Il Parlamento del Regno d'Italia/Domenico Elena
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senatore.
Molto volentieri vergo memoria che riguardi la persona di Domenico Elena senatore, per ciò che è di quegli uomini che se hanno onore e fama di dotti e savi, a se ne debbano e non ad altrui, e possono servire di esempio imitabile a coloro che sentono doveroso e buono educare l’intelletto e l’animo a fine di rendersi atti a prestare opera utile al loro paese.
Domenico Elena conta cinquantadue anni; nacque a Genova da famiglia tra le prime della mercatura grande, ma da cui si era da alcun tempo smessa; studiò nelle solite scuole di preti e di frati, poi frequentò vari corsi di scienze all’Università come uditore, gran mercè in quella città per quel tempo a un figlio di negoziante. Gli scritti di economia politica del Romagnosi cadutigli fra mano lo inchinarono a quello scibile, e com’era senza direzione nel suo desiderio d’istruirsi conobbe allora la via che dovea percorrere. I negozianti genovesi studiano le lingue, l’Elena aveva imparato l’inglese e lo parlava, diè dentro agli scrittori britannici che di quella scienza erano famosi, e volle anzitutto conoscere la terra italica dalla quale tanta civiltà si era sparsa nel mondo, e se allora pareva ancella delle altre nazioni gli sembrava non aver dovuto perdere tutto della sua abilità al potere. Visitò le principali città, ma Roma non vide, che è tanto difforme di popolo e di costumi da tutte l’altre. Le teorie de’ libri si concretavano sotto propria figura nell’intelletto dell’Elena, e giustamente rilevando che fra tanti ostacoli alla civiltà è resistente la ignoranza delle masse, cominciò a meditare come pro porre e comporre istruzione a fugarla. Era il 1846, e l’Elena si fece pubblico alla sua patria con una stampa in cui dimostrava la povertà dell’istruzione del suo paese, il bisogno di provvedere alla necessità e come buon merito ne avrebbe avuto il Municipio prendendo in esame le sue considerazioni, e rimediasse. Era nel Municipio un cavaliere Viani cognato suo, uomo quieto ma benevogliente di ogni facoltà civile. Egli fece sue le proposte dell Elena, e il Municipio accettolle come ventura, e presentolle con istanza d’autorità ad Alfieri di Sostegno, ministro di pubblica istruzione. Genova per quelle mosse ebbe poco di poi scuole di metodica è classi d’insegnamento in maggior numero, e via via quel più ogni anno crescente d’istruzione di che finalmente oggi si onora e si giova; al quale incrementò più tardi l’Elena adoperossi con facoltà e con animo sapiente.
Riuscito a bene questo primo concetto l’Elena attendeva alla ispezione degli asili aperti all’infanzia povera, costretti prima a governo di monache sì poco pietose da essere da una dama coraggiosa colte sul manesco e cacciate, dati poi all’amorosa carità dei cittadini che li mantenevano, fra i quali attivo ed assiduo e gradito il Viani che ho nominato. Attendeva, dico, a quella cura prima e solenne della moralità delle masse, ma insieme concorreva col suo ingegno qual Giudice (sebbene giovane uomo) nel tribunale di Commercio a illuminare colle proposte e coi rapporti che la Camera di Commercio di Genova gli affidava d’esporre al Governo la miglior via di promuovere le industrie e le ricchezze moltiplicare, e spezialmente allora che si trattava della riforma delle tariffe doganali, della lega doganale commerciale di tutti gli Stati d’Italia (principio di unità politica!), della comunicazione coll’interna Svizzera e colla Germania per una via ferrata attraverso le Alpi; ed altresì concorreva col denaro e colla parola ad aprire un varco alle idee civili nel paese con venti altri sotto la direzione e la inspirazione di Domenico Buffa e di Terenzio Mamiani, fondando una pubblicazione quotidiana di letterato e di politico in nome di Lega italiana. Ma per quella faccenda era necessità sottrarsi dalle esigenze vessatrici di una censura paurosa e più spaurita dal romore che già spandevasi per Italia per rompere le incomportabili catene del dominio assoluto. Una eletta di persone colte adunavasi da Giorgio Doria marchese, anch’esso or senatore, e delle occorrenze trattava e de’ possibili provvedimenti si consultava. Un di fu deciso che una prima riforma si chiedesse, e quella fosse dalla revisione della stampa. Mano alla penna; chi scrive? Nicchiarono con iscuse i creduti più abili; scrisse l’Elena la dimostrazione della iniquità che gl’ingegni eletti fossero giudicati dagl’ignoranti, che gli onesti pensamenti scomunicavano come delittuosi. I congregati approvarono, fu trasmessa a Villamarina ministro per la polizia e per la guerra, e subito diffusa manoscritta a guadagnar favore dalla pubblica opinione. Questa si dichiarò apertamente, e