io sveli
795Il tuo secreto ad uom vivente. Detto
Ascolterò che tu a me dir vorrai.
     O prence, a che nelle tue case, ei disse,
Altro dovrìa signor, da te diverso,
Sedendo governar? Perchè dovrìa
800Esservi un padre, quando è pur tal figlio?
Deh! ascolta un detto mio. Lunga è la vita
Che a questo antico padre tuo rimane
Ancora in terra. Ma tu ascoso e gramo
Passi i tuoi giorni. Tu ne afferra il trono,
805Chè ti convien suo grado eccelso in questa
Natìa tua terra. Se tu intatta presti
Fede al mio dir, prence sarai del mondo.
     Come ascoltò, Dahàk si fé’ pensoso,
Chè pien d’affanno fu quel cor pel sangue
810Del padre antico. Oh! non è degna cosa,
A Iblìs gridò, cotesta! Altro favella,
Chè ciò che di’, far non si dee per noi!
     Se dal mio dir lungi ten vai, rispose,
Se ti volgi da patti e giuramenti,
815Peso rimanga sulla tua cervice
Del giuro infranto. Vile tu sarai,
Sarà in pregio ed onor quel padre tuo!
     Ma già ne’ lacci suoi tratto il maligno
Avea l’arabo prence, ond’ei ben tosto,
820Obbedïente al suo comando, in questa
Guisa l’interrogò: Dimmi qual arte
Adoprar si convien; dimmi qual via.
Scuse o protesti non cercar! — Rispose
Iblìs allor: Bada! quest’arte io solo
825Adoprerò, per ch’io sollevi in alto
In fino al sole il capo tuo. Soltanto
Altissimo serbar sull’opra mia

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Un silenzio tu dêi. Nè mi fa d’uopo
D’alcun mortal la valevole aita.
830Ciò che far si dovrà, per me con molto
Studio farassi; tu dalla guaina
Del favellar non togliere la spada.
     Avea l’antico re nel suo palagio
Un ameno giardino, esilarante
835Il cor del vecchio prence. Ogni mattina,
Sorgendo al primo albor, per far sue preci
Ei s’apprestava, e in quel giardin la fronte
E le membra lavar nascostamente
In un’onda solea, nè gli recava
840Alcun servo fedel dietro a’ suoi passi
Chiara lampada accesa. Il Devo tristo,
In suo malo consiglio, una profonda
Fossa cavò sul rapido sentiero;
Iblìs malvagio con vilucchi ed erbe
845Coprì a sommo la fossa alto scavata,
E la via ne appianò da tutte parti.
Venne la notte, e l’inclito signore
Dell’arabe contrade al suo giardino
Tacitamente volse il pie. Ma, giunto
850Quand’ei fu all’orlo della cupa fossa,
Precipitò la sorte sua sì lieta
Di prence e di signor, chè dentro ei cadde
All’occulta voragine profonda
E nell’alta caduta infrante e peste
855Ebbe le membra. Là mori quel grande
Fedele a Dio, d’integro cor; quel prence,
Nella propizia e nella rea fortuna
Libero e grande, che gemè pur tanto
Pel giovinetto figlio suo, che un giorno
860L’allevò con carezze e con fatiche,
Per lui fu lieto, e tesori gli porse,
Là si giacque e morì. Ma il figlio suo,
Stolto e malvagio, non cercò del padre

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Per via d’amore, non l’amistà nè il patto,
865E complice si fe’ del tristo Devo
Contro al sangue paterno. Io bene udii
Da un saggio antico che del padre il sangue
Mai versar non osò figlio malvagio,
Fosse pur figlio di leon feroce.
870Se diversa natura egli ha nascosta
In fondo al core, nella madre sua
Si dee cercar cotal secreto. Figlio
Che natura lasciò del padre suo,
Non dirai figlio, ma il dirai straniero.
     875Con tal arte così del padre suo
Dahàk ascese impetuoso il trono,
Dahàk malvagio. In fronte ei si ponea
La corona degli arabi guerrieri
E fra lor dispensava a quando a quando
880Grazie e favori e offese. Iblìs, che tutto
Vedea compiuto il suo desìo perverso,
Ad altri inganni rivolgea la mente.
Poi che a me ti se’ volto, ei disse allora
Al giovine signor, vedi?, toccasti
885Tu del tuo core ogni desìo! Se fede
Al mio comando serberai, se il patto
Non scorderai con me fermato e quanto
Io ti dirò, non niegherai, quest’ampia
Terra fia tua per quanto gira intorno,
890Tuo sarà su le belve e gli animanti
E sui pesci del mar, sovra gli augelli,
Su le stirpi dell’uom, l’alto dominio.
     Disse, e novella meditò un’astuzia
E a nuove cose, oh meraviglia!, il facile
895Pensier rivolse. In vago giovinetto
Ei mutava il sembiante, e avea leggiadra
La persona gentil, nobil favella
E mente astuta e penetrante. Ei venne
Nella presenza di Dahàk superba.

