Il Libro dei Re - Volume I/I primi Re

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I primi Re - Gayûmers, Hôsheng, Tahmûras, Gemshîd

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I primi Re - Gayûmers, Hôsheng, Tahmûras, Gemshîd
Introduzione Il re Dahâk
I primi Re - Gayûmers, Hôsheng, Tahmûras, Gemshîd
Introduzione - XII I primi Re - I
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I PRIMI RE

Gayûmers, Hôsheng, Tahmûras, Gemshîd

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I PRIMI RE

Gayûmers, Hôsheng, Tahmûres, Gemshîd.


I. Il re Gayûmers.

(Ed. Calc. p. 11-14).


     L’uom de la villa in favellar maestro
Qual mai primo dicea che gloria e grado
Si cercasse nel mondo e regal serto
In fronte si ponesse? — Ecco, nessuno
5De’ prischi tempi sa narrar le cose,
Fuor di colui che giovinetto ancora
Dal padre le ascoltò, le serba in mente,
E a te le narra ad una ad una, quali
Dal padre suo le udì, ben ricordando
10Chi regal nome da principio ottenne
E chi grado maggior s’ebbe fra i prenci.
     Quei che cercò l’antico libro, dove
Tutta si narra la mirabil storia
De’ prischi eroi, già disse che del trono,
15Della corona l’inclito costume
Gayumèrs ritrovò, ch’egli fu primo
Re de’ mortali. Allor che in Arïète
Questo sole ascendea, mentre la terra
Vestìa nuovo splendor, beltà novella.
20Poi che dall’alto più cocenti i rai
Scendean del sol nell’Arïète, e un’aura
Di giovinezza penetrò la terra,

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Gayumèrs fortunato ebbe sul mondo
E regno e potestà. Sovra erto monte
25Locata avea la semplice sua stanza,
E sorse da quel monte la fortuna
De’ suoi tutta e di lui. Ferine pelli
Ei si vestì con la sua gente, e il primo
Cibo venne da lui, chè vesti e cibi
30Erano ignoti in pria. Tenne suo regno
Gayumèrs per trent’anni, ed era bello
Sì come sole, e in trono risplendea
Sì come luna al quindicesmo giorno
Sovra un alto cipresso. A piè del trono
35Venìan tranquille a riposarsi, appena
Il vedeano così, le fiere a torme,
Ed ogni belva ossequiosa innanzi
Al suo seggio venìa per quella sua
Inclita sorte e maestà di sire,
40E prestavangli omaggio, e di lor vita
Prendean norma dal loco alto e sovrano.
     Solo un figlio ei si avea, leggiadro e vago,
Ricco di pregi e, come il padre suo,
Disïoso di gloria. Era il suo nome
45Siyamèk, e felice era e gagliardo
Il giovinetto, e il cor del padre suo
Palpitava per lui, per lui soltanto
Godea la vita, chè fiorenti e carchi
Esser dovean di dolci frutti i rami
50Di quell’arbore eletto. Eppur, gemea
Per lui nell’alma sua piena d’amore
E si dolea per tema che un avverso
Destin rapisse il figlio suo, chè questa
È del mondo la legge e suo costume
55È questo. Il padre ne’ gagliardi figli
Ha possanza ed onor. — Tempo trascorse
Da quel giorno così, mentre splendea
Del nobile signor l’inclita gloria.

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     In terra allor, nessun gli era nemico
60Fuor che Ahrimàn perverso in loco ascoso.
Ahrimàn fraudolento ebbe nel core
Invidia, e fe’ consiglio onde la mano
Avanzasse bramosa. Un solo figlio
Ahrimàn possedea, sì come agreste
65Lupo nel volto; ma protervo e ardito
Egli era sì per un accolto esercito
Grande, possente. Con tal schiera ei venne
A Gayumèrs, che la regal possanza
Egli ambiva e quel seggio e la corona
70Di regnante e signor. Parve ben fosca
A quel figlio di Devi ingelosito
Questa sede dell’uom per la fortuna
Di Siyamèk, per la fiorente e lieta
Sorte del vecchio re, sì che ad ognuno
75Disvelò del suo cor l’alto secreto,
E di voci discordi, invidïose,
Empì la terra. Ma di ciò com’ebbe
Novella Gayumèrs? chi mai gli apprese
Che altri assider volea, qual re sovrano,
80Sul regal seggio? — Venne all’improvviso
L’angiol Seròsh dall’alto, angiol beato,
Come spirto veloce a quell’antico,
Cinto di pelli, e per secreta via
Tutto gli disse, l’orrido nemico
85Che mai facesse col suo tristo figlio.
     Poi che dell’opre del maligno Devo
A Siyamèk toccò novella, un alto
Sdegno nel cor del giovinetto sire
Subitamente entrò, sì ch’ei raccolse
90Ampia una schiera e ad aspettar si pose.
Di ucciso pardo una villosa spoglia
Si cinse ai fianchi (militar corazza
Non era ancor ne’ prischi tempi in uso)
E corse al Devo incontro, avidamente

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95Disceso a contrastar. Quando trovârsi
L’una dell’altra le nemiche schiere
In vasto campo a fronte, ignudo il petto
Siyamèk s’avanzò, feroce assalto
D’Ahrimàn diede al figlio. Allor, stendendo
100L’orride branche sue maligno il Devo,
Del giovinetto re piegò la bella
Avvenente persona e al suol la stese;
Indi con l’ugne entrò le carni e il candido
Petto sì gli squarciò, che giacque il prode
105Esanime sul suol, vittima prima
Di suo consiglio e del Devo perverso,
E l’esercito suo senza la guida
Del suo senno restò. Ma quando seppe
Del figlio suo l’acerbo fato il prisco
110Signor dell’uman seme, oscura e tetra
Si fe’ per lui questa terrena stanza,
Sì che scendendo dall’antico trono
In lai proruppe di dolor, la fronte
Battendosi e mordendosi le mani.
115Avea le gote lagrimose e colmo
Di affanno il cor, sì che il terreno stato
E la fortuna sua pieni d’angoscia
Gli parvero in quei dì. Pianser le genti
Al pianto suo; ravvolte in azzurrine
120Vesti (segno di duol) vennergli innanzi
Alle porte regali, e avean di lagrime
Molli le ciglia e rosse ambe le gote.
Anche le fiere, anche gli augelli a torme,
Con ogni armento, vennero gridando
125Alla montagna in folla, e avean sembianti
Offesi di dolor. Levossi allora
Sul regio limitar di negra polve
Un denso turbo, e quei, dolenti e pii,
Per tutto un anno, si restar su quelle
130Soglie regali. Dell’Eterno allora

