Il Re della Prateria/Parte seconda/2. Il paese dell'oro

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Capitolo Secondo.

Il paese dell’oro.



Il marchese Mendoza, dopo quelle parole pronunciate con voce tremante e soffocata, si era arrestato colle mani strette sulla fronte, mentre due grosse gocce di sudore gli scorrevano per le tempie. Pareva che in quel momento il suo cervello facesse uno sforzo supremo per sciogliere un difficile quesito.

Ad un tratto però rialzò il capo, e mentre un fugace rossore gli appariva sulle gote, guardando fissamente lo scorridore di prateria, che lo mirava con una viva curiosità:

— Mi è balenato un sospetto, — disse con voce agitata. — Sarà una pazzia, una speranza falsa, ma è meglio che voi sappiate tutto, quantunque io soffra assai nel dover riaprire una piaga chiusa da tanti anni.

— Parlate, marchese. Forse io potrò aiutarvi più di qualunque altro.

— Ditemi, innanzi tutto, un uomo bianco può diventare il capo d’una tribù d’Indiani?

— Ho conosciuto qualche capo che apparteneva alla razza bianca. Talvolta gl’Indiani adottano i loro prigionieri, li proclamano guerrieri, e se sono valenti e rinnegano la loro origine, li innalzano alla dignità di capi. [p. 126 modifica]

— Ah!... Se fosse vero!... Ascoltate: il marchese mio fratello, prima d’impalmare la marchesa d’Araniuez, aveva avuto un figlio da un’altra moglie, morta assai giovane. Era un ragazzo ardente, sfrenato, ardito, malvagio anche. Cresciuto, fu la disperazione e la rovina di suo padre e della marchesa d’Araniuez, che pure lo amava al pari di suo figlio Almeida. Dilapidò l’immensa sostanza della famiglia in pazzie d’ogni specie, riducendola quasi sul lastrico. Un delitto commesso più tardi a Rio Janeiro, durante un’orgia, lo costrinse a fuggire, e scomparve senza che nessuno sapesse per dove.

Morì il marchese, chiuse gli occhi per sempre anche la madre d’Almeida, e io raccolsi il giovanetto rovinato dalle pazzie di quel tristo fratello. Passarono molti anni, ed io più non pensavo a quello sciagurato dilapidatore, quando un giorno ricevetti una sua lettera datata da Loreto di California. Egli m’invitava a vendere gli ultimi avanzi delle possessioni paterne e di recarmi colà insieme col suo giovane fratello, volendo riparare i suoi torti. Egli diceva che era diventato immensamente ricco.

Gli risposi che venisse al Brasile. Io temevo che egli volesse divorare anche gli ultimi rimasugli della sostanza della marchesa d’Araniuez. Un anno più tardi, una lettera pressochè eguale, mi giungeva datata, questa volta, da Tampico. Egli aggiungeva di non poter lasciare i luoghi dove si trovava. Non risposi più. Sette mesi dopo, Almeida veniva rapito!

— Che sia stato lui?

— Comincio a sospettarlo.

— Che sia fuggito nelle grandi praterie e che gl’Indiani lo abbiano adottato e poi creato gran capo?

— Voi mi avete detto che ciò è possibile.

— È vero, e ve lo confermo. Può aver rinnegata la sua razza, giurato odio eterno ai visi-pallidi1 invasori dei territori di caccia e preso il nome di Grand’Aquila, ma non riesco a comprendere il motivo di questo rapimento. Odiava forse suo fratello?

— No, anzi lo amava, quando era piccino.

— Dunque non si può supporre che si tratti di una vendetta. [p. 127 modifica]

— No, quel dissipatore non ha mai odiato Almeida, che nulla gli aveva fatto, poichè era un bambino.

— Il marchesino Almeida, sapeva di aver avuto un fratello?

— No, glielo nascosi sempre, onde non maledicesse e odiasse colui che aveva rovinata la sua famiglia.

— Speriamo un giorno di spiegare questo mistero; è meglio che vi rinunciamo per ora, signor marchese, e che pensiamo ad agire. Una domanda ancora.

— Parlate, Sanchez.

— Sperate di ritrovare vivi i vostri nipoti?

— Il capo indiano forse no, poichè il barone di Chivry, nelle sue note, aveva scritto che Grand’Aquila doveva essere moribondo, ma Almeida sì.