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900E sul labbro vezzoso era un sol detto
Di molta lode al suo signor. Se il mio
Prence, gli disse lusingando, alcuno
Gradimento ha di me, l’arte io posseggo
Studiata de’ cibi, e onor men venne.
     905L’udì meravigliando e onor gli fece
Dahàk possente e per quell’arte sua
Orrevol loco entro a sue case antiche
Gli destinò. Gli dava il maggiordomo
Ampio poter su la regal cucina;
910E poi che scarsi erano ai prischi tempi
I cibi e minor copia eravi allora
Di ciò che l’uom ne’ giorni suoi si mangia,
Ahrimàn truculento entro al suo core
Uccider si pensò con man perversa
915I docili animanti. Al suo signore
Ei diede in pria novello cibo, ed ova
Eran coteste. All’inusato cibo
Nuovo gli diè vigor per alcun tempo;
Ma in ordin poi di più diverse carni
920Vivanda gli apportò nuova e gradita,
Di carni di quadrupedi e di augelli
Della campagna. Qual lïon selvaggio
Di sangue ei lo nutria, che dispietato
Volea quel cor. Così, con pronta cura,
925Ei l’obbedìa costante, e schiava a lui
Era quell’alma. Si cibava il sire
E fea sue lodi al giovinetto, e assai,
Stolto e infelice!, ne traea diletto.
     Vivi eterno, o gran re!, dissegli un giorno
930Iblìs incantator. Tale vogl’io
Diman recarti su la mensa un cibo,
Che più forte sarai, tanta fia in esso
Virtù riposta, a sostentar propizia.
     Disse, e partì. Tutta la notte allora
935A pensar si restò qual nuovo cibo

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Apprestar si dovesse alla dimane,
Degno di meraviglia; e al dì che venne,
Allor che questo sol fulgido apparve
Nella vôlta del ciel sereno e puro,
940Di giovani pernici e di fagiani
Che han bianche penne, una vivanda ei fece.
Venne con quella, e nuova speme il core
Balzar gli fea. Stese la man bramosa
Degli Arabi il signor lieto e festante
945Alla mensa imbandita, e la sua mente,
Priva di senno, all’amor suo pel vago
Giovinetto più e più vinta ei lasciava.
Iblìs, al terzo dì, carni d’augelli
E d’agni ancor lattanti, in strana guisa,
950Le mense gli adornò; ma al quarto, al tempo
Che la mensa egli appose, i pingui lombi
Gustar gli fe’ di tenera giovenca,
E v’eran dentro acqua di rose e biondo
Zafferano odoroso e intatto muschio
955E vino espresso da molt’anni assai.
     E Dahàk ne gustò, la man porgendo
Alle dapi novelle, in fin che molta
Gli entrò nel cor per quell’acuto ingegno
La meraviglia. Oh! vedi tu, gli disse,
960Qual desiderio dimandar più vuoi;
E questo chiedi a me, dolce mio amico!
     De’ cibi il facitor così rispose:
O re, viver tu possa eternamente
Lieto, nel voler tuo libero e sciolto!
965Ma pieno è questo cor per te d’amore,
E a quest’anima mia forza e sostegno
Son nel tuo viso. Presso al mio signore
Sta un voto mio, ben che di me sì grande
Non sia pregio o virtù. Comandi il sire
970Ch’io baci a sommo gli omeri di lui,
Gli occhi v’apponga e il volto mio! — Que’ detti

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Come intese Dahàk, la sua secreta
Intenzïon non riconobbe e disse:
     Questo desìo sì ti concedo; e forse
975Il nome tuo ne piglierà grandezza.
E lasciò che sull’omero il baciasse
Il tristo Devo, qual l’amico suo;
E quei baciollo, indi sparìa sotterra
Con immenso fragor. Sì orrenda cosa
980Quaggiù non vide mai nato mortale.
     Usciro allor dagli omeri baciati
Due negre serpi. Sbigottì a tal vista
L’arabo prence e al nuovo mal riparo
Da ogni parte cercò. Dalle sue spalle,
985Dopo molto tentar, un dopo l’altro
Li recise ei col ferro. Oh! ben si dee
Meravigliar chi ascolta il tristo caso,
Chè, recisi, brandîrsi un’altra volta
Sovra le spalle sue, sì come rami
990D’alberi antichi, i due negri serpenti,
E gl’indovini entràr, di medic’arti
Esperti e dotti. Ei dissero sentenze,
Questo a quello parlò, tutti gl’incanti
Fûr posti in opra, ma riparo al nuovo
995Inaudito malor non si rinvenne.
     Iblìs allor, qual medico sapiente,
Là su la soglia apparve. Al suo signore
S’accostò con gran cura e intento disse:
Ciò che accader dovea, s’avvera e compie
1000In questo dì. Ma tu desisti; mietere
Ciò che cresce, non dêi. Cibi t’appresta
E con que’ cibi sopimento induci
Negli orridi serpenti. Oh! questo solo
Fia riparo al tuo mal. Cervella umane
1005Tu appresta lor, non altro cibo, e forse
A morte li addurrà il fiero alimento,
E tu libero andrai. Ma poi che solo

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È uman cerèbro lenimento a questo
Morbo sì strano, lagriraar n’è d’uopo
1010E pel mal che t’incolse e per sua cura,
Chè ogni giorno per te due giovinetti
Spenti cadranno, e tu, tronche lor teste,
Ne trarrai le cervella. — Oh! che mai volle
Quel dei Devi signor con tal proposta?
1015Che volle e che cercò, qual mai disegno
Vide in sua mente ria, se non che un’arte
Trovar potesse ascosa, onde restasse
Vuota la terra d’ogni stirpe umana?