Il Libro dei Re - Volume I/Il re Dahâk

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Il re Dahâk

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I primi Re Il re Frêdûn
I primi Re - VI Il re Dahâk - I
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IL RE DAHAK

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IL RE DAHAK


I. Regno ingiusto di Dahâk.

(Ed. Calc. p. 27-28).


     Dal dì che re sedea sovra l’eccelso
Trono Dahàk, su lui passâr mille anni,
E in mille anni di regno al suo comando
Parve il fato piegar. Da ciò ben lungo
5Tempo trascorse poi, nel qual disparve
D’uomini sapïenti ogni costume,
Libera andò voglia malvagia e rea
D’uomini stolti, addetti ai Devi. Abietta
E vil cosa sembrò saviezza allora;
10Magìa venne in onor; giustizia ascosa,
Aperta e sciolta vïolenza. I Devi
Stendean la mano ad opre infami e ree
Liberamente, nè parola v’era
Di ben, fuor che in segreto. Or, dalle case
15Dell’antico Gemshìd fuori fùr tratte
Due vergini fanciulle. Esse tremavano
Come foglia di salce alla tempesta.
Eran sorelle di Gemshìd, corona
D’ogni donna regal. Di lor, che il volto
20Avean coperto di un vel casto e puro,
Shehrnàz era la prima, e la sorella
Ernevàz era, come luna adorna
In ciel sereno. E le traean malvagi
Sgherri a le stanze di Dahàk riposte,
25E a lui che due serpenti in su le spalle

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Avea contorti, lasciavanle in preda
Perfidamente. Ogni opra rea costui
Lor disvelava, e la magìa, gl’incanti
Loro apprendea con ogni frode e inganno,
30Chè tal del tristo era la legge, e questa
Ampia terra per lui tanto era vile
Quanto di lieve cera un picciol globo.
Egli nulla sapea fuor che maligne
Arti bandir, nulla sapea che morte
35Non fosse o incendio o barbara rapina.
     Avvenne poi che si traean per lui
Due giovinetti ad ogni vespro (un servo,
Disceso l’altro d’un’eroica stirpe)
Dai regi scalchi alle sue case, e questo
40Era rimedio al suo penar; che tosto
Il tristo gli uccidea, poscia il cerèbro
Fuor ne traea con arte, e un tristo cibo
Alle serpi apprestava, orride e negre.
Ma in que’ giorni vivean, d’inclita e regia
45Stirpe discesi, due gagliardi, illustri
Per molto senno e per opre leggiadre.
Irmaìl dolce e pio l’un s’appellava,
E l’altro Kermaìl, saggio e prudente.
E avvenne ch’elli un dì sedeano insieme
50A favellar de’ casi intravvenuti,
Patitamente, e dell’opre nefande
Del lor signor, del popolo infelice,
Del costume di lui feroce e reo
Nel ferino alimento. E un disse allora:
55Or sì, quai regi scalchi, andar conviene
Di tal prence all’ostello e una sottile
Arte trovar, con molto studio e cura
Vi ripensando, per che almen dei due
Che ogni giorno a morir sulle regali
60Porte son tratti, uno per noi si salvi.
     Così partìan, così l’arte dei cibi

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Apprendean con gran studio, e gli alimenti
Con certa norma in preparar fùr dotti.
Venner con alma intenta ed il governo
65Preser così della regal cucina,
E allor che tempo giunse ove innocente
Sangue scorrer dovea, quando la dolce
Vita dovean troncar delle infelici
Vittime i regi scalchi, a lor fùr tratti
70Da crudi sgherri con percosse e strepiti
Due giovinetti al pie; che anzi boccone
Li gittarono al suol. Smarrì a tal vista
L’alma de’ scalchi intenerita, e lagrime
Spuntâr sul ciglio, e fu desìo magnanimo
75Di vendetta in ciascuno. Essi guardaronsi
Così l’un l’altro, questo e quello, e un alto
Disdegno ebbero in cor per l’opre ingiuste
Di quel signor dell’ampia terra. E allora,
Poi che altra via non era aperta e nota,
80Uno ucciser dei due, trasser dal capo
D’un capretto il cerèbro e alle cervella
Di quel preclaro il mescolàr già spento.
Ma l’altro ebbesi in don la cara vita,
E, Vedi, gli dicean compunti e mesti
85Gli scalchi, vedi omai se in parte ascosa
Ti è dato soggiornar. Bada che loco
Abitato non sia quella ove andrai
Terra lontana, chè deserti solo
Inospiti e selvaggi ed alti monti
90Lochi son destinati al tuo soggiorno.
     Così cerèbro vil di agnelle o zebe
D’uman cerèbro venne in loco, e quelli
Un cibo ne apprestavano commisto
Agli orridi serpenti, onde ben tosto,
95Ad ogni luna, trenta giovinetti
In dono avean da lor la cara vita.
E allor che ben duecento eran raccolti,

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E niun sapea lor nomi, i regi scalchi
D’alquanti capri e di lascive agnelle
100Dono lor fean, poscia additavan loro
Lochi deserti e abbandonati e vasti.
Venner da questi che fuggìan da morte,
I Curdi bellicosi, essi che lochi
Non aman colti e ben difesi ostelli,
105Ma vivon solitari entro a lor tende
Né timore han di Dio nel tristo core.
     D’allora in poi dell’empio re il costume
Sì perverso si fé’, che ove improvvisa
Brama gli entrasse in cor, qualunque vaga
110Fanciulla intatta, d’illibato nome,
Incontrastato a’ ginecei traea,
Schiava ei la fea nel suo cospetto. In lui
Pregio non era, non costume o fede,
Non virtù che di re degna si fosse.