— Quanti anni deve avere ora?

— Ventisei.

— Potrebbe, anzi dovrebbe essere vivo, ma voi sapete che gli Indiani sono in continua guerra, e che i loro combattimenti riescono tremendi. Tuttavia speriamo, signor marchese. Quando contate di partire da Monterey?

— Lascerei la città anche quest’oggi.

— Sono le nove antimeridiane, — disse la guida guardando un vecchio orologio a pendolo, che era in un angolo della stanza da loro occupata. — Fra tre ore possiamo lasciare Monterey e questa notte accampare alle falde della Coast-Range.

— Quanti uomini contate di prendere?

— Sei arrieros.

— Che cosa sono questi arrieros?

— Mulattieri conduttori di carovane, brava gente che attraversa senza esitare montagne e deserti, affrontando pericoli d’ogni specie.

— E poi?

— Avete un servo, mi avete detto?

— Sì, Sanchez.

— Acquisteremo sei mule pei viveri e tre cavalli per noi.

— E le armi?

— Gli arrieros sono armati ed equipaggiati completamente. Avete le vostre? [p. 128 modifica]

— Ho due carabine a due colpi e quattro eccellenti pistole.

— Non vi chiedo di più.

— Sta bene. Fissate il prezzo per voi e pei vostri uomini.

Caballero, non pensate a me. Io vado qua o là secondo che mi spinge il capriccio, ma non metto un prezzo ai miei servigi e tanto meno ne chiederei uno a voi che siete così cortese e che andate ad affrontare i grandi pericoli della prateria per salvare un vostro parente. Se la spedizione riuscirà e potrò condurvi fra la tribù che lo tiene prigioniero e a liberarlo, mi darete ciò che crederete. —

Il marchese, vivamente commosso, strinse fortemente la mano a quell’uomo che pareva così ruvido e che pur nascondeva sotto la sua rozza casacca un cuore tanto generoso.

— Grazie, Sanchez, — disse. — Ne riparleremo più tardi, se Dio ci farà uscire vivi dalle grandi praterie.

— Speriamolo, signor marchese.

— E gli arrieros?

— Cinquemila dollari saranno sufficienti per deciderli ad accompagnarci. La cifra è grossa, ma dacchè sono state scoperte le miniere d’oro, gli uomini fanno pagare cari i loro servigi.

— Formano un terzo della mia fortuna, ma sono pronto a sacrificare questa cifra.

— Allora lasciamo l’albergo, marchese, e andiamo ad arruolare i nostri uomini e ad acquistare gli animali ed i viveri. —

Vuotarono la bottiglia, poi uscirono dalla posada, così chiamansi gli alberghi e le taverne messicane, dirigendosi verso la baia di Monterey, sulle cui rive accampano usualmente i cercatori d’oro, reduci od in partenza per le miniere e gli arrieros delle carovane.

Monterey, nella cui baia era sbarcato il marchese Mendoza, ritenendo tale città la più atta per formare la carovana e anche la più vicina ai vasti territori indiani dell’est, è stata fondata nel 1605 dal navigatore Sebastiano Viscaino, quindi può considerarsi come una delle più antiche della Nuova California.

Situata nel fondo di una baia spaziosa, che può contenere parecchie centinaia di navi, un tempo fu il centro del commercio di tutt’e due le Californie. Ma verso il 1800, quando la potenza degli [p. 129 modifica]Spagnuoli cominciava a decadere nelle colonie americane, anche la città di Monterey cominciò a perdere il suo splendore.

Unitasi nel 1836 al Messico e dichiaratasi indipendente dalla sovranità spagnuola, ebbe ancora pochi anni di prosperità, ma l’insurrezione di Pico e l’assedio del 1847 da parte degli ammiragli degli Stati Uniti John e Sloat e del celebre capitano Fremont, la rovinarono quasi completamente.

Passata sotto la dominazione degli Stati dell’Unione, fu quasi abbandonata, per lasciare il campo a San Francisco di California che si popolava con rapidità e che si estendeva immensamente per diventare, come infatti divenne più tardi, la regina dell’Oceano Pacifico settentrionale.

