Il Quadriregio/Libro secondo/VII

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VII. Dove trattasi del regno d’Acheronte

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
VII. Dove trattasi del regno d’Acheronte
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CAPITOLO VII

Dove trattasi del regno d'Acheronte.

     Miglia’ di mostri piú oltre trovai,
i quai bench’io li narri e li racconte,
appena a me si crederá giammai.
     Anime vidi al lito d’Acheronte,
5ch’avean sette persone e sette facce;
e queste su in un ventre eran congionte.
     Pensa sette uomin, che l’un l’altro abbracce
dietro alle reni e con sette man manche,
con sette destre ed altrettante bracce.
     10Ed avean sol un ventre e sol due anche
e sol due gambe e sol un umbillico:
sí fatti mostri non son trovati anche.
     E ciascun delli visi, i quali io dico,
quant’era piú appresso a quel davante,
15piú giovin era e dietro piú antico,
     sí che la prima faccia era d’infante
or ora nato, e l’altra puerile,
d’adolescente il terzo avea sembiante,
     giovine il quarto, il quinto era virile,
20il sesto di canuti era cosperso,
e l’ultimo un vecchiaccio tristo e vile.
     Miglia’ di mostri fatti a questo verso
stavano a lato di quell’acqua bruna,
per passar l’onde del lago perverso,
     25il qual avea assai maggior fortuna,
che mai Carribdi, Scilla o l’Oceáno,
quando ha reflusso o quando volta luna.

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     Vidi Caròn non molto da lontano
con una nave, in mezzo la tempesta,
30che conducea con un gran remo in mano.
     E ciascun occhio, ch’egli avea in testa,
parea come di notte una lumiera
o un falò, quando si fa per festa.
     Quand’egli fu appresso alla riviera
35un mezzo miglio quasi o poco manco,
scòrsi sua faccia grande, guizza e nera.
     Egli avea il capo di canuti bianco,
il manto addosso rappezzato ed unto;
e volto sí crudel non vidi unquanco.
     40Non era ancor a quell’anime giunto,
quando gridò:— O dal materno vaso
mandati a me nel doloroso punto,
     per ogni avversitá, per ogni caso
vi menerò tra la palude negra
45incerti della vita e dell’occaso.
     Pochi verran di voi all’etá intègra;
spesso la vita alli mortali io tollo,
quand’ella è piú secura e piú allegra.—
     Dava col remo suo tra testa e ’l collo
50a’ mostri, che mettea dentro alla cocca;
e forte percotea chi facea crollo.
     Poscia rivolto a me, colla gran bocca
gridò:— Or giunto se’, o tu, che vivi,
venuto qui come persona sciocca.—
     55Minerva a lui:— Costui convien ch’arrivi
all’altra ripa sotto i remi tui,
’nanzi che morte della vita il privi.
     — Su la mia nave non verrete vui
— rispose a noi con ira e con disdegno,—
60ché altre volte giá ingannato fui.
     Un trasse Cerber fuor del nostro regno,
l’altro la moglie; or simil forza temo:
però voi non verrete sul mio legno.—

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     Minerva a lui:— Io chiedo ora il tuo remo,
65ch’io vo’ menar costui, o vecchio lordo,
da questo basso al mio regno supremo.
     Lassame andar, consumator ingordo,
ché a te non è subietta quella vita,
per la qual vive uom sempre per ricordo.—
     70Ratto ch’egli ebbe esta parola udita,
si vergognò ed abbassò le ciglia,
e senza piú parlar ne die’ la ita.
     Navigato avevam ben giá due miglia,
ed io mi volsi addietro, e vidi ancora
75venuta alla rivera altra famiglia,
     solcando noi per quella morta gora,
con gran tempesta tra le morte schiume,
col vento non da poppa, ma da prora.
     Sí come il falso argento torna in fume
80nel ceneraccio, che fa l’alchimista,
o cera che al foco si consume;
     cosí a’ mostri la lor prima vista
vidi mancare ed anche la seconda,
come cosa non stata o non mai vista.
     85E poi la terza colla testa bionda,
la quarta e poi la quinta venne meno,
navigando oltra per quell’acqua immonda;
     mancò poi il sesto di canuti pieno;
sicché di lor rimase un sol vecchiaccio:
90non sette piú, ma un tutti pariéno.
     La nave a riva avea a venir avaccio,
quand’io addomandai un gran vecchione,
che stava a lato a me a braccio a braccio.
     E dissi a lui:— Perché ’l demòn Carone
95sí vi disfá? e perché, navigando,
sei parti ha tolte alle vostre persone?—
     Rispose:— Quel Signor, che ’l come e ’l quando
sa della morte e la vita concede
non mai a patti, ma al suo comando,

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     100nel mondo sú lunga vita ne diede;
e fummo negligenti alla virtude
e ratti a far le cose brutte e fède.
     Però menar ne fa per la palude,
e nella ripa esto crudel pirata
105la vita a noi vecchiacci ancora chiude.
     E quando addietro la nave è tornata
e mena quei che stan dall’altro canto,
in quel rifatti siamo un’altra fiata.
     E ritornamo a quella riva intanto,
110ove pria fummo; e lí da noi s’aspetta
anche ’l nocchier con pena e con gran pianto.
     Questa è da Dio a noi giusta vendetta,
da che a ben far nostra vita fu tarda,
che sempre a morte nostra vita metta.
     115La Morte non è mai all’uom bugiarda,
ché lo minaccia in viso e fallo accorto;
ma egli chiude gli occhi e non si guarda.
     E, benché l’uom si vegga giunto al porto
degli anni suoi, è sí ne’ vizi involto,
120che prima il viver che ’l mal fare è scòrto.
     In quell’etá, che fa canuto il volto,
alcun nell’operar tanto è difforme,
ch’e’ non par vecchio, ma fanciullo stolto.
     Ed io lassú, dove si mangia e dorme,
125fui giá Del Bruno chiamato Francesco
e fiorentin lascivo vecchio enorme.
     Qui sta, (or poni un «vo» di dietro al «vesco»,)
Pier d’Alborea, che ’n tre vescovati,
secco negli anni, nel peccar fu fresco.—
     130Noi eravamo al porto giá appressati;
e tutti vennon men su nella riva,
sí come un’ombra ed uomin non mai stati.
     Io scesi in terra con la scorta diva,
ed ella disse a me:— Se ben pon’ mente,
135la vita umana non si può dir viva;

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     ché solo solo un punto è nel presente,
e nel futur non è ed anco è ’ncerta,
e del passato in lei non è niente.
     E, perché questa cosa ti sia esperta,
140pensa che un oro puro a parte a parte
a poco a poco in piombo si converta.
     Se un venisse a te a domandarte,
tu non potresti dir che quel fusse oro,
da che dall’esser òr sempre si parte.
     145Cosí è la vita di tutti coloro,
che ’l tempo mena a morte; e chi ben mira,
non dirá mai:— Io vivo,— ma— Io moro;—
     ché, mentre il cielo sopra voi si gira,
logra la vita, ed è cagion quel moto
150del caso e qualitá che a morte tira.—
     In questo ad ira Caròn fu commoto
e gridò forte:— Questa simil pena
ha l’uom; ma, come a cieco, non gli è noto;
     ché ’l ciel fa il tempo, quel nocchier che mena
155l’uom navigando d’una in altra etade
sino alla ripa, ov’è l’ultima cena.
     Dal tempo ha ’l corpo ogni infermitade;
e ciò, che è nel mondo all’uom molesto,
sí vien dal cielo o da natura cade.—
     160Poi si partí Caròn fiero e rubesto.