II. Sogno di Dahâk.

(Ed. Calc. p. 28-31).


     115Ma poi che di vent’anni e venti ancora
Spazio restava alla sua vita in terra.
Vedi e pensa qual mai novella cosa
Trasse a Dahàk su l’empio capo Iddio.
     Nella notte profonda entro al regale
120Palagio egli dormìa con la leggiadra
Ernevàz al suo fianco. Ei vide allora
Dal palagio dei re fuori d’un tratto
Tre guerrieri apparir, due di provetta
Età, l’altro minor che in mezzo agli altri
125S’avanzava, e parea nobil cipresso
Nella statura maestosa ed alta,
Nel costume di prence. Erasi cinto
Qual re sovrano e avea regale incesso,

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Stringea nel pugno una possente clava
130Da un capo di giovenca in sulla cima.
Venne costui fino a Dahàk correndo
E cercando la pugna, e lo colpìa
Con quella clava in su la testa. Allora,
Quell’eroe che da meno era degli altri
135Negli anni suoi, dal capo al piè legavalo
D’un striscia di cuoio, ambe le mani
Con quel capestro gli avvincea pur anco
In nodi fermi, e un laccio gli appendea,
In segno d’ignominia, alla cervice.
140Del Demavènd così fin presso al monte
Abbandonato ei lo traeva, correndo,
Strascinandolo avvinto, e dietro a lui
Gittavasi la folla intimorita.
     Si contorcea nel sonno paventoso
145L’empio Dahàk, sì che parea che il core
Gli scoppiasse nel sen. Levò tal grido
Sognando ancor, che tutta quella vasta
Dimora ne tremò con le sue cento
Alte colonne. Giù balzâr dal loco
150Le vaghe ancelle, al grido impaurite
Dell’inclito signor; prima di tutte
Ernevàz l’inchiedea: Prence e signore,
Che t’avvenne ci narra, e alto secreto
Ne terreni noi. Tu che in tua vasta casa
155Dormi tranquillo, per la dolce vita
A che temi così? Sono dell’ampia
Terra le sette regïoni al tuo
Cenno sommesse, e gli uomini e le fiere
E i Devi ancora guardano gelosi
160I giorni tuoi. Tutti i viventi stanno
In tuo poter, dal cerchio della luna
Fino al mostro fatal che il mondo regge.
     E di rimando a le fanciulle il prence:
Di tal prodigio favellar concesso,

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165No, no, non è. Che se il racconto udito
Fosse per voi di ciò che vidi in sogno,
Tutta speranza si morrebbe in voi
Pel viver mio sì tristo. — E il tuo secreto,
Ernevàz rispondea, ben si conviene
170Tutto svelare a noi. Arte sottile
Usar potrem, che non è trista cosa
In terra, che riparo anco non abbia.
     E quei svelava del cor suo l’arcano
Patitamente, a le fanciulle sue
175Narrava il sogno. Ed Ernevàz, Cotesto
Inesplorato non lasciar, rispose
Al suo signor, ma cèrcavi riparo.
Ampio suggello del destino è il tuo
Trono felice, e per tua illustre sorte
180Risplende il mondo, chè quest’ampia terra
Sotto l’anello tuo di gran signore
Si sta soggetta, gli uomini e le fiere,
I volatori della selva, i Devi
E le alate Perì. Saggi e sapienti,
185E astrologi e indovini e sacerdoti
Da ogni parte raccogli, e ai sacerdoti
Ogni cosa disvela e alta ricerca
Fa di tuo arcano, verità con cura
Investigando. Vedi allor chi rechi
190La tua morte in sua man, nato mortale,
Devo o alata Perì. Quando scoperto
Alfin l’avrai, ponvi riparo e lascia
Ogni vano timor di chi t’è avverso.
     Piacque all’empio signor quel detto accorto,
195Qual pronunciato avea la bella e adorna
Compagna sua. Ma di corvino augello
Era la notte allor qual penna, oscura.
Alfin, sul monte si mostrò la chiara
Lampa del sol. Parea che per l’azzurra
200Vôlta del ciel di fulgidi rubini

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Il sol versasse un nembo. Il prence allora
Tutti raccolse da ogni parte i vati
E i sacerdoti, sapïenti e saggi,
Facondi in favellar, di vigil core;
205Da ogni parte ei li trasse alla regale
Dimora in fretta, e poi con mesto core
Il suo sogno narrò, visto da lui
Per l’atra notte. Ei li raccolse, e in loco
Secreto gli radunò; chiese che a sua
210Sventura e si cercasse e si vedesse
Forte un riparo. Orsù, disse, del vero
Fatemi certo, e all’alma mia sì fosca
Fino alla luce fate un varco! — E intanto
Ei gl’inchiedea d’ogni secreta cosa,
215Del mal, del ben della sua sorte infida,
E seguì poi: Come avverrà che giunga
Al termin suo del viver mio felice
Il lungo corso, e chi questo mio trono
E la corona avrà, l’aurea cintura
220Di prence e di signor?... Su, su, si sveli
Ogni secreto a me; se no, la vostra
Testa davver che perderete voi!
     Inaridìa de’ sacerdoti il labbro
A quegli accenti, e lor pallide gote
225Subitamente si bagnàr di pianto.
Se l’avvenir, dicean fra lor sommessi
Mormorando così, per noi si svela
Veramente qual è, grave è il periglio
Di nostra vita, nostra vita è grama
230E senza pregio. Se da noi non sente
Profetar l’avvenir, di nostra vita
Deporre ogni pensier meglio è per noi.
     Così passàr tre giorni, e niuno ardìa
Far manifesto apertamente il vero.
235S’adirò il quarto dì l’alma feroce
Dell’arabo signor contro que’ saggi