il Villamarina che litigava con La Margnerita ministro degli esteri, la esaudì riformando ragionevolmente la censura. Biasimavano come demenza l’ardimento i nati per servire; lodarono, dopo l’effetto, il pensamento. Ma la Lega poco duro. Mamiani si ritrasse quasi subito e andò a Roma colle speranze che non gli furono vane; e come il 1848 tremò per Austria nella rivoluzione lombarda, il Buffa, senza nulla dire a nessuno, data ad altri la Direzione della Lega, andò col fucile a combattere lo straniero. Non ne potè, rottasi una gamba per via, ma la patria gli tenne grado dell’atto, pur non bene fece co’ soci, de’ quali doveva, come d’interessi comuni, aver rispetto, e nè coll’Elena il quale responsabile della gerenza poteva essere compromesso. I soci si ritrassero dal Buffa e dalla Lega, fondando il Pensiero Italiano sotto la direzione del Bettini, e l’Elena vi scrisse d’istruzione popolare più specialmente. Ricordo che anch’io vi fui onorato d’accesso. Ma la stella d’Italia era sorta in cattivo influsso, tutto rovinava, rovinò eziandio il ' Pensiero che, preso dal tipografo Ferrando fu da lui ceduto ai Mazziniani che in que’ di presumevano di salvare essi soli la patria tradita, dicevano, da tutto il mondo: il quale Ferrando poi nel 50 stampò la Gazzetta Popolare in cui io le dottrine del coltello e della calunnia fieramente combattetti.
II Buffa era divenuto ministro e nelle agitazioni di Genova era andato colà con pieni poteri a quietare e assestare. Elena si stette al largo da lui; io lo visitavo spesso, e mi dolevo, che intemperanze d’infuocati, che negavano ogni ragione, gl’impedissero il bene che aveva di netto in animo a fare. Lo aiutai io assistendo alle sedute del Circolo rivoluzionario, e stampando nel Censore (che assunsi e scrissi tutto da me) le confutazioni di tutti gli errori che minacciavano di trarre la città a perdizione. Primo io in Italia a dare scritture pubbliche a si basso prezzo che ogni persona potesse procurarsele. Quel Censore faticava i torchi a tal segno chela gente se lo prendeva dalle mani, e come speculatori indegni non mancarono mai, un venditore libraio riceveva da me l’agio del vendere e il premio, e con tutto ciò incariva i fogli quanto più cresceva la ricerca. Si sarebbe detto che voleva col caro allontanare e diminuire i lettori se l’ingordigia del guadagno non fosse stata più che palese. Provvidi io ad altri mezzi e il buon agio mantenne la diffusione.
Quelle scritture aiutarono a voltare l’opinione in favorevole al Buffa, e me ne rimase grato, ma presto dovette ritornare a Torino che si rompeva la tregua.
Siete voi provveduti? gli chiedevo io. — No, rispondeva. — Ma, andate incontro a certa sconfitta! — Cosi si vuole, soggiungeva, da ingannatori e ingannati, non possiamo esimerci. - Eppur si vinceva, senza gli avversi alla monarchia. Dopo il disastro di Novara, Buffa ministro, Depretis e Lanza che furono ministri da poi, protestarono contro l’esercito; io feci la mia parte nel Censore, di che poi si tenne a me il broncio che non si tenne a coloro. Elena che ai comizi elettivi era stato fatto consigliere del Comune di Genova prese buona parte a salvare la città dalle conseguenze l’errori che si moltiplicavano dalle autorità inette in un fermento maraviglioso che andava crescendo. Capitano della guardia nazionale andò alla difesa dei forti quando il Governo mandò La-Marmora a mettere ragione colle armi ad una città che si reputava protestare per Italia, ma allorchè i mestatori si smascherarono e fu manifesto il tradimento politico egli si ritrasse con tutti gli onesti. Si ritrasse dall’officio ma non mai dal debito di cittadino e ognuno sa come eziandio con pericolo della vita salvasse al quartiere della guardia nazionale quella del colonnello della sua legione, sebbene egli avesse opinioni politiche assai dalle sue di verse. Quietate le cose fu chiamato a fungere le veci del sindaco, e poco appresso a sua insaputa e a sua sorpresa fu nella concorrenza di Tommaso Spinola marchese e di Terenzio Mamiani del quarto collegio della città mandato a rappresentare lo Stato nel Parlamento subalpino. Colà trovossi col Buffa nel centro sinistro capitanato allora da Urbano Rattazzi; conosciutisi bene l’un l’altro furono vicendevoli estimatori de’ meriti e amici così che andato poi nel 1852 Buffa Intendente generale a Genova e, l’Elena smessa in ossequio del padre e in dispiacer de colleghi la Deputazione, fatto Sindaco della sua città, si vide quanto la reciproca stima del maestrato primo della città e del maestrato primo del governo fosse buona ventura per lo Stato e pei Genovesi, massime in que’ dì in che gli animi esacerbati dai casi del 59, infocolati dai mazziniani, ogni giorno trovavano di che turbarsi.