Nel novembre del 1852, al tempo in cui si svolge la scena che abbiamo descritta, Monterey non contava che poche migliaia di abitanti, per la maggior parte messicani, indios mansos,2 e pochi yankees, ma per lo più o vecchi o ricchi, poichè tutti i giovani ed i validi si trovavano ancora nelle miniere d’oro, lungo i Rii Sacramento e San Gioachino e sui versanti della Sierra Nevada, alla ricerca delle pagliuzze d’oro nascoste nelle sabbie dei fiumi o delle pepite3 celate nel cuore delle rocce quarzose delle alte montagne.

Il messicano e il marchese, dopo aver attraversato un dedalo di viuzze fangose, giunsero sulle rive dell’ampia e splendida baia, in mezzo alla quale si vedevano galleggiare poche golette e qualche bastimento colle antenne e le vele calate confusamente sul ponte e nell’impossibilità di prendere il largo, non avendo più equipaggi, fuggiti tutti pei placers delle miniere d’oro.

Sanchez condusse il compagno sotto un’immensa tenda rizzata sulla spiaggia, attorno alla quale si vedevano un gran numero di cavalli e di muli e si aggiravano numerosi arrieros in attesa dei trafficanti delle miniere o delle praterie.

Bastarono poche parole per intendersi con sei di quegli uomini, scelti fra i più robusti e i meglio armati e che Sanchez conosceva a fondo, avendo intrapreso in loro compagnia parecchie spedizioni nelle grandi praterie dell’est. [p. 130 modifica]

Il messicano acquistò pel marchese e il suo compagno due vigorosi mustani, con le gambe secche, la testa leggera, il ventre stretto; eccellenti animali cotesti, dotati di una sobrietà a tutta prova e di una resistenza incalcolabile. Fece poi acquisto di due tende, di polvere, di palle, di viveri e di parecchi oggetti di scambio, che nella prateria dovevano recare grandi vantaggi, preferendo gl’Indiani una scure, od un coltello o delle conterie, alla polvere d’oro ed ai dollari.

A mezzodì i preparativi erano terminati. Sanchez che era montato sul suo cavallo, un mustano alto quanto un cammello, di forme massicce e vigorose, che lo aveva accompagnato altre volte nelle sue spedizioni, si mise alla testa della piccola carovana, dirigendosi verso la posada.

Il marchese che lo aveva preceduto, lo aspettava nel cortile assieme al suo servo brasiliano, un uomo sulla trentina, abbronzato come un vero meticcio, ben piantato, con le membra muscolose e gli occhi ardenti.

— È tutto pronto? — chiese il marchese.

— Tutto, señor, — rispose Sanchez.

— Manca nulla?

— Nulla.

— Partiamo adunque, e che Dio ci protegga.

— Avanti! — comandò Sanchez, scoprendosi il capo.

La carovana si rimise in marcia, attraversando la città. Il messicano cavalcava in testa, col suo rifle ad armacollo e le sue pesanti pistole alla cintola, poi venivano il marchese e il brasiliano Gaspardo egualmente armati e quindi i sei arrieros coi loro larghi sombreros4 che li riparavano dal sole e dalla pioggia come veri ombrelli, i loro costumi di velluto coi bottoni d’oro, i loro lunghi fucili, le loro pistole e i loro machetti messicani. Camminavano a fianco delle sei mule che portavano le provviste, le munizioni da fuoco, le tende e le otri d’acqua. Usciti dalla città, presero per un lungo sentiero sassoso, ombreggiato da aloè e da alberi di cotone, in mezzo ai cui rami si vedevano saltellare vere bande di [p. 131 modifica]scoiattoli, dirigendosi verso il San Benito, fiume che nasce sui monti della Costa o Coast-Range, come lo chiamano gli Americani e che va a scaricarsi nella baia di Monterey un po’ più al nord della città.

Quantunque fossero appena usciti dall’antica capitale della Nuova California, il paese circostante era quasi deserto. Non si scorgevano che qua e là pochi corral, specie di recinti destinati a raccogliere il bestiame, qualche miserabile fonda, luogo di fermata pei viaggiatori, e qualche abitazione che pareva abbandonata. Senza dubbio gli abitanti del contado avevano dato un addio ai campi, ed erano partiti pei placers, invasi tutti dalla febbre dell’oro.

— Siamo in una regione spopolata, — disse il marchese che si era messo a fianco di Sanchez.

— Son tutti partiti per San Gioachino, — rispose la guida.

— Si sono scoperte altre miniere?

— Se ne trovano continuamente, señor. Dappertutto giungono notizie della scoperta di nuovi e sempre più ricchi placers.