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Che mostrar gli dovean la via spedita.
Vivi, allora ei gridò, tutti da un alto
Tronco fra breve penderete voi,
240O l’avvenir, qual sia, mi svelerete.
     Chinàr la testa i sacerdoti. Il core
Lor si spezzò per lo spavento, e gli occhi
Di lagrime si empîr. Ma. tra que’ saggi
Di famoso saper, uno era quivi
245Di vigil core e sapïente e saggio
Del ver zelante e vigile ed esperto,
Zirèk di nome; e primo era di tutti
I sacerdoti e gli avanzava tutti
Per eletta virtù. Più forte in petto
250Ei sentì ’l core in quell’istante, e venne
Senza tremar, sciolta la lingua, innanzi
All’irato signor con fermi passi.
E intento disse: Sgombra omai dal core
Ogni vano pensier, chè per l’estremo
255Fato soltanto erompe un uom dall’alvo
Della sua madre. Oh! vedi? Altri possenti
Prima di te furon qui molti, e degni
Eran ben di tal seggio e illustre e grande.
Vider molto dolor, molta letizia
260Ebber nel mondo; e allor che termin giunse
Di lor vita longeva, elli morirono.
Ma tu, s’anche di ferro una barriera
Fossi davver, ti abbatterà pur sempre
Il ciel, nè qui starai. Sarà l’eccelso
265Trono in che siedi, dato a un altro, e quegli
Travolgerà la tua fortuna al suolo,
Sì lieta un dì. Sarà di quel possente
Fredùn il nome, e a questa terra sua
Come cielo ei sarà chiaro e felice.
270Ancor nato ei non è; della distretta,
Dell’angoscia mortal non è ancor giunto
Il vero tempo. Ma quand’ei fia nato

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Da madre eletta e di ogni grazia piena,
Come arbor crescerà che dolci frutti
275Recherà un giorno. Toccherà costui
Eccelso grado di valor, col capo
Rasenterà di questo ciel la vòlta,
E corona regal, trono e cintura
Ed elmo chiederà. Qual è un cipresso
280Che al ciel si estolle, tal sarà nell’alta
E nobile statura, e in su le spalle
Ferrata clava reggerà. Con questa,
Dal capo di giovenca in duro ferro,
Ecco! ei ti vibra su la fronte un colpo,
285Colpo fatal, carco ti trae di ceppi
Fuor di tua casa nell’aperta via.
     E l’empio re: Perchè tai ceppi? e quale,
Qual vendetta gli sta nel cor profondo,
Qual contro a me? — Rispose ardito il saggio:
290     Se fior di senno hai tu, pensa che niuno
Senza un’alta cagion danno s’attenta
Altrui di procacciar. Per la tua mano
Avrassi morte il padre suo. Per questa
Acerba doglia del suo cor trafitto,
295Fiero un desìo di sangue e di vendetta
Ei nell’anima avrà. Nobil giovenca
Sarà del generoso alma nutrice,
Birmàyeh a nome, e vittima innocente
Cadrà essa ancor per la tua mano, ed ei
300Per la vendetta sua trarrà una clava
Col capo di giovenca in su la cima.
     Dahàk poichè ciò udì, per tutto intendere
Schiuse gli orecchi e cadde dal suo trono
E ogni senso smarrì. Fuggìa quel saggio
305Lungi dal trono per timor d’offesa;
Ma quando ricovrò la mente il sire,
Il regal seggio ei risalì. Cercava
Di Fredùn per la terra indizio alcuno

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E in secreto e in palese, e sonni intanto
310Ei non avea, non cibo e non quiete,
E il chiaro dì per lui s’intenebrava.

III. Nascita di Frêdûn.

(Ed. Calc. p. 31-34).


     Lungo tempo trascorse, e già vicino
Era a l’estremo dì l’uom che le serpi
Attorte aveva a le sue spalle. Intanto
315Nascea dalla sua madre il fortunato
Fredùn gagliardo, per cui venne in terra
Nuovo costume allor. Crebbe quel prode
Come agile cipresso entro la selva,
E gli splendea di re dei re nel volto
320La maestà, chè di Gemshìd la luce
Viva brillava su quell’alta fronte,
Ed egli a questo sol che splende in cielo,
Veracemente era simìl. Qual pioggia
Che a tempo vien, comparve egli alla terra
325Oppressa e stanca; all’alme de’ mortali
Fu qual scïenza in un’angoscia estrema;
E il ciel volgea su lui rotando in giro
Placidamente, e nell’amor di lui
Compiacersi parea. Pur da que’ giorni
330La giovenca Birmàyeh ora di tutte
L’altre giovenche la più bella, e quando
Uscì dall’alvo della madre, in vista
Sembrò quale un pavon leggiadro e vago,
Chè ogni suo pelo d’un color diverso,
335Fresco e vivo, ora tinto. A lei dintorno
Si adunàr prontamente e sacerdoti
E astrologi e indovini e sapïenti,
Chè niuno in terra mai sì nuova e bella
Giovenca vista avea con gli occhi suoi,