Gli atti del Parlamento subalpino son documento della solerzia e della sapienza economica dell’Elena; tanti progetti portò dalle Commissioni relatore savio e felice, tanti approvati dalla Camera. Famoso è il fatto del prestito forzoso decretato da Revel per venti milioni dalla Banca di Genova, ora Banca nazionale, dispensandola dal cambio dei biglietti e dando a questi corso forzato onde sarebbe andato a male l’interesse di tutti. Opposesi fermamente e con istringente dialettica l’Elena così che la Camera di Commercio di Ge nova creò una commissione mista di persone della Camera stessa e della Banca, inclusovi l’Elena, il quale vi fu si può dire lo spirito direttivo, e la commissione così condusse la cosa che il decreto fu modificato in bene della Banca e del pubblico e i biglietti quasi nulla perdettero del valore del pari. Deve la Marina mercantile all’Elena e al deputato Bollo se la sua cassa degl’invalidi fu separata dalla cassa della marina militare un po’ troppo indifferente della equità per la sua compagna.
Assunto l’officio nuovo diedesi ad esso anima e corpo adoperandovi gli studi più positivi. Primamente alla istruzione popolare insieme alla conciliazione fra truppa e cittadini, fra Piemontesi e Genovesi portò opera e finimento. Ministero e Municipo tenne in amicizia sol lecita, giovandogli la buona fama di savio e probo e franco e leale, e le amicizie contratte nel Parlamento. Gli effetti buoni soddisfacendo a tutti egli raccoglieva il frutto delle sue fatiche quando il cholera entrò furioso a guastare i corpi i cui animi andavano sanati. Scapparono i più; il Consiglio della città, dati a lui pieni poteri, immantinenti si dileguò. Il Sindaco era investito così della parte propria esecutiva secondo leggi d’allora, divenne re nella sua città; moltissimi avendo perduto l’animo e quasi l’intelletto. Elena si pose permanente in Municipio, fevvi portare un lettuccio da riposarvi in momenti che non furon mai lunghi, e rimase tutto per tutti, impavido fra tanti spaventati. In ogni canto della città era sciagura, ed Elena vi si trovava; confusioni dappertutto, ed egli freddo e pronto a riordinare; disagi sollevo, miserie soccorse; colla presenza imperturbabile gli agenti della cosa pubblica rincorò. Bisognava trovar lavoro a molte braccia abbandonate; fu buona ventura quell’occasione perchè si demolisse l’avancorpo del Palazzo ducale, si spianasse Piazza nuova, che fino allora per cento progetti non s’era potuto, si spinse innanzi il taglio delle nuove vie ai lati di Carignano e quello dell’Assarotti che poi divenne una vera bellezza della Genova bella. Altra buona ventura per la città fu quella disgrazia che molti mali o coperti o ignorati si conoscessero e si abolissero; sanate molte case insalubri, bandite dall’abitato altre e sgombrate; ripetute ispezioni e ripetuti ordini migliorarono la pubblica igiene. Ma l’epidemia del 54 non aveva fatto partenza affatto e riapparve l’anno di poi, e l’Elena fu da capo legistatore ed esecutore nel Municipio. Il Guverno con plauso di tutta la città creollo Senatore e fecelo decorato della commenda mauriziana. Freschi, celebrato scrittore di medicina e professore all’università di Genova, diede conto di tutte le mirabili fatiche e della provvidenza di quell’uomo in un volume assai capace col titolo di Storia documentata del Cholera in Genova, bella e importante relazione di tutto che in un grandissimo frangente sia capace un uomo di cuore e di superiore intelligenza.