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Venne in terra quaggiù dal cielo un messo.
     L’angiol beato salutò l’antico
Sire e gli disse: Ti rincora, al pianto
Pongasi fine omai. Torna al tuo senno,
135O re possente, e al voler mio cedendo,
Raduna di gagliardi eletta schiera,
De’ tuoi nemici l’empio stuol disperdi.
Franca la terra dal maligno Devo,
Franca il tuo cor da ogni cordoglio, e acqueta
140La fiera brama di vendetta. — Allora
La fronte al ciel levò l’inclito prence
Imprecando al nemico. Iddio Signore
Egli invocò del nome suo più augusto
E rasciugò le lagrime cadenti
145Dalle sue ciglia, sì ch’ei tosto corse
Il figlio a vendicar. La notte e il giorno
Pace non ebbe, non trovò riposo.
     Siyamèk fortunato ebbesi un giorno
Un figlio in terra. All’avo suo di fido
150E saggio consiglier quel giovinetto
Era in loco, ed avea quel valoroso
Hoshèng a nome. La prudenza istessa,
La stessa intelligenza era quel figlio
Di sì gran padre, all’avo suo ricordo
155Del morto genitor, sì che nel suo
Grembo ei l’avea con molto amor nutrito
E qual figlio l’amava e in lui soltanto
Godea gli sguardi soffermar. Ma quando
Alla vendetta ed alla guerra pose
160L’antico prence il cor, chiamossi al fianco
Hoshèng preclaro e valoroso e tutte
Gli raccontò le intravvenute cose
E ogni secreto gli svelò dall’alma.
Ampio, ei disse, un drappel di valorosi
165Adunerò, di guerra un alto grido
Farò udir per li campi. E tu sarai

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Duce a tal schiera, che migrar m’è forza
Da questa vita, e tu sei re novello.
     Ampia una schiera di Perì alate
170Egli adunò, di tigri e di sbrananti
Lupi e leoni e leopardi. Allora
Del re del mondo eran sommesse al cenno
Le umane stirpi e le fiere e gli augelli
E gli armenti pur anco, e fu composta
175Quell’oste sua di paventose belve,
D’augelli e di Perì. Ne andava il duce
Con la sua veste militar; ma dietro,
Dietro all’oste venìa l’antico sire,
Principe Gayumèrs; iva dinanzi
180Quel suo nipote con le squadre. A un tratto,
Lo spavento menando e la paura,
Levossi il Nero Devo e al ciel la polve
Sollevò in denso turbo. Oppresso agli occhi
Dell’antico signor parve il nemico,
185Stordito e vinto alle grida furenti
Di tante belve. Ma del campo a mezzo
L’una sull’altra si gittàr le schiere,
E da quel d’animanti immenso stuolo
Vinti i Devi restar. Come leone
190Distese allor la poderosa mano
Hoshèng sul Devo e questa gli fé’ angusta
Terrena stanza. Con un cuoio attorto
Tutto l’avvinse dalla testa ai piedi
E l’orribile capo gli divelse;
195Indi, qual cosa vil, sotto gittossi
L’estinto Devo e il calpestò. Cadea
La pelle a brani da quel corpo informe,
Esanime sul suolo abbandonato.
     Com’ei venne esattor di sua vendetta,
200Giunse di Gayumèrs l’estremo giorno,
Ed ei pago morì; quest’ampia terra
Di lui rimase qual retaggio. — Oh vedi!

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Acquistar chi potrìa grazia e favore
In questa vita? Illusïon fallace
205È questa vita, e il male e il ben ch’è in essa,
Non dura appo ad alcun. Resse quel grande
Il mondo ingannator, calcò la via
Che di cose leggiadre al frutto adduce,
Ma gioia o gaudio ei non raccolse in terra.

II. Il re Hôsheng.

(Ed. Calc. p. 14-16).


     210Principe Hoshèng, in sua giustizia e senno,
Dell’antico avo suo si pose in loco
Il regal serto in fronte. Il ciel si volse
Per quarant’anni sovra lui, che ricco
Era di senno e di saggezza, pieno
215Di giustizia nel cor. Quand’ei si assise
Di sua grandezza al loco eccelso, in questa
Guisa parlò sul trono imperïale:
     Son io signor de’ sette climi, ovunque
Vittorïoso e libero e disciolto
220Nel mio comando. Ma di Dio vincente
Obbedendo al precetto, ecco! son io
A far grazia e giustizia e accinto e pronto!
     Indi la terra ei fece amena e tutto
Il mondo empì di sua giustizia. E in pria
225Fulgido un mineral vennegli a mano;
Ei con molto saper dal duro sasso
Il ferro liberò. Materia all’opra
Il lucido metal si fece allora,
Qual da le selci sprigionato avea
230Dure e sonanti; e poi che ne conobbe
E il modo e l’uso, incominciò del fabbro
L’arte sovrana, e scuri ed affilate
Bipenni ne formò, stridenti seghe,

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Ascie taglienti. Quando fùr quest’opre
235A fin condotte, ad irrigar li campi
Vols’ei l’ingegno, e per l’ampia campagna
Trasse dai fiumi l’acque chiare e fresche
E per ruscelli acconciamente schiuse
Loro la via. Breve fe’ agli altri l’opra
240Con la possanza sua regal. Ma intanto
Saver crescea nella mente robusta
Di que’ prischi mortali; e la semenza
Sparsero allor per gl’irrigati colti
E piantaron germogli e le mature
245Messi a raccôr fùr pronti. Il pane allora
Ciascun si preparò, seminò i campi,
Notandone il confin, chè pria che queste
Arti fosser scoperte, agresti pomi
Cibavano i mortali. Assai non era
250Umano stato allor ricco e fiorente,
E i semplici mortali aride foglie
Avean per vestimenta ai fianchi intorno.
     Era già dell’Eterno un culto in pria,
E Gayumèrs, avo d’Hoshèng illustre,
255Pompe e riti s’avea. Ma un dì, dal chiuso
Sen delle pietre ove giacea nascosto,
Lampeggiò un vivo fuoco, e una novella
Luce pel mondo, al suo venir, si sparse.
     Con breve scorta Hoshèng l’erta montagna
260Un dì salìa, quando gli apparve cosa
Lunga e lontana. Mobile e veloce
Era e bruna soverchio. Erano gli occhi
Come fonti di sangue, e il negro fumo
Che dalle fauci spalancate uscìa,
265L’aria offuscava. Riguardò con molta
Prudenza il saggio re, con molto senno,
E una pietra afferrando, alla battaglia
Ratto si unisse. Via scagliò la pietra
Con la sua forza di regnante, e il negro