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340Né udita mai descrivere da saggi
O da vegliardi in molte cose esperti.
     Piena frattanto di scompigli strani
Dahàk rendea quest’ampia terra e tutte
Le sparse regioni ei percorrea
345Fredùn cercando. Abtìn del pargoletto
Era il misero padre, ed era angusta
La terra a lui, grama la vita e trista.
Ei si fuggìa di qua di là, ma sazio
Divenne alfin del viver suo dolente
350E del fero leon cadde nel laccio
All’improvviso, chè gl’immani sgherri
Dell’empio un giorno l’incontràr soletto
E il presero, e qual belva di catene
Oppresso il trascinàr. Ma il trasse a morte
355Dahàk subitamente; e allor che il tristo
Fato vedea dell’infelice sposo
La saggia madre di Fredùn, costei
Che donna era preclara, alto ornamento
Dell’età sua, qual fortunata pianta
360Da cui, frutto giocondo, un re possente
Era nato alla terra, essa che nome
Franèk avea, prudente e accorta e piena
D’un caldo amor pel figlio suo bennato,
Venne, correndo e con la morte in petto
365E in ira al fato, ai solitari alberghi
Di gente ignota, alla campagna, al loco
Ove Birmàyeh, la giovenca illustre,
Per li boschi pascea, vaga e leggiadra
Nelle agili sue membra. E l’infelice
370Pregò al cospetto dolorosamente
Del guardian di quegli alpestri lochi,
E bagnando le gote e il sen di pianto
Così a lui favellava: Oh! tu ricevi
E proteggi per me questo fanciullo
375Lattante ancor, per alcun tempo. A lui

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Padre tu sii, da me che gli son madre,
Il ricevendo con amor; lo nutrì
D’esta giovenca sì leggiadra e bella
Col puro latte. E se da me tu vuoi
380Mercede alcuna, è tua questa mia vita,
Quest’alma mia t’è pegno e t’è promessa
Per quel che da me brami, o generoso.
     E il guardian di quelle selve antiche,
Della giovenca sì leggiadra e bella
385Fedel custode, a quella mesta e saggia
Donna rispose: Come schiavo innanzi
Al figlio tuo sarò, donna preclara.
Ciò che tu vuoi da me, con molto amore
Io sì farò. — Tra le sue braccia allora
390Franèk l’infante deponea piangendo.
E assai gli favellò, diè ammonimenti
Prudenti e saggi. E il semplice pastore
Per tre giri di sol, sì come padre,
Guardò l’infante e lo nutrì col latte
395Della giovenca sì leggiadra e bella.
     Ma poiché di cercar sazio non ora
Dahàk in suo furor, mentre dovunque
Pel mondo si spargea l’inclita fama
Della giovenca sì leggiadra e bella,
400Corso a quei lochi solitari e ameni
Quella madre infelice e così disse
All’uom custode di sua fè: Pensiero
Sorse divino in me; ragion con senno
Il risvegliò. Consiglio che da Dio
405Ne vien, d’uopo è seguir, n’è v’ha riparo,
Chè una sol cosa è questo infante mio
Col mio spirto vital. Ma questa terra
Infida e rea, di magic’arti piena,
Fuggendo lascierò. D’India remota
410Al confin recherò questo fanciullo
Da questa turba scomparendo, e ai monti

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Recherò dell’Albùrz il figlio mio.
     Detto cotesto, il suo leggiadro infante
La mesta a sè raccolse e le cadenti
415Stille del pianto di sua doglia acerba
Si terse con la man. Qual messaggiero
Che ratto corre, il pargoletto infante
Ella via si portò, come gazzella
Che timida si tragge alla montagna
420Alta, inaccessa. Un uomo antico e pio
Stava sul monte, e niun pensier, nessuna
Cura il toccava mai di questa umile
Terra quaggiù. Franèk gli disse allora:
     Uom solitario e pio, dolente e mesta
425Fino al tuo piè vengo d’Irania. E sappi
Che questo infante mio, germe preclaro
D’antichi re, d’un popolo gagliardo
Signor primo sarà. Torrà costui
A Dahàk la corona, e il suo regale
430Cinto, qual pegno di una età più lieta,
Alla terra imporrà. Tu il custodisci,
Padre gli sii, ma padre, che pei giorni
Del picciol figlio suo si affanna e trema.
     E quell’uom generoso al sen l’accolse,
435Nè lasciò mai che aura importuna o grave
Giugnesse fino a lui. Toccò frattanto
Novella certa all’arabo signore,
Prence sciaurato, di que’ paschi ameni
E di Birmàyeh ancor leggiadra e bella;
440Ed ei venne bramoso e orrida fiera
Pareva in suo furor. Tosto atterrava
Birmàyeh al suol, la nobile giovenca,
Tutti atterrava quanti ei là scoverse
Quadrupedi pascenti, e il solitario
445Loco ne disgombrò. Corse affrettato
A l’ostel di Fredùn rapidamente,
Molto cercò, ma non rinvenne alcuno;

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Sì che il fuoco ei destò per voglia rea
Nel vuoto albergo ed atterrò le case.
450     Ma poi che giunse all’anno sedicesmo,
Dalle vette d’Albùrz venne quel prode
Alla vasta pianura, e con intensa
Brama Fredùn così a cercar si volse
L’antica madre sua: Deh! tu mi svela
455Il secreto del cor, deh! tu mi narra
Qual fu l’illustre padre mio, di quale
Stirpe son io, di qual semenza. Innanzi
A questa gente, qui, che dir potrei?
Deh! con alto saper tutta mi esponi
460L’antica istoria! — Ciò che a me tu chiedi,
Franèk rispose, io ti dirò. Ben sappi
Che in Irania già visse un uom prestante;
Abtìn fu il nome. Era di prenci antichi
Inclito germe, vigile e prudente,
465Eroe gagliardo che a nessun giammai
Danno recò per voglia trista. Il sangue
Da Tahmuràs avea, l’antica stirpe
Rammentando in suo cor di padre in padre.
Questi fu padre a te, sposo giocondo
470A me già un tempo, e soltanto per lui
Era a quest’occhi miei sereno il giorno.
Ma gl’indovini che degli astri il corso
Contemplano su in ciel, dissero un giorno
A re Dahàk: «Sì! da Fredùn la morte
475A te, prence, verrà». Dissero, e il crudo,
Di magic’arti gran maestro, stese
La man da Irania a trucidarti. Allora
Io da lui ti nascosi. Oh! quanti giorni
Infelici io passai, chè il padre tuo,
480Giovane ancor, sì forte e sì prestante.
Per te donò la cara vita. Sorgono
Di Dahàk da le spalle, orrido mago,
Due negre serpi; e venne gran sterminio