Se fu ammirabile in quel premente in cui l’individuo di ciascuno riconosceva certamente benefizio, fu ben più onorevole per lo quieto e sordo lavoro di patria carità che assiduissimo manteneva della conciliazione della città col Governo dello Stato. L’Italia aveva fatto sue prime prove padrona di sè nel simulacro suo ch’era l’esercito de subalpini ito in Crimea. La fama si era sparsa e suonava gloriosa in tutta Europa quando i prodi tornavano alla loro terra. Attendevali Genova a sbarcarsi nel suo porto; e il sindaco aveva procacciato che la città si onorasse onorando. Ecco le navi, sbarcano i soldati, La-Marmora li riconduce. Chi si ricorda più di chi venne a bombardare, come dicevano, la città? Fu una festa frenetica di una gioia smisurata avvampante che tutto il popolo gli esultava d’intorno. Commosso quel Generale lasciava cadere le lagrime e abbracciando il sindaco Elena ringraziavalo del benefizio da lui procurato alla patria italiana con quella conciliazione.
Tutti dunque erano all’Elena grati e obbligati, quando il sorteggio del maestrato lo rifaceva eleggi bile al Consiglio municipale doveva esserci condotto a e voto unanime, ma Elena aveva un peccato addosso, che non si doveva nè purgare ne perdonare. Senatore aveva votato per l’abolizione dei conventi; il chiericato e il bigottismo, esuberanti in Genova allora più che ora, schierossi sulla via ch’ei dovea ricalcare e gli contrastò solennemente e indecentemente il passo. Fu un vero scandalo che produsse per altro una riazione perchè i liberali si accolsero in massa, tennero posto e ricondussero col soverchiante voto l’Elena al Consiglio della città. La giustizia fu resa, ma chi gli aveva cominciata la guerra gliela ingrossò e tanto lo ebbe tribolato che, sebbene spiacendo ai colleghi, diede le sue dimissioni e si ritrasse da quegl’impegni. Ciò fu nel 1856. L’anno di poi fu portato alla Presidenza della Camera di Commercio, e fu sotto il suo officio che furono fatti i grandiosi lavori alla borsa, riprese le opere di ristauro e di adattamento al Portofranco, accresciute le scuole tecniche, provvedute di ampi locali, moltiplicità di macchine e di professori amplissimi: Boccardo genovese all’economia, i veneti Bucchia, Novella, Lassovich alla nautica e alle costruzioni navali, il Costa alla geometria applicata alla nautica, Carlevaris alla mercigrafia o arte di conoscer le merci che più specialmente si negoziano al portofranco. Secondarono lui sindaco al Municipio, secondaronlo alla Camera di Commercio, e nella opinione della città Caveri, Boselli, il prefato Viani, il canonico Costa, Morro, Da - Passano e lo scultore Cevasco, non tanto piacenti di illustrare la città con tanti provvedimenti di scuole molte e varie, quanto solleciti di non trascurare una intelligenza abile che lavorando con lui era cagione di onore a tutti. Era un vero apostolo dell’istruzione . Non sono io in tutte le sue idee, in molte anzi differisco; ma una sua capitale accetto: la libertà d’insegnamento sotto alcune norme generalissime e salvo il costume; così mi piace ch’ei voglia il libero esercizio della professione di medico, avvocato, ingegnere con poche cautele; esami rigorosi alle università per chi voglia diplomi, università poche ma dotte, ma onorevoli; istituti di perfezionamento. Non mi piace che i licei voglia cogl’istituti tecnici in facoltà dello Stato e i ginnasi e le scuole tecniche date alle provincie: vi si oppone l’economia dello studio e della elezione la gara degli uomini liberi e quelle altre ragioni che ho esposte nelle mie Lettere Sei al senatore Matteucci; ma la divergenza delle opinioni non scema la riverenza dell’amicizia .