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270Serpe ratto fuggì dinanzi a lui.
Ma la pietra minor forte a maggiore
Urtò di contro e si spezzò con quella
Un cotal poco, e scaturìa dall’una
E dall’altra una luce, e un chiaror vivo
275Tutto quel loco rivestì. Non ebbe
Morte però l’orribile serpente;
Ma quel che uscìa da sue latèbre acceso
E fulgido splendor, fe’ chiaro al prence
Che chi, ferro impugnando, a tutta forza
280Batte le pietre, vivida scintilla
A un tratto uscir ne fa. Ma il re del mondo
Nel cospetto di Dio venne adorando,
Benedicente, che l’Eterno in dono
Questa luce gli diè, ponendo un segno
285Agli uomini così, ver cui voltarsi
Dovean pregando, e il re, Luce divina
È cotesta, dicea; chiunque alberga
Saggezza in petto con virtù, l’adori!
     Venne la notte e sull’alpestre cima
290Un gran fuoco destò, qual di montana
Vetta culmine acuto, e intorno al fuoco
Il prence si restò con la sua schiera.
Festa egli indisse in quella notte e vino
Bevve pur anco e di Sadèh alla gaia
295Festa diè il nome. Cotal festa poi
Rimase in terra qual del sapïente
E nobil re memoria viva. Oh! molti
Fosser quaggiù pari a costui nel senno
I regnatori! La terrena sede
300Adornava ei costante e la fea lieta,
Sì che la gente fe’ di lui ricordo
In bene ognor per tutti gli anni appresso.
     Con tal forza di re, con tal divina
Maestà di sovrano, ei dalle verdi
305Foreste ove abitar con cervi e onàgri

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Soleano in pria, le agnelle e le giovenche
Tolse e gli asini in un coi tori agresti,
E de’ campi gli addusse ai pazïenti
Lavori, quanti sì davangli frutto.
310Hoshèng, di questa terra ampio signore,
In suo senno dicea: Questi vi abbiate
A coppie a coppie vosco ripartiti
Pacifici animanti, e il suol smuovete
Con essi ancor. Frutto ne avrete: un dolce
315Tributo da lor opre, li nutrendo,
Coglier pensate con intenta cura.
     Quindi il buon prence a molti animaletti
Che avean morbido pel, conigli e tassi,
Armellini e di pel folto e lucente
320Faine e volpi, tolse con maestro
Colpo la cara vita e trasse il cuoio
Morbido e lieve, e ne vestì le membra
Degli uomini parlanti. Avea quel prence
Fatto ai mortali doni eletti, ancora
325Goduto avea, ma, tutto abbandonando,
Si morì, nè con sè, fuor che onorato
Un nome, nulla via recò dal mondo.
Per quarant’anni, con virtù, con gioia,
Oprando visse e fe’ giustizia e grazia,
330Molto s’afflisse ancor nella sua vita
Per pensier gravi e molte cure. E allora
Che tempo venne a lui di più felice
E fermo stato in cielo, ampio retaggio
Restò di lui di sua grandezza il trono.
335Il fato non gli avea concesso in terra
Lunghi giorni di vita, ed ei partissi
Con tutto il suo saper, col senno suo
E l’antica virtù. — Che a te si avvinca
D’amicizia il destin, non fia giammai,
340Mai non fia ch’ei ti mostri aperto il volto.

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III. Il re Tahmûras.

(Ed. Calc. p. 16-18).


     Hoshèng un figlio avea ricco di sonno,
Tahmuràs valoroso, inclito e forte
Dei Devi domator. Venne e si assise
Del genitor su l’alto seggio, accinto
345Di sua cintura qnal di re. Chiamando
Della sua gente i sacerdoti, oh! quante
Parole ei disse con facondo senno!
A me, disse, in tal dì regal corona
Ben si convien col trono e la possente
350Clava e l’elmo ferrato. Io l’ampia terra
Col senno mio da ogni opera men bella
Renderò franca, e poi d’una montagna
La stanza mia porrò sovra la cima.
Infrenerò sol io con arte e senno
355La man dei Devi in ogni loco; in terra
Solo regnar vogl’io. Così, qualunque
Util cosa è nel mondo, io manifesta
Renderò a voi, ch’io la sciorrò, spezzando
Quanti legami avvinconla tenaci.
360     Con tal pensier, dal dorso de’ belanti
Greggi il savio signor tosò la lana
Ed ogni crine con la force, e quando
L’ebber gli altri filata, e vesti e tuniche
Tesser ne fe’ con cura; anche fu guida
365A far tappeti e coltrici; ma poi
Quanti ei vedea veloci al corso in terra
Pacifici animali, erbe virenti,
Loro apprestando e fien raccolto ed orzo,
Fe’ contenti e satolli. Osservò ancora
370Le selvatiche belve, e de’ sagaci
Veltri fe’ scelta e de’ cervieri. Ad arte

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Questi ei recò pacifici animanti
Dai deserti e dai monti alle sue case.
Al guinzaglio venìan quanti eran pure
375Di quella schiera. E quanti degli augelli
Recar poteano aita, ardenti falchi
E sparvieri che eretta han la cervice,
A sè raccolse e molte loro apprese
Cose leggiadre. Oh sì!, meravigliava
380Di lui la gente! Ei fea precetto intanto
Che i feri augelli con carezze e cure
Altri ammansasse e cenno lor facesse
Sol per dolce richiamo. E poi che queste
Opere si compìan, trasse il gran prence
385Alle sue case le galline ingorde
E i galli, che cantar doveano al primo
Albor, nell’ora che fragor di timpani
Sorge dovunque. Le nascoste cose,
Utili invero, ei trascegliea. Deh! voi,
390Disse il gran re, l’Eterno ossequïate,
Lui, del mondo Fattor, lodando in core,
Ch’ei ci diè potestà su la famiglia
D’esti animanti. A lui, che ci mostrava
Additando la via, sia laude eterna!
395     Saggio un ministro egli si avea, di cui
Lungi dall’opre male era il consiglio,
In ogni loco celebrato. Il nome
Era Shedàspe, ed ei, fuor che a ben fare,
Il passo non movea. Lungi dal cibo
400Ad ogni giorno il labbro avea, si stava
In piè, dinanzi a Dio, l’intera notte,
Caro all’alma d’ognun. Costume suo
Era pregar la notte e il dì. Qual astro
Benefico al suo prence era il gran savio;
405Ei sol frenava d’ogni tristo e reo
L’anima tracotante; ei sol la via
Al giustissimo re mostrava in terra