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All’iranico suol, che al padre tuo
485Fûr tratte ancora le cervella, e un cibo
Ne fu addotto così dai regi scalchi
Agli orridi serpenti. Io m’involai
Dal loco infesto. In una selva oscura,
Là ’ve nessuno penetrar potea
490Nemmen pensando, ebbi soggiorno, e vidi,
Vidi in que’ lochi una giovenca eletta
Qual primavera dilettosa e vaga,
Tutta coperta di vivaci tinte
Dal capo al pie. Dinanzi a lei sull’erba
495Sedeva il guardïan, le gambe insieme
Raccolte, qual signor de’ lochi ameni,
In molta pace. A lui ti diedi, e lunga
Stagion si volse poi. Quei ti nudriva
Con molto amor nel grembo e il latte intanto
500Della giovenca ti porgea che bella
Era ne’ molti suoi color diversi,
Come altero pavon. Tu a me crescevi
Qual fiero alligator. Ma l’empio sire
Ebbe novella di que’ paschi alfine,
505Della giovenca ebbe notizia allora.
Io t’involai dalla foresta e il piede
Rivolsi in fuga dall’irania terra,
Dalla casa de’ miei. L’empio signore
Corse a que’ lochi, e la nutrice tua,
510Ben che muta così, dolce mai sempre
Amorosa nutrice, a morte ei trasse,
E fino al cielo sollevò di nostre
Case distrutte la rotante polve,
Pareggiandone al suol le torri eccelse.
515     Arse di sdegno a quel racconto il prode
Giovinetto. Ascoltava ei dalla madre
Avidamente ogni parola, e l’ira
Cresceva in lui. Trafitto il cor, la mente
Da un sol pensier di sangue e di vendetta

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520Signoreggiata, le sue fosche ciglia
Su la fronte aggrottando, egli in tal guisa
Le diè risposta: Forte non si rende
Generoso leon se tu nol provi.
Tutta or compiea la voglia sua quel tristo
525Di magic’arti gran maestro; il ferro
Or tocca a me. Con quello in pugno, Iddio
Seguendo e il cenno suo, l’empia dimora
Di re Dahàk distruggerò dall’alto.
     Oh! sconsigliato, rispondea la madre;
530Vano pensiero è il tuo, nè tu potrai
D’un ampio regno e della terra tutta
L’armi infrenar. Non sai che trono e serto
Dahàk possiede, che infinito esercito
Attende un cenno suo, che per far guerra,
535Pur ch’ei le chiami, da ogni terra a mille
Sorgon sue schiere? Ben dà ciò diverso
È di tua gente il pensiero e il costume,
Altra è la guerra! Ogni più grave cosa
Non giudicar dei teneri anni tuoi
540Col senno giovanil. Chi de’ primi anni
Gustò il fervido vin, nessun nel mondo
Vede fuor che sè stesso, e alfin dell’opra
Cade vittima ei pur di quella prima
Effervescenza dell’età inesperta.
545Scorran felici, scorrano beati
I giorni tuoi, ma tu ricorda il savio
Consiglio mio. Le cose tutte, o figlio,
Son vento inane, so pur togli il detto
Di quella sì che ti fu madre un giorno.

IV. Il fabbro-ferraio.

(Ed. Calc. p. 34-38).


550     Avvenne allor che sempre le sue labbra,
E notte e dì, schiudea Dahàk nel nome

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Di Fredùn sì tremendo. In sua grandezza
Temea la sua caduta, e pien d’angoscia
Pel predetto nemico era quel core.
555E un giorno fu ch’egli, sedendo in trono
Di sculto avorio (la regal sua benda
In fronte gli lucea di bei turchesi),
Raccolse da ogni parte i sacerdoti
E al vacillante suo poter sostegno
560In lor fede cercò. Diss’egli ai saggi:
     Antichi saggi, per virtù, per alta
Stirpe famosi in nostra terra, un fiero
Nemico a me sta nell’agguato, e a tutti
I saggi è questo ver ben noto e aperto.
565Giovinetto egli è ancor, ma sapïenza
Di antico gli sta in cor, prence gagliardo
Per nascimento, ardimentoso eroe
Nell’opre grandi del suo braccio. E disse
Un sacerdote, di virtù maestro,
570Nella presenza degli eroi, che, d’anni
Ben che tenero sia tal giovinetto,
Giovinetto nemico e imberbe ancora
Stimar non dobbiam noi vile e dappoco.
Nè il dispregio però, ben che fanciullo,
575Ma temo sì della fortuna avversa
L’arti mal fide; e ben sarà s’io vegga
Raccòrsi qui d’eroi, di combattenti
Maggior drappello, a me fedel, di Devi
E d’alate Perì, d’uomini ancora
580In armi esperti. Esercito infinito
Io leverò; vogl’io che con le genti
S’accapiglino i Devi. Intanto voi,
Voi con me v’accordate. Io già non valgo
A sopportar lo stato mio. Ma un foglio
585Segnate voi dinanzi a me; si attesti
In quel foglio per voi che la semenza
D’opre soltanto commendate e belle