Da che si volle ministrar l’istruzione come la politica e la finanza era ben degno che amministratore nel suo paese fosse l’Elena e fu, e quasi tutto il 1859 ebbe carica e facoltà di Provveditore agli studi, ma ministro all’interno il Rattazzi fecegli il tre del novembre richiedere se accetterebbe posto di Governatore in una delle principali provincie del regno. Elena accettò e scelse Alessandria grato all’amico; se valeva, buono era valesse dove l’amico aveva patria, nome, e autorità . Pochi mesi erano corsi e il conte di Cavour che l’aveva innanzi ringraziato d’avere accettato il sindacato di Genova, ed eccitatolo a far procedere la pratica del dock arrestata da gente la cui vista non mirava molto lontano, risalito ministro fu lieto di trovar l’Elena in faccenda di Stato e subito si volse a lui stesso per cosa importantissima: accettasse il Ministero dei lavori pubblici, e qui Elena, ritraendosi consigliò che al gabinetto entrasse un lombardo. Jacini e Trezzi, lombardi, furono pregati entrassero alla finanza, ma alla finanza ripugnanti, e ad esso stessa negandosi l’Elena, rimase che il lombardo avesse i pubblici lavori, e fu ministro il Jacini, che ora prosegue dopo non lunga interruzione l’opera sua. Cavour voleva pur l’Elena al gabinetto, e per altre sue speciali cognizioni invitollo alla marina, ma come il grand’uomo avrebbe voluto nominare un altro personaggio alle forze marittime, e pareva all’Elena scemata l’autorità nella grandezza della responsabilità ministeriale amo meglio rimanersi nel suo governo provinciale, Cavour non trovando come acconciare, e sono ragioni alte in carte che io ho vedute, non nominò il generalissimo e tenne anche la marina per sè. Documenti onorevolissimi per l’Elena esistono su questa pratica di che potrebbe illustrarsi se non si fosse illustrato e non si illustri di nobili e perseveranti servigi alla patria in una diligenza e in una probità che ha dell’esemplare.
Durò in Alessandria sino al ministero Peruzzi che succedette con arti irose al ministero Rattazzi, e cadde poi per più irose forze non di ministrabili, ma di popoli concitati da mutazioni di condizioni proprie minuite nell’accrescimento di forza alla condizione generale d’Italia. Elena che era salito alla dignità di grande officiale mauriziano, presentasi al Peruzzi e gli dice: io amico al Rattazzi non posso, non devo, rimanere governatore del suo paese senz’aombrare o lui, o il ministero: se per vostro giudizio non valga a durar negli offici, io mi rincaso nella famiglia. Vaste e belle provincie gli offerì il Peruzzi, ed egli scelse Novara, poi per la salubrità non quale gli bisognava, abbandonolla e accettò Cagliari che quale marittima è più secondo suo nativo e sua salute. Alessandria mal comportò la perdita di tal personaggio e i Capiluogo di circondario e la Provincia e portarongli a Novara segni graziosi della loro riconoscenza. Uno dissentì, e vilmentò lo biasimo, a che l’Elena rispose nulla, lasciando che l’atto si condannasse da chi sapeva come fosse frutto di arroganze frenate per ragioni d’ufficio! Elena questo ebbe in pensiero sino dai primordi suoi che il Governo si limitasse a favorire e fecondare lo spirito illuminato, attivo delle popolazioni, a dare consigli, a spianare difficoltà, rimovere ostacoli al conseguimento del bene, a far nulla o pochissimo di sua iniziativa, e poichè non si può sopprimere l’interferenza degli offici governativi, a renderla mezzo ed aiuto alla prosperità,ma con riserbo: larga ed intatta l’azione dei cittadini. Suo grande studio ecclissarsi, aiutare e non parere onde scaturisca il bene, che forse è promosso da lui, ma altri attua con gran calore, e i più favoriscono perchè esce cosa di pubblico e di tutt’altre persone che di governo. Bello amor proprio dominare amor proprio, e veder nascere, crescere, e diffondersi la civiltà e la prosperità delle genti, moltiplicarsi gli operanti perchè non incontran quell’io che li umilii, e spesse volte distona dai loro ben utili pensamenti. Ma io lodo colui a cui è ben cara la lode, per altro non quella che non esce dalle cose: spirito antico!
Poco si può dire dell’azione sua in Senato perchè non potè frequentarvi, stretto al servizio del suo governo, ma la sua larghezza di libertà attemperata dalla fina prudenza dell’usarla a procurare alle gene razioni venture uomini e cose migliori che le presenti non ebbero dal tempo passato, mi conducono a rin graziare che abbia lasciato ad altrui quei compiti che possono più facilmente allestirsi, avvegnachè la difficoltà rimane più grande nell’applicare e rendere fruttuoso il deliberato dai poteri dello Stato.
Desidero che questa memoria sia gradita sebbene disornata, scusandomi la spartanità del soggetto che ripugna a fulgori; e auguro che per la sua virtù siano le parole che lo riguardano, care quant’egli è grazioso d’ogni suo studio al bene di chi è in godimento dei suoi onorati servigi.
luciano scarabelli
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