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Di saggezza e virtù; forza e potere
Sol da giustizia egli cercava. E tanto
410Fu libera dal mal l’anima pura
Di Tahmuràs pel suo fedel compagno,
Che gli splendea nel volto un chiaro lume,
Un divino splendor. — Sappi che molti
Pregi ha quel re che consiglier ministro
415Vanti come costui, saggio ed esperto.
     Tahmuràs venne poi, con sua magia
Pose in ceppi Ahrimàne. Ei su quel dorso
Come su ratto palafren sedea,
La sella gli ponea di tempo in tempo,
420E a corsa l’adducea pel mondo attorno.
     L’opre di lui come vedeano i Devi,
Ribelli al cenno suo levâr superbi
La cervice, e di Devi una infinita
Schiera adunossi, perchè l’aureo serto
425Vacasse del gran re. Tosto che il seppe,
Tahmuràs si adirò, la lor congiura
A disperder si mosse, e cinto ei venne
Della sua regia maestà, pesante
Recando in collo una ferrata clava.
430Tutti i dèmoni allor, gl’incantatori,
I maghi tutti, in ampia schiera accolti,
S’avanzar rovinosi, e un negro Devo
Li precedea sbuffando. Urli feroci
Levaro al ciel; s’oscurò l’aria, e oscura
435Si fé’ la terra, sì che tolto agli occhi
Fu il veder chiaro. Tahmuràs, di tutta
Cinto la gloria sua, signor del mondo,
Chiuso nell’armi, s’avanzò, col core
Anelante alla pugna. Eran stridenti
440Fiamme di là con negro fumo, e i Devi
Entro a quel fumo avvolti; eran da questa
Parte i compagni del signor del mondo,
Ardimentosi e forti. Aspro un assalto

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Tahmuràs diede allor; ma lungo tempo
445La pugna non durò. Di tre due parti
Ne fe’ carche di ceppi, arte adoprando
Di possente magia, l’antico sire,
E gli altri tutti con la ponderosa
Clava atterrò. La miseranda schiera
450Tratta fu in ceppi, sanguinente ancora
Dalle aperte ferite. I vinti Devi
Chiedean la vita in dono. Oh! non ucciderci,
Diceano, almo signor. D’arti novelle
Avrai scïenza, e ten verrà gran frutto.
455     L’inclito sire lor fe’ grazia, ascose
Cose purchè da lor fossergli aperte;
E quei, disciolti dalle sue catene,
Obbedïenza gli giurâr costretti,
E al magnanimo re l’arte ammiranda
460Della scrittura addimostrâr, novella
Luce portando al suo fervido core.
Nè una soltanto, ma ben trenta foggie
Di segni gli svelàr, persiani e greci,
E pehlèviche cifre, arabe, e quelle
465Che usa l’India remota, e le cinesi
Notando, se ciò udisti. Oh! quante cose
Prima ancora operò belle e leggiadre
Per trentanni di regno il savio prence!
E giunse il fin de’ giorni suoi. Morìa
470Placidamente: ma di lui restava,
Ricordo egregio, ogni opra sua leggiadra!
     Non nutrirci tu adunque, o avara sorte,
Poi che mieter vuoi tu la dolce vita!
Che se la mieti, qual raccogli frutto
475Dal nutricar?... L’uom tu sollevi all’alto
Cielo a principio; ratto poi l’affidi
Alla sua tomba desolata e grama.

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IV. Il re Gemshîd.

(Ed. Calc. p. 18-21).


     Poi che partì dalla terrena vita
L’inclito sire, al loco suo si pose
480L’illustre figlio suo. Figlio di lui
Era Gemshìd bennato, egli de’ suoi
Consigli pieno il cor, pronto ed accinto
Ad opre grandi e illustri; sul paterno
Trono si assise, e la corona fulgida
485Si pose in fronte, qual de’ prenci in terra
È nobile costume. Ei sempre accinto
Con tutta maestà, sì che la terra
Tutta gli era soggetta. Una tranquilla
Pace regnava allor per tutto il mondo,
490E le genti non pur, ma i Devi ancora,
Gli augelli e le Perì sommessi al cenno
Eran di tal signor. Più bella e amena
Questa si fea per lui terrena stanza,
E il suo seggio regal splendea per lui
495D’insolito fulgor. M’investe, ei disse,
Divina maestà. Grado di sire,
Di sacerdote è mio, sì che la mano
A’ tristi accorcerò ne l’opre triste,
Via per l’alme schiudendo a luce eterna.
500     L’armi allora di guerra, onde ai più forti
Via di gloria dischiuse, ei con maestra
Mano a compor si accinse. Il duro ferro
Ammollendo con arte al vivo fuoco
Col suo regio poter, corazze ed elmi,
505Fulgidi arnesi, artificiose maglie,
E sottovesti e pettorali e forti
Armature a coprir cavalli in guerra,
Con anima compose intenta e chiara,

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E in ciò di cinquant’anni ebbe fatica
510A sopportar. Deposte ne’ tesori
Le fulgid’armi, egli pensò per altri
Cinquant’anni le tuniche guerriere
Che d’assalti nel tempo e di tenzoni
Vestono i forti. Di lucente seta,
515Di lin, di crini e di fulgida lana
Panni ei compose e prezïosi drappi,
Opra ammiranda, e agli uomini d’allora
Del torcer l’arte e del filar con molta
Cura insegnò, dell’intrecciar sull’ampio
520Telaio il filo a la composta trama;
E la tela composta essi in un’onda
Purissima a lavar, vesti a cucirne
Appresero da lui le genti sue.
     Fatto cotesto, ad altre cose ei pose
525Primo principio. S’allegrava il mondo,
S’allegrava il gran re. Fece una schiera
D’ogni gente di questa arte e di quella,
E cinquant’anni spese in ciò pur anco.
Primo è lo stuol che de’ Kàtùzi appelli,
530Qual riconosci esser gente devota
Al pio costume. Ei separò tal gente
Dall’altre schiere, e fé’ sugli alti monti
Loco a cotesti, addetti a Dio, l’ufficio
Perchè lor fosse venerar l’Eterno,
535Pregando pïetosi innanzi a Dio,
Signor del mondo. All’altro fianco suo
Fu posto un altro stuol, quale appellarono
Stuol de’ Nisàri. Quai leoni ei menano
Assalti e pugne, all’esercito ei dànno,
540Dànno alla terra nobile splendore,
Chè si regge per essi il regal trono,
E serbasi per essi intatto il nome
Di guerriera virtù. Terza conosci
De’ Nesùdi la schiera. Essi non hanno