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Sparse il vostro signor, che mai parola
Non pronunciò che vera anche non fosse,
590Che nessun danno ebbe da lui giustizia.
     Tutti que’ saggi allor per timor grave
Che aveano in cor dell’arabo signore,
Giovani e vecchi insiem, sovra quel foglio
Scrisser lor nomi asseverando il falso
595Dir di cotal dagli orridi serpenti.
Ma là sul regio limitar, di doglia
Strido s’intese, d’uom che ad alta voce
Chiedea giustizia. Di Dahàk fu addotto
L’infelice al cospetto, e ai prenci accanto
600Dato un loco gli fu. Ma quel possente,
Con fier cipiglio e corrugata fronte,
Dimmi, gridò, da chi t’avesti offesa!
     Alto diè un grido e per l’arabo prence
Ruppe in lamenti: O re, Kàveh son io
605Che giustizia ti chieggo. Oh! tu mi rendi
Giustizia, o re, che qui correndo venni
E piangendo qui sto con desolata
L’anima mia per te. Che se t’è ufficio
Render giustizia a chi la chiede e implora,
610D’assai crescer dovea la tua possanza
Su questa terra. Ma venìa l’offesa
Da te solo, o signor, sì che nel core
Sempre e sempre per te mi sia confitta
Atroce punta di dolor. Se questo
615Non era il voler tuo perch’io dovessi
Sì gran danno patir, perchè la mano
Stender sui figli miei? Deh! tu li rendi,
Li rendi all’amor mio. Guarda l’affanno
Di me infelice, di cui sempre afflitta
620L’anima resterà. Deh che fec’io?
Che feci, o re? Dillo, se il sai. Ma colpa
Se in me non trovi, a che cercar pretesti
E scuse mendicar? Ben tu riguarda

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All’orrendo mio stato, e la sventura
625Che già già ti minaccia, assai più grave
Non far così per te. Vedi che il rio
Destino il dorso m’incurvò, che ancora
Vive sperando il cor, ma la memoria
È piena di dolor. La giovinezza
630Non mi restò, per me non son più figli,
E vincolo non è quaggiù nel mondo
Pari a quel della prole. Ha l’ingiustizia
Mezzo e confin; per adoprarla, grave
Cagion trovar si dee. Ma tu qual mai
635Cagione avevi? E se l’avesti, fuori,
Fuori l’esponi e dì, l’alta cagione,
Per cui tanta su me sorte malvagia
Meditavi di duolo. Umil son io,
Povero fabbro, e vennemi sul capo
640Dal mio signor divoratrice fiamma.
Che se prence sei tu, se due serpenti
Rechi, segno del ciel, sulla cervice,
T’è pur forza a me ancor render giustizia
E l’offesa purgar. Prence di sette
645Regïoni del mondo esser ti vanti;
Deh! perchè sarà mia del duol soltanto
La trista eredità? Grave, o signore,
È la ragion che rendermi t’è forza,
E stupir ne dovrà tutta la terra,
650Che allor, per tal ragion, chiaro farassi
Che al dì che giunse a’ figli miei tal sorte,
Lor tenere cervella a’ tuoi serpenti
D’uopo fu dar, dinanzi al popol tuo!
     Mentr’ei così dicea, Dahàk guardava,
655E gli nascea per quegli accenti in core
Gran meraviglia. A Kàveh il figlio suo
Reso fu allor; cercàr di farlo amico
Per promesse e lusinghe i circostanti,
E cenno il re gli fea ch’ei pur sul foglio

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660Testimone gli fosse innanzi a Dio.
Ma Kàveh, appena il lesse, a quo’ vegliardi
Si volse in gran disdegno, e, Voi, sclamava,
Seguaci abietti d’un impuro Devo.
Timor di Dio dal vostro cor perverso
665Cancellaste così? Tutti io vi scorgo
Precipitar d’inferno all’ime chiostre
Così oprando, voi sì, chè ai detti suoi
Fidaste il core. Ma non io su questo
Foglio dinanzi a Dio sarò per lui
670Testimone giammai. Nessun pensiero
Di tal re forsennato il cor mi tocca.
     Balzò dal loco suo, tremante, ansante,
In alte grida di furor; quel foglio
Lacerò quindi e calpestò sul suolo.
675E col diletto figlio suo che innanzi
Gli andava, uscì dalla regal dimora,
Gridando scese nella via. Ma i prenci
Fecer plauso a Dahàk. Di nostra terra
Inclito re, dicean sommessi, al giorno
680Della pugna, fatal, deh! mai non venga
Dalle plaghe del ciel procella avversa
A colpirti la fronte. Oh! perchè mai
Nella presenza tua, quasi un eguale,
Entrar potrà costui, Kàveh ciarliero,
685Acceso il volto? Il foglio che noi tutti
Legava a te, signor, dal tuo comando
Sè disciogliendo, ei lacerò. Partissi
Pien di corruccio il cor, sì che diresti
Che un patto con Fredùn già il lega e stringe.
690Ma noi cosa peggior mai non vedemmo,
E nostr’alma si perde in ciò confusa.
     Stupenda cosa udrete voi, rispose
L’indclio re. Poi disse a que’ vegliardi:
Or sì temo davver che si converta
695In tenebre d’orror quest’alma luce