— Eppure sono molti anni che i minatori frugano e rifrugano le terre. [p. 132 modifica]

— Dal 1848, cioè dal tempo in cui lo svizzero Sutter scoprì i primi granelli d’oro fra le pale del suo mulino, ma pare che i filoni auriferi si estendano immensamente sotto tutta la Nuova California e anche nelle regioni vicine. Si dice che nel Colorado si siano trovate delle miniere immensamente ricche, però sarebbero d’argento.

— Queste scoperte devono attirare una moltitudine di persone.

— È vero, signor marchese. Le navi che approdano a San Francisco, sbarcano migliaia e migliaia di immigranti impazienti di gettarsi sui placers. La popolazione della Nuova California cresce con rapidità fulminea. Nel 1842 non contava che 5000 bianchi e 40,000 indiani: subito dopo la scoperta dell’oro contava 14,000 bianchi e 42,000 indiani; nel 1849 i bianchi erano 26,000, nel 1850 erano 120,000 e ora toccano il milione.

— È una vera invasione.

— Che aumenterà sempre, señor. Fra dieci anni queste terre, che ora vedete quasi spopolate, saranno gremite di nuove città e di nuovi villaggi, e il milione raddoppierà, triplicherà e forse ancora di più.

— Ma una simile fulminea invasione deve aver aumentato immensamente il prezzo dei viveri, considerato che nessuno si dedica all’agricoltura.

— I viveri hanno toccato prezzi favolosi, specialmente nei primi tempi della scoperta delle miniere. A San Francisco e a Monterey si pagava il pane 30 soldi la libbra, il formaggio 13 lire la libbra, una bottiglia di latte una lira, una di Bordeaux 3 scudi, un bicchiere di liquore lire 1,25, un fastello di legna lire 8, un paio di stivali 250, un fornello 800 lire, una stanza si affittava per 500 lire al mese, per il nolo di una barca si pagava 600 lire per sole sei ore, e la visita d’un medico costava 100 lire!

— Ma guadagnavano in proporzione, i minatori?

— Secondo la loro fortuna. Ho conosciuto dei minatori che in un solo giorno raccoglievano tanto oro da toccare le 50,000 lire, e altri che non ne raccoglievano che poche oncie dopo una settimana di accanito lavoro.

— Molti torneranno in patria ricchi. [p. 133 modifica]

— Sono pochi, señor. Quando sono ricchi scialacquano tutto nelle taverne di San Francisco, o di Sacramento, o di Monterey od al giuoco, sperando di riempire ancora le loro borse con poche fortunate giornate di lavoro, nel fondo dei polverosi claim.

— Sono i pozzi, questi claim?

— Sì, marchese.

— Rendono più delle sabbie?

— Talvolta danno delle ricchezze favolose, poichè in quei pozzi si trovano le pepite, ossia i veri ciottoli d’oro.

— E nelle sabbie dei fiumi cosa trovano, invece?

— Le pagliuzze d’oro.

— È più facile questo secondo lavoro?

— Bisogna rimanere immersi nell’acqua fino alle anche per parecchie ore, ed essendo le correnti dei nostri fiumi assai fredde, cagionano gravi malanni.

— Il lavoro delle miniere dura tutto l’anno?

— No, ai primi freddi si abbandonano i pozzi, perchè l’acqua che serve per la pulitura della terra aurifera, gela nei canali. Fra pochi giorni tutti i minatori torneranno alla costa, in attesa della primavera, ed incontreremo numerose bande. Quest’anno il freddo tarda, ma sulle vette della Sierra Nevada la neve è già caduta e i minatori, da qualche settimana, sono scesi nella pianura.

— E noi invece saliremo la Sierra?

— È necessario, marchese, e temo che avremo da faticare assai per aprirci il passo fra le nevi, ma non ostante passeremo.

— Troveremo Indiani lassù?

— No, marchese; l’indiano è ancora lontano. L’invasione dei bianchi lo ha cacciato da questi luoghi e vive là, verso l’est, fra i deserti salati e le grandi praterie. Là egli attende l’uomo bianco; là egli aspetta l’invasore per strappargli la capigliatura ed ornarne il proprio wigwan!5



Note

  1. Uomini di razza bianca.
  2. Indiani inciviliti.
  3. Pezzi d’oro.
  4. Ampi cappelli.
  5. Tenda.