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545Animo grato per alcun, ma l’arsa
Gleba van lavorando e con industre
Cura vi spargon la semenza. Mietono,
E nell’ora del cibo alcun rimorso
Non sentono nell’alme ognor serene.
550Liberi son da ogni comando, avvolti
Ben che in misere vesti, e lor non giunge
Detto maligno di proterva lingua,
Niun rimprovero mai, ma, sciolti e scevri
D’ogni biasmo d’altrui, d’ogni contesa,
555Sani di corpo, rendono la terra
Feconda e amena. Oh! che dicea quel saggio,
Uom sapïente e liberal? «Corrompe
E schiavo rende, egli dicea, la turpe
Ignavia un liber’uom». — La quarta schiera
560Degli Ahnukhòshi s’appellò. Son pronti
All’opra, ed alma hanno arrogante e audace.
Vanno essi trafficando e ingombro il core
Hanno da mille cure. Il sapïente
Signor di cinquant’anni il corso spese,
565Egli al popolo suo di molti e ricchi
Doni fu largo, e destinò diverso
Grado a ciascun, loco diverso a ognuno,
Al merto suo convenïente, e il come
Per primo egli additò, perchè ciascuno
570Di sua condizïon sapesse il pregio
E il maggior grado altrui riconoscesse
E il minor stato con perfetta norma.
     Poi che quell’opre ebbe compiute, il savio
Prence ai Devi ordinò che aride zolle
575Mescolasser con acqua. Or che fu noto
Ciò che far si dovea col molle limo,
Copia infinita di mattoni i Devi
Impuri fabbricàr con tal poltiglia,
E con gesso e con pietre alte pareti
580Solleciti levàr, tutte osservando

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Del misurar le norme. Ampli palagi
E sontüose terme e case e stanze
Fe’ costruir qual schermo da’ perigli.
Quindi, in un giorno, fra le pietre ei scelse
585Le gemme e la lor luce e il lor splendore
Cercò bramosamente. Ogni più vaga
Gemma di color vario egli scoperse,
Il rubin, lo smeraldo e il biondo succino,
L’oro e l’argento, che per magic’arte
590Ei separò dalla natia lor selce,
Onde a questi secreti acconcia chiave
Allor trovossi in prima. Anco ei rivolse
La sua fervida mente ai grati odori,
Fatti all’uom necessari, all’ambra, al puro
595Muschio, all’acqua di rose e all’odorosa
Canfora bianca, ai balsami pregiati,
Al soave aloè. Quindi i rimedi
Vari de’ mali e i farmachi rinvenne
Atti a sanar gli egri mortali, porta
600Ond’entra in noi bella salute, e via
Per cui fuggono i mali. In cotal guisa
Tutte ei svelava le riposte cose,
E questa terra non provò giammai
Ricercator così costante e accorto,
605Chè l’onde ei primo valicò su mobili
Navicelli vaganti, e passò ardito
Da questa a quella regïon lontana
Con felice vïaggio. Altri cinquanta
Anni in tali opre ei trapassò, nè vide
610Cosa niegata ad intelletto umano.
Quando forza di mente ivi si aggiunga.
     Poi che di lui quest’opre si mostrarono,
Solo sè stesso ei vide re sovrano
Di questa terra. E come fùr compiute
615L’opre sue di gran re, mosse più ad alto
Dall’alto loco suo. Con regia possa

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Un trono ei si formò. Quante vi pose
Gemme lucenti! I Devi, ad un suo cenno,
Smuoveano il seggio e fino al ciel dall’umile
620Campagna a sollevarlo erano intenti.
Come fulgido sol nell’aer sereno,
Splendea seduto su quel trono il sire
Libero e forte in suo regal comando.
Le genti allor, per quella sua fortuna
625Di re, per quella sua forza sovrana,
Si radunâr festanti a quell’eccelso
Trono dintorno, e prezïose gemme
Sparsero di Gemshìd regnante al piede,
E tal giorno beato il primo giorno
630Disser dell’anno. Era quel dì la prima
Luce di Ferverdìn, luce novella
Dell’anno giovinetto, e da fatiche
Riposavasi il corpo, e da pensieri
D’odio e vendetta il cor. Con lieta sorte,
635Dell’anno al primo dì, sedea sul trono
Il re, luce del mondo, e i prenci tutti
Festeggiavan quel dì con molta gioia,
Chiedean cantori e vin gagliardo in copia;
Quindi, tal festa da quel giorno in poi
640Restò, de’ prenci antiqui inclito segno.
Così per trecent’anni le terrene
Cose moveano allor, nè da que’ tempi
L’uom la morte vedea. Non uno osava
Opre stolte compir, morbi non erano,
645Non eran mali, non dolori; e ninno
Contezza avea di travagli e sventure,
Ma si stavano accinti i Devi tutti,
Come valletti, a’ lor servigi. Un trono
Di gran valor rizzato aveano, e sopra
650Alto vi si assidea quel re del mondo,
Re Gemshìd su quel trono alto sedea,
Con un nappo di vin nella sua mano;

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E i Devi intenti quel regal suo seggio
Toglieansi in collo e dai campi e dai piani
655Fino alle nubi l’estollean. Seduto
Sul trono eccelso il re sovrano, intorno
Ampio giro gli fean delle celesti
Plaghe gli augelli. Ma le genti in terra
Tendean l’orecchio al suo precetto, e il mondo
660Tutto era pien di voci allegre e gaie
Per la pace che ovunque si vedea.
     E fu cotesto fin che corser gli anni,
Mentre la bella maestà de’ regi
In quel grande lucea. Per lui beato
665Era in pace la terra, e a quando a quando
Da Dio signor venìan messaggi a lui.
     Poi che alcun tempo dopo ciò trascorse,
Nè le genti vedean dal lor sovrano
Fuor che opre elette, fu soggetta a lui
670Da confine a confin tutta la terra,
E sedea quel gran re con dignitate
E maestà. Ma poi d’un tratto volse
Il guardo suo di sua grandezza al seggio,
E poi che niuno per la terra scorse
675Che ugual gli fosse, ei principe devoto
A Dio signor si fe’ superbo, a Dio
Si fe’ ribelle e sconoscente. I grandi
Tutti chiamò del popol suo; deh! quante
Parole ei disse innanzi a lor! Con essi,
680Principi antichi, fe’ tal detti allora:
     Di me, di me soltanto io riconosco
L’impero di quaggiù. Vennero tutte
Da me l’arti del mondo, e questo seggio
Imperïale incoronato sire
685Non vide mai che ugual mi fosse. Il mondo
Con gran cura adornai. Tutti gli affanni
Dalla terra sbandii; da me sen viene
Il vostro cibo a voi, la vostra quiete