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Del dì giocondo!... Allor che da le soglie
Kàveh mostrassi e il grido suo gli orecchi
Acutamente mi ferì, nel mezzo
Di quest’aula regal, tra me, tra lui,
700Levossi un monte di solido ferro
Veracemente. E allor ch’ei si percosse
Il capo con la man, questo mio core
Parve spezzarsi per non so qual forza
Misterïosa... Ma qual mai sovrasti
705La sorte a noi, chiaro non è, chè sciorre
Del ciel gli arcani a niun fu dato in terra.
     Così proruppe da la reggia il fabbro,
E intorno a lui per le affollate piazze
Turba infinita si raccolse. Un grido
710Ei là in mezzo levò chiedendo aita,
Tutta del mondo a richiamar la gente
A più retto sentieri Ma quell’adusto
Cuoio onde i fabbri lor ginocchia e stinchi
Copronsi allor che a martellar si stanno
715Su l’incude sonante, egli d’un’asta
Legava a sommo, e sorse alto scompiglio
E negra polve da le vaste piazze.
Ed ei, quell’asta nella man serrata,
Venìa gridando: O glorïosi, o prodi,
720Fedeli a Dio, ciascun di voi che sente
Affetto in core per Fredùn, che i ceppi
Infranger brama di Dahàk, ne venga,
Venga con me sino a Fredùn, riposi
Di quella maestà con meco all’ombra.
725Venga ciascun di voi, che veramente
È Ahrimane costui, nemico a Dio
Nel profondo del cor. Per questo vile
Adusto cuoio si parrà ben chiara
Qual d’amico sia voce e qual d’avverso.
730     E tutti ei precedea, quell’uom gagliardo,

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Nè s’adunò su l’orme sue di gente
Picciola schiera. Ei ben sapea qual loco
A Fredùn fosse albergo, e là si volse
E corse ratto al segno suo mirando,
735Fin che le soglie a valicar pervenne
Del giovinetto re. La gente accolta
Da lungi il vide, e voci alterne udironsi.
     Vide quell’asta e vide quell’antico
Cuoio il novello re, sì che ne trasse
740Di lieta sorte lieto augurio. Il volle
Adorno allor di serico broccato
Tessuto in Grecia, ove in lucenti gemme
Eran figure sovra un aureo fondo,
E quale è il disco della bianca luna
745Sul suo capo il levò. Di bella sorte
Quel fu principio al nobil prence. Il cuoio
Egli adornò di panni vïoletti,
Di verdi e rossi, e lo chiamò Vessillo
Di Kàveh. Da quel dì, quando un novello
750Prence d’Irania alto sedea sul trono,
Allor ch’egli cingea l’aurea corona
Di re dei re, sul vile cuoio adusto
Una gemma ei ponea sempre novella,
E drappi di broccato e di lucente
755Seta ancor vi aggiugnea. Tale divenne
Di Kàveh quel vessil, che nella oscura
Notte splendea sì come sol nel cielo,
E ne traea di più gioconda sorte
Lieta speranza in cor sempre la gente.
760     Dopo cotesto, tempo ancor si volse
Le cose da venir tenendo ascose.
Ma Fredùn che vedea della sua terra
Misero stato e comandar per l’ampie
Regïoni del mondo un tristo sire,
765Dahàk superbo, corse alla sua madre
Cinto dell’armi e con un casco d’oro,

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Degno di re, su l’alta fronte, e disse:
     Madre, dègg’io partir, chè aspra tenzone
Mi attende, e tu lo sai. Nessuna cura,
770Fuor che dinanzi a Dio chinar la fronte,
Ti alberghi in cor. Di questa terra umile
È assai più in alto Iddio. La man solleva
A lui soltanto nella tua distretta.
     Pianse la madre a quegli accenti, e a Dio
775Così pregò nel suo dolor: Io questo
Diletto figlio mio, Signor del mondo,
Accomando a tua fè. L’opre dei tristi
Dall’alma sua lungi rattieni, e libera
Da ogni stolto mortal rendi la terra.
780     E del partir rapidamente allora
Fredùn all’opre attese; in core intanto
Alto secreto ne tenea. Ma due
Generosi egli avea cari fratelli,
Compagni suoi, d’età maggiori. Il primo
785Keyanùsh si dicea, l’altro Purmàyeh
Di lieto cor. Quel suo secreto allora
Disvelava ei così: Lieti mai sempre
Viver possiate voi, dolci fratelli,
Chè a lieta sorte volge omai quest’alto
790Cielo soltanto, e nostro serto illustre
Renduto a noi sarà. Qui m’adducete
Incliti fabbri. Essi una ferrea clava
Batter mi denno ponderosa. — Avea
Le labbra aperte, e già partìan correndo
795I due fratelli. Scesero a le piazze
De’ fabbri adusti, e qual de’ fabbri un chiaro
Nome in terra chiedea, corse bramoso
Di Fredùn all’ostello. Acuta in mano
Una sesta prendea l’inclito sire
800Rapidamente, e di sua clava tutta
La foggia lor svelò, ne disegnando
Su l’alta polve la figura in terra,

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Qual è d’una giovenca il capo eretto
805Con ardue corna. Stesero la mano
All’opra i fabbri con intenta voglia,
E poi che tutta della ponderosa
Clava fu l’opra a fin condotta, in folla
Nella presenza del signor novello
810Festosi la recâr, sì come sole
Che fiammeggia nel ciel, tutta splendente
D’un arcano fulgor. Piacque l’industre
Opra de’ fabbri al giovin prence, e molto
Oro ed argento lor donò con vesti,
815Ravvivando nel cor la morta speme
In più lieto avvenir, giorni sereni
Annunzïando. Se avverrà, dicea,
Ch’io sotterri l’orribile serpente,
Dalla polve del duol la fronte vostra
820Purificar saprò. Tutta la terra
Novellamente menerò a giustizia,
Invocando di Dio l’augusto nome.

V. Partenza di Frêdûn.

(Ed. Calc. p. 38-42).


     Parve il sole toccar pel cielo errante
Fredùn col capo altero, alla vendetta
825Del padre accinto, e uscì festoso e lieto
Nel giorno di Khordàd, con sorte amica,
Con lieto augurio. Alle sue soglie innanzi
Stuol s’accolse d’eroi; le nubi in cielo
Rasentò veramente il trono eccelso
830Ov’ei sedea. Ma gli elefanti e l’ampia
Schiera de’ tori precedea con ricca
Provvigione allo stuol de’ suoi guerrieri.
Keyanùsh e Purmàyeh erano al fianco
Del novello signor, lieti, devoti

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835All’amor suo, qual se minori a lui
Fosser degli anni. Ed ei partìa, scendendo
Come turbo invasor di loco in loco,
Piena la mente d’un pensier di truce
Vendetta, pieno il cor d’alta giustizia.
840Sugli arabi destrier, velocemente
Sospinti in corsa, venne a un loco ameno
Quel drappello d’eroi, là ’ve una gente
Vivea, devota a Dio. Scese in quel loco
Di penitenti solitari e antichi
845E un saluto invïò Fredùn possente
Con lieto core. E allor che in ciel la notte
Si fe’ più oscura, da quel loco a un tratto
Venne persona amica. Avea le chiome
Nerissime disciolte in fino al piede,
850Volto leggiadro qual dell’alme elette
Che stanno in ciel. Di Dio veracemente
Era un angiol costui, di paradiso
Quaggiù disceso, perchè al re novello
Tutte ei svelasse le leggiadre cose
855E le malvagie ancor. Vennegli innanzi
Quale alata Perì, nascostamente
Di magic’arti gli svelò le ambagi,
Chiave che scioglie ogni periglio o danno,
Con arcano poter per ch’egli aprisse
860Ogni mistero, ogni nascosta cosa.
E Fredùn ben conobbe esser divina
Opra cotesta, non inganno o frode,
Non Ahrimàne, e s’allietò, fe’ rosse
Le gote ancor, chè giovinetto egli era
865Di membra e in suo poter più nuovo ancora.
Ma i regi scalchi gli apprestâr frattanto
Lauta una cena e gl’imbandîr la mensa
Degna di sì gran re. Poi che consunto
Fu il cibo apposto, altro desìo gli venne;
870Grave si fe’ quel capo augusto, e sorse

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Brama possente in lui di un dolce sonno.
     Ma i fratelli di lui che la divina
Apparizion vedean, l’opre leggiadre
E la fortuna di Fredùn propizia,
875D’un moto si levâr, tenner consiglio
Di trarlo a morte. In que’ deserti lochi
Era un gran monte e su quel monte un’alta
Rupe scoscesa, e que’ malvagi, due
Fratelli suoi, lungi dagli altri tutti,
880Nascosti a ognun, del solitario monte,
Sotto al qual dolcemente riposava
Re Fredùn giovinetto, allor che scorsa
Non fu lung’ora della tarda notte,
Ratto salîr la cima; e niun sapea
885Lor disegno perverso. Una gran pietra
Scrollàr dall’ime basi; e poi che niuno
Vedean confine al perfido desìo.
Poi che divelta fu la pietra immane
Che alla fronte colpir dovea d’un tratto
890Il nuovo re, giù la mandâr dall’alto
Con immenso fragor. Vider già spento
L’addormentato. Ma quell’uom prestante
Che nel sonno giacca, fu dall’immenso
Fragor riscosso del cadente sasso,
895Di Dio per volontà. Quella celeste
Arte appresa in tal dì, sul loco ov’era,
Fermò d’un tratto la rotante pietra,
Nè quella più si mosse. Il glorïoso
L’armi si cinse allor, nè dell’evento
900Volle far motto ai due malvagi, e in via
Si pose. Il precedea dinanzi a tutti
Kàveh ardito e leal. Pieno era il core
D’un feroce desìo d’aspra vendetta
Contro a Dahàk; di Kàveh alto il vessillo,
905Vessillo d’un gran re, spiegato al vento
Ei sostenea per quel dirotto calle,

[p. 183 modifica]

Fin che d’Arvènd a la regal riviera
I passi ei soffermò, qual uom che cerca
Gloria e corona imperial. — Se lingua
910Pehlèvica non sai, l’arabo nome
D’Arvènd è Dìzleh. — Ma quel re possente
La terza stazïon del suo viaggio
Fe’ su le sponde di quell’ampio fiume,
Di Bagdàd fra le mura. E poi che giunse
915Dell’Arvènd risonante all’erme sponde,
Un saluto ei mandò lieto e cortese
Ai portolani. Or voi, disse, da questa
Parte del fiume navicelli e barche
Mandate in fretta, e me con questi eroi
920Passate all’altra sponda e niun qui resti!
     Ma i portolani navicelli e barche
Non vollero apprestar, nè a quella prece
Si movean di Fredùn, ma ben risposta
Diergli in tal guisa: Di quest’ampia terra
925Il supremo signor grave comando
Ne fe’ in secreto: «Navicelli e barche
Mai non darete voi, disse, ove un cenno
Da me non venga col regal suggello».
     Grave uno sdegno concepì nel core
930Questo ascoltando il giovinetto sire,
Nè gli venne timor per quel profondo
Fiume sonante. La regal sua vesta
Si strinse ai fianchi, alto salì in arcioni,
E pieno d’un desìo di gran vendetta
935E di aperta tenzon, spinse nell’onde
Il nobile destrier, d’un color vago
Come di rosa alla stagion più bella.
     Strinsero allor le fulgide cinture
I suoi compagni, e l’uno dietro all’altro
940Nel fiume si gittò sul suo destriero,
Benedicendo, e dentro alle spumose
Onde del fiume fino all’ardua sella