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E i dolci sonni. Oh sì!, le vesti ancora,
690Di vostre brame il compimento, è dono
Che vien da me. Però, mia la grandezza,
Mia la corona e la regal possanza.
Or chi dirà che, fuor di me, v’ha in terra
Altro signor?... Ma per rimedi e farmachi
695Il mondo risanò; nessuno incolse,
Me regnante quaggiù, morbo letale.
Chi adunque, s’io non fui, cacciò la morte
Da’ corpi vostri? Nol potranno mai
Gli altri regnanti, anche se molti. A voi
700Da me venne la mente e venne l’alma
In vostri corpi. Ma se alcun noi crede,
Egli è Ahrimàn. Che se pur noto è a voi
Ch’io fei cotesto, ben si vuol che ognuno
Me chiami e appelli creator del mondo.
705     Stavano a capo chino i sacerdoti
Tutti, e nessuno ardìa chieder del come,
Del perchè dimandar. Come fu detta
L’empia parola, da lui tolse Iddio
La maestà di re, pien di tumulto
710Restossi il mondo. La sua gente allora
Dalla sua reggia dilungossi, e venti
E tre giri di sol per l’ampia terra
Andò raminga. Tracotanza umana
Quando la fronte incontro a Dio solleva,
715Porta con sè la sua rovina, e cade
Ogni sorte propizia. Oh! che dicea
L’antico saggio a cui scorrea favella
Dolce dal labbro, ed era ei giusto e pio?
«Anche se prence regnator tu sei,
720Servo, ei dicea, di Dio ti chiama. A lui
Chi rubello si fa, sente nel core
Terror con raccapriccio». — E il dì sereno
Anche a Gemshìd si fe’ molesto e oscuro.
Quella che risplendea da lui pel mondo

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725Maestà di sovrano, il lume suo
Perdette allora, ed ei s’accorse e vide
Che ira del cielo il perseguìa costante
E s’afflisse e tremò. Ma, nell’offesa
Dell’Eterno sdegnato, alcun non vide
730Conforto all’empio re. Gemshìd ben molto
Bagnò il petto di lacrime e perdono
Chiedendo venne a Dio signor. Fuggita
La maestà divina era da lui.
Superbia del peccar nata era in lui.

V. Leggenda di Dahâk e del padre di lui.

(Ed. Calc. p. 22-25).


     735Visse a que’ tempi un uom gagliardo in quelle
D’astati cavalieri ampie campagne,
Re possente e magnanimo e nel core
Per timor dell’Eterno umile e pio.
N’era Mirdàs l’inclito nome, e ad alto
740E nobil grado era ei salito, in opre
Di giustizia e di grazia. Alle sue case
S’accogliean da ogni parte al tardo vespro
E mandre e greggi a mille a mille, e capre
E cammelli e giovenche e bianche agnelle,
745Che il giustissimo prence a’ mungitori
Fidate avea. Vacche lattanti ancora
Ed arabi destrier, leggiadramente
Discorrenti pel campo, a’ servi suoi
In custodia ei lasciava; e chi di latte
750Avea brama da lui, liberamente,
Secondo il suo desìo, stendea la mano.
     Quell’uom preclaro un solo figlio avea,
Segno di molto amor. Del giovinetto,
Di gloria amante, era Dahàk il nome;
755Ed ei crescea gagliardo, impetüoso

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Nelle sue voglie e senza tema in petto.
Ma la gente il chiamava Biveraspe
In pehlèvica lingua. Or, tra le cifre
Pehlèviche, bivèr val diecimila
760Nell’odierno sermone, e per che il prode
Giovinetto si avea ben diecimila
Arabi corridor con auree briglie
Entro a sue stalle, da bivèr gli venne
Inclito il nome. Di tre parti due
765Degli arabi destrieri, e notte e giorno,
Reggean le selle, e ciò si fea per fasto,
Non per battaglie o assalti. E avvenne un giorno,
Al primo albor che in orïente appare,
Che Iblìs ne venne a lui con le sembianze
770Di dolce amico, e il cor del giovin prence
A un tratto fuorvïò dal suo cammino
Giusto e leal, chè a’ detti suoi l’orecchio
Diè il giovinetto. Gli piacean le belle
Parole e il savio favellar di lui,
775Chè dell’opre sue triste ei nulla seppe.
Ond’ei, la mente gli donando e il core
E l’alma sua sì bella e pura, in danno
Aperto a cader venne. E quei, veggendo
Che il cor gli dava quell’incauto e gioia
780Infinita si avea per l’arti sue,
Molti detti fe’ acconci e fe’ lusinghe,
Chè vuota del garzon d’ogni scïenza
Era l’alma inesperta. Oh! molte cose,
Dissegli, figlio mio, conosco io solo,
785E son sì belle, e niun n’ha esperïenza!
     Parla, rispose il giovinetto, e tanto
Non t’indugiar, ma ciò che sai m’insegna,
Tu che hai nobil consiglio! — Iblìs rispose:
     Patto ti chieggo in pria; poi lealmente
790Ti svelerò le cose belle e vere.
     E semplice ed incauto era il fanciullo,

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E a quel cenno obbedì, sì che tremendo
Fe’ un giuro innanzi a lui, quale il maligno
Avea richiesto: Non fia mai ch’io sveli
795Il tuo secreto ad uom vivente. Detto
Ascolterò che tu a me dir vorrai.
     O prence, a che nelle tue case, ei disse,
Altro dovrìa signor, da te diverso,
Sedendo governar? Perchè dovrìa
800Esservi un padre, quando è pur tal figlio?
Deh! ascolta un detto mio. Lunga è la vita
Che a questo antico padre tuo rimane
Ancora in terra. Ma tu ascoso e gramo
Passi i tuoi giorni. Tu ne afferra il trono,
805Chè ti convien suo grado eccelso in questa
Natìa tua terra. Se tu intatta presti
Fede al mio dir, prence sarai del mondo.
     Come ascoltò, Dahàk si fé’ pensoso,
Chè pien d’affanno fu quel cor pel sangue
810Del padre antico. Oh! non è degna cosa,
A Iblìs gridò, cotesta! Altro favella,
Chè ciò che di’, far non si dee per noi!
     Se dal mio dir lungi ten vai, rispose,
Se ti volgi da patti e giuramenti,
815Peso rimanga sulla tua cervice
Del giuro infranto. Vile tu sarai,
Sarà in pregio ed onor quel padre tuo!
     Ma già ne’ lacci suoi tratto il maligno
Avea l’arabo prence, ond’ei ben tosto,
820Obbedïente al suo comando, in questa
Guisa l’interrogò: Dimmi qual arte
Adoprar si convien; dimmi qual via.
Scuse o protesti non cercar! — Rispose
Iblìs allor: Bada! quest’arte io solo
825Adoprerò, per ch’io sollevi in alto
In fino al sole il capo tuo. Soltanto
Altissimo serbar sull’opra mia

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Un silenzio tu dêi. Nè mi fa d’uopo
D’alcun mortal la valevole aita.
830Ciò che far si dovrà, per me con molto
Studio farassi; tu dalla guaina
Del favellar non togliere la spada.
     Avea l’antico re nel suo palagio
Un ameno giardino, esilarante
835Il cor del vecchio prence. Ogni mattina,
Sorgendo al primo albor, per far sue preci
Ei s’apprestava, e in quel giardin la fronte
E le membra lavar nascostamente
In un’onda solea, nè gli recava
840Alcun servo fedel dietro a’ suoi passi
Chiara lampada accesa. Il Devo tristo,
In suo malo consiglio, una profonda
Fossa cavò sul rapido sentiero;
Iblìs malvagio con vilucchi ed erbe
845Coprì a sommo la fossa alto scavata,
E la via ne appianò da tutte parti.
Venne la notte, e l’inclito signore
Dell’arabe contrade al suo giardino
Tacitamente volse il pie. Ma, giunto
850Quand’ei fu all’orlo della cupa fossa,
Precipitò la sorte sua sì lieta
Di prence e di signor, chè dentro ei cadde
All’occulta voragine profonda
E nell’alta caduta infrante e peste
855Ebbe le membra. Là mori quel grande
Fedele a Dio, d’integro cor; quel prence,
Nella propizia e nella rea fortuna
Libero e grande, che gemè pur tanto
Pel giovinetto figlio suo, che un giorno
860L’allevò con carezze e con fatiche,
Per lui fu lieto, e tesori gli porse,
Là si giacque e morì. Ma il figlio suo,
Stolto e malvagio, non cercò del padre

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Per via d’amore, non l’amistà nè il patto,
865E complice si fe’ del tristo Devo
Contro al sangue paterno. Io bene udii
Da un saggio antico che del padre il sangue
Mai versar non osò figlio malvagio,
Fosse pur figlio di leon feroce.
870Se diversa natura egli ha nascosta
In fondo al core, nella madre sua
Si dee cercar cotal secreto. Figlio
Che natura lasciò del padre suo,
Non dirai figlio, ma il dirai straniero.
     875Con tal arte così del padre suo
Dahàk ascese impetuoso il trono,
Dahàk malvagio. In fronte ei si ponea
La corona degli arabi guerrieri
E fra lor dispensava a quando a quando
880Grazie e favori e offese. Iblìs, che tutto
Vedea compiuto il suo desìo perverso,
Ad altri inganni rivolgea la mente.
Poi che a me ti se’ volto, ei disse allora
Al giovine signor, vedi?, toccasti
885Tu del tuo core ogni desìo! Se fede
Al mio comando serberai, se il patto
Non scorderai con me fermato e quanto
Io ti dirò, non niegherai, quest’ampia
Terra fia tua per quanto gira intorno,
890Tuo sarà su le belve e gli animanti
E sui pesci del mar, sovra gli augelli,
Su le stirpi dell’uom, l’alto dominio.
     Disse, e novella meditò un’astuzia
E a nuove cose, oh meraviglia!, il facile
895Pensier rivolse. In vago giovinetto
Ei mutava il sembiante, e avea leggiadra
La persona gentil, nobil favella
E mente astuta e penetrante. Ei venne
Nella presenza di Dahàk superba.

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900E sul labbro vezzoso era un sol detto
Di molta lode al suo signor. Se il mio
Prence, gli disse lusingando, alcuno
Gradimento ha di me, l’arte io posseggo
Studiata de’ cibi, e onor men venne.
     905L’udì meravigliando e onor gli fece
Dahàk possente e per quell’arte sua
Orrevol loco entro a sue case antiche
Gli destinò. Gli dava il maggiordomo
Ampio poter su la regal cucina;
910E poi che scarsi erano ai prischi tempi
I cibi e minor copia eravi allora
Di ciò che l’uom ne’ giorni suoi si mangia,
Ahrimàn truculento entro al suo core
Uccider si pensò con man perversa
915I docili animanti. Al suo signore
Ei diede in pria novello cibo, ed ova
Eran coteste. All’inusato cibo
Nuovo gli diè vigor per alcun tempo;
Ma in ordin poi di più diverse carni
920Vivanda gli apportò nuova e gradita,
Di carni di quadrupedi e di augelli
Della campagna. Qual lïon selvaggio
Di sangue ei lo nutria, che dispietato
Volea quel cor. Così, con pronta cura,
925Ei l’obbedìa costante, e schiava a lui
Era quell’alma. Si cibava il sire
E fea sue lodi al giovinetto, e assai,
Stolto e infelice!, ne traea diletto.
     Vivi eterno, o gran re!, dissegli un giorno
930Iblìs incantator. Tale vogl’io
Diman recarti su la mensa un cibo,
Che più forte sarai, tanta fia in esso
Virtù riposta, a sostentar propizia.
     Disse, e partì. Tutta la notte allora
935A pensar si restò qual nuovo cibo

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Apprestar si dovesse alla dimane,
Degno di meraviglia; e al dì che venne,
Allor che questo sol fulgido apparve
Nella vôlta del ciel sereno e puro,
940Di giovani pernici e di fagiani
Che han bianche penne, una vivanda ei fece.
Venne con quella, e nuova speme il core
Balzar gli fea. Stese la man bramosa
Degli Arabi il signor lieto e festante
945Alla mensa imbandita, e la sua mente,
Priva di senno, all’amor suo pel vago
Giovinetto più e più vinta ei lasciava.
Iblìs, al terzo dì, carni d’augelli
E d’agni ancor lattanti, in strana guisa,
950Le mense gli adornò; ma al quarto, al tempo
Che la mensa egli appose, i pingui lombi
Gustar gli fe’ di tenera giovenca,
E v’eran dentro acqua di rose e biondo
Zafferano odoroso e intatto muschio
955E vino espresso da molt’anni assai.
     E Dahàk ne gustò, la man porgendo
Alle dapi novelle, in fin che molta
Gli entrò nel cor per quell’acuto ingegno
La meraviglia. Oh! vedi tu, gli disse,
960Qual desiderio dimandar più vuoi;
E questo chiedi a me, dolce mio amico!
     De’ cibi il facitor così rispose:
O re, viver tu possa eternamente
Lieto, nel voler tuo libero e sciolto!
965Ma pieno è questo cor per te d’amore,
E a quest’anima mia forza e sostegno
Son nel tuo viso. Presso al mio signore
Sta un voto mio, ben che di me sì grande
Non sia pregio o virtù. Comandi il sire
970Ch’io baci a sommo gli omeri di lui,
Gli occhi v’apponga e il volto mio! — Que’ detti

[p. 151 modifica]

Come intese Dahàk, la sua secreta
Intenzïon non riconobbe e disse:
     Questo desìo sì ti concedo; e forse
975Il nome tuo ne piglierà grandezza.
E lasciò che sull’omero il baciasse
Il tristo Devo, qual l’amico suo;
E quei baciollo, indi sparìa sotterra
Con immenso fragor. Sì orrenda cosa
980Quaggiù non vide mai nato mortale.
     Usciro allor dagli omeri baciati
Due negre serpi. Sbigottì a tal vista
L’arabo prence e al nuovo mal riparo
Da ogni parte cercò. Dalle sue spalle,
985Dopo molto tentar, un dopo l’altro
Li recise ei col ferro. Oh! ben si dee
Meravigliar chi ascolta il tristo caso,
Chè, recisi, brandîrsi un’altra volta
Sovra le spalle sue, sì come rami
990D’alberi antichi, i due negri serpenti,
E gl’indovini entràr, di medic’arti
Esperti e dotti. Ei dissero sentenze,
Questo a quello parlò, tutti gl’incanti
Fûr posti in opra, ma riparo al nuovo
995Inaudito malor non si rinvenne.
     Iblìs allor, qual medico sapiente,
Là su la soglia apparve. Al suo signore
S’accostò con gran cura e intento disse:
Ciò che accader dovea, s’avvera e compie
1000In questo dì. Ma tu desisti; mietere
Ciò che cresce, non dêi. Cibi t’appresta
E con que’ cibi sopimento induci
Negli orridi serpenti. Oh! questo solo
Fia riparo al tuo mal. Cervella umane
1005Tu appresta lor, non altro cibo, e forse
A morte li addurrà il fiero alimento,
E tu libero andrai. Ma poi che solo

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È uman cerèbro lenimento a questo
Morbo sì strano, lagriraar n’è d’uopo
1010E pel mal che t’incolse e per sua cura,
Chè ogni giorno per te due giovinetti
Spenti cadranno, e tu, tronche lor teste,
Ne trarrai le cervella. — Oh! che mai volle
Quel dei Devi signor con tal proposta?
1015Che volle e che cercò, qual mai disegno
Vide in sua mente ria, se non che un’arte
Trovar potesse ascosa, onde restasse
Vuota la terra d’ogni stirpe umana?

VI. Morte di Gemshîd.

(Ed. Calc. p. 25-26).


     Grido levossi dall’irania terra,
1020Manifestârsi in ogni loco attorno
Guerre e tumulti, e intenebrò d’un tratto
Il dì sereno e radïante. Ruppero
Fede a Gemshìd i popoli rubelli,
E poi che maestà che vien da Dio,
1025Offuscavasi in lui, volse d’un tratto
Egli a menzogna ed a stoltizia il core.
Ma intanto, da ogni parte un re mostravasi,
Un principe venìa da ogni frontiera;
Ei vassalli adunâr, guerriera gente,
1030E, vuoto il cor di quell’antico affetto
Per Gemshìd, meditâr pugne ed assalti.
Venne d’Irania esercito d’armati
All’improvviso e alla terra deserta
D’Arabia volse il piè. Seppesi allora
1035Ch’era in que’ lochi un principe superbo.
Inspirava terror, due serpi avea
Avviticchiate agli omeri gibbosi;

[p. 153 modifica]

E i cavalieri che venìan d’Irania
Un re cercando, corser tutti a gara
1040Nella presenza di Dahàk. Prestârgli
Omaggio allora come a prence, e sire
D’Irania il salutâr con alte voci.
E il crudo re che avea su le sue spalle
Gli orridi serpi, come turbo mosse
1045Al nuovo regno e nell’irania terra
La corona regal si pose in capo.
D’arabe genti egli adunò, d’iranie
Ancora, immenso stuol, prenci e guerrieri
Da ogni lontana regïon; lo sguardo
1050Volgendo al trono di Gemshìd, la terra
Attorno attorno gli fe’ angusta e grama.
     Ma poichè declinar la sua fortuna
Vide Gemshìd, che rincalzava il nuovo
Arabo prence, si fuggì ramingo
1055Dinanzi a lui, gli abbandonando il trono
E il regal serto e la grandezza sua,
I suoi tesori e l’ampio stuol de’ suoi.
Ei si nascose solitario, e trista
Si fe’ la terra e squallida per lui,
1060Or che il trono regal, la sua corona
A Dahàk dati avea. Passàr cent’anni,
E niun lo vide mai per questa terra,
Ch’ei si tenea dagli occhi de’ mortali
Sempre lungi e nascosto. E un dì fu visto,
1065De’ cent’anni al finir, sovra le sponde
Del mar di Cina, l’empio re; ma l’ebbe
In sua mano Dahàk, nè gli concesse
Tempo o riposo, chè in due parti il fece
Tosto segar con un’arguta sega
1070E l’ampia terra liberò da lui
E dal timor che ne venìa. L’antico
Prence così, che l’alito fuggìa
Dell’orribile drago, alcun non ebbe

[p. 154 modifica]

Scampo da lui nel suo destin funesto.
     1075Così cadea quel regal trono e tutta
Di Gemshìd regnator svanìa d’un tratto
La potestà. Qual mobile festuca
Rattratta a sè da sùccino splendente,
Il fato lo rapì. Chi su quel trono
1080Fu pria di lui sì glorioso e saggio?
Qual del suo lungo faticar giocondo
Frutto ei giunse a goder? Ben settecento
Anni passâr sovra il suo capo, e molte
Cose in luce portò, leggiadre e triste.
1085Ma che val lunga vita, ove la sorte
Mai non disveli il suo secreto? Il mondo
Nutre talor con amorosa cura
Il misero mortal; soavi e dolci
Son le voci che a lui suonan dintorno.
1090A un tratto poi, quando già già ti sembra
Che il fato ponga in te novello affetto,
Quando già pensi che a te sol non mostri
La sua fronte crucciata e già ne senti
Gioia insperata in cor, godi, e frattanto
1100L’arcano a lei dell’alma tua disveli,
Perfido un gioco essa ti fa con arte,
Inatteso dolor t’innesta in core.
Di nostra vita e fallace ed inferma
Costume è questo. Ma tu eletto un seme
1105Spargi in terra soltanto. — Oh questo core,
Questo mio cor già della vita è sazio,
Sì trista e breve; tu mi franca, o Dio,
Dal grave duol che già mi opprime e